Spìcciola si riscosse.
— È ora che mi muova — pensò — non è giusto che io mi lasci morire di freddo sulla porta di una casa disabitata. Ho sentito di cani che si sono lasciati morire sulla tomba del padrone, ma io non ho ancora un padrone, e questa non è una tomba. Proverò a sgranchirmi le gambe.
Tentò di dimenare la coda, ma ci riuscì con difficoltà, tanto era gelata. Si strofinò il naso nella neve, come aveva sentito dire che si fa per riscaldarne la punta, si scrollò il freddo di dosso e si incamminò.
Da che parte? Oh, non importa. Non sempre i cani sanno dove vanno, e si parla dei cani veri: figuratevi Spìcciola, che era un cane per gioco.
Spìcciola vagò qua e là per la città, schizzando via a tempo davanti ai tram che gli correvano addosso e specchiandosi ogni tanto in qualche pozzanghera.
E ogni volta, osservando la propria immagine, rifletteva:
— Strano, si direbbe che stanotte io sia diventato più grosso. Strano davvero. E pensare che sono rimasto un anno intero nella vetrina della Befana senza crescere di un centimetro.
Passò davanti al Monumento a cavallo e si provò a dargli una voce. Ma Spìcciola, com'è noto, non sapeva abbaiare. E poi, era caduta tanta neve che la barba del patriota era diventata tutta bianca, e il cavallo aveva sulle spalle una pesante coperta gelata. Spìcciola rimase qualche minuto a guardare in su, aspettando una risposta, ma poi dovette darsela a gambe, perché dalla criniera del cavallo si stava staccando un grosso blocco di ghiaccio.
Udì un fischio alle proprie spalle. Si voltò, era un garzone in bicicletta, con una grossa cesta sulle spalle. Spìcciola non aveva molta confidenza con gli uomini. In un certo senso era anche lui un cane selvaggio, come i lupi. Scappò lontano dal garzone.
Cominciava a sentirsi solo. Avrebbe tanto voluto avere qualcuno con cui scambiare due chiacchiere. Si può vivere senza amici, senza nessuno?
Spìcciola provò a parlare a se stesso. Si mise sopra una pozzanghera e parlò con la propria immagine riflessa nell'acqua:
— Dove vai piccolo cane sperduto e mezzo gelato? — domandò.
— Dove vai piccolo cane sperduto e mezzo gelato? — gli rispose la pozza, come un'eco.
— Non sai far altro che ripetere le mie parole?
— Non sai far altro che ripetere le mie parole? — ribatté l'immagine riflessa nell'acqua.
— Stupido — disse Spìcciola.
— Stupido — gli rispose l'immagine.
Ecco il frutto che si ricava a star soli: si finisce col trovarsi noiosi e stupidi.
Ormai Spìcciola avrebbe dato metà della sua coda per trovare compagnia. Pensò di rincorrere il garzone in bicicletta, ma quello, ormai, chissà dov'era. Un altro ciclista sbucò proprio davanti a lui da un vicolo e Spìcciola gli balzò incontro pieno di gioia. Il ciclista, che non se lo aspettava, perdette il controllo del manubrio e cadde nella neve lungo disteso.
— Brutto cane maledetto! — strillò, ancora prima di rialzarsi.
Fece rapidamente una palla di neve e la lanciò con forza. La palla colse Spìcciola in un occhio. Spìcciola corse via lamentandosi. Che bel successo, davvero!
Si accucciò contro un albero a curarsi l'occhio, che gli lagrima-va in continuazione. Sentiva un bruciore insopportabile: si sarebbe cavato l'occhio, pur di non sentirselo bruciare a quel modo.
Deciso a morire, si sdraiò su una rotaia. I primi tram avevano già spazzato la neve dall'acciaio, che rifletteva con bagliori sinistri i fiacchi raggi del sole. La rotaia ebbe un leggero tremito.
— Un tram si sta avvicinando. Era ora. Addio Spìcciola, non sei stato fortunato. Muori coraggiosamente, come ha fatto il Generale. I cani randagi imparino da te che non bisogna mai restare soli al mondo.
Il tram si avvicinò rapidamente, ma quando fu a pochi passi da Spìcciola frenò bruscamente. Un tranviere saltò a terra.
— C'è un cane, guardate. Un cane che vuol morire. Avete mai visto niente di simile?
Spìcciola balzò sulle quattro zampe e filò, con la coda bassa per la vergogna. Non lo lasciavano nemmeno morire in pace. Che cosa aveva dunque fatto di male?
— Ehi, ehi — gridava il tranviere per chiamarlo. — Fido, vieni qua, Fido.
E provò molti nomi, ma Spìcciola non rispose a nessuno, sebbene comprendesse che le intenzioni del tranviere non erano cattive.
— Fido, Floc, Wolf, Cucciolo! Senti, vieni qua dunque!
Spìcciola non si voltò nemmeno. Il tranviere risalì e rimise in
moto la vettura, scampanellando e stando bene attento alle rotaie.
Nascosto in un portone, Spìcciola vide il tram passargli rombando a dieci passi, ma non osò uscire. Eppure, come scampanellava allegramente, quel tram! Che faccia simpatica e aperta, quella del tranviere. Era proprio il tipo capace di togliersi la sciarpa dal collo per fasciare un cagnolino freddoloso, il tipo che sminuzza il pane nel latte bianco e dolce ogni mattina.
Spìcciola sospirò.
Veniva ora dal fondo della strada un fioco rumore di zoccoli e di ruote. Una carrozza trascinata da un vecchio ronzino avanzava lentamente dondolando.
— Mi getterò sotto la carrozza — decise Spìcciola. — Se non sarà il cavallo ad uccidermi con una zampata, ci penseranno le ruote.
Quando la carrozza fu a due passi, si lanciò tra le zampe del cavallo, chiudendo gli occhi. Ma il cavallo l'aveva visto. Hanno la vista buona, i cavalli, anche dietro i loro paraocchi. Gli zoccoli sfiorarono il pelo arruffato di Spìcciola senza fargli alcun male. La carrozza deviò impercettibilmente, ma abbastanza perché Spìcciola non finisse sfracellato sotto una ruota.
Spìcciola si trovò sospeso nel vuoto, aggrappato con le quattro zampe alla carrozza, anzi, a quella parte della carrozza cui si aggrappano i monelli per non prendere le frustate del vetturino e fare qualche tratto di strada gratis.
— Come sui tram — pensò Spìcciola, ricordandosi improvvisamente quel che il Monumento aveva narrato. — Chissà: forse anche Francesco, in questo momento sta saltando su qualche carrozza per farsi portare senza spesa. Guarda un po', non me ne va bene una: se un passante mi vede penserà certamente che sono un cane poco serio, un cane monello. Se sapesse quali erano le mie vere intenzioni!
A dir la verità, non ci si stava niente male, in quel posticino. Le ruote sollevavano un lieve spolverio di neve, che faceva il solletico al naso. Le case si ritiravano di corsa a destra e a sinistra.
— È bello andare in carrozza, — pensò Spìcciola. (Proprio lo stesso pensiero che aveva fatto Francesco.)
— Andrò dove va la carrozza — si promise Spìcciola — non credo che il vetturino possa vedermi. Mi scarrozzerò tutto il giorno avanti e indietro, poi qualcosa succederà. Sono contento di non essere morto. Brr… che brutta fine sarebbe stata. A quest'ora forse me ne starei in qualche tombino a far compagnia ai cannoni del Generale ed ai topi.
Dopo qualche tempo Spìcciola si stancò della sua posizione. Era molto curioso di sapere se sopra la carrozza si stesse ugualmente bene che sotto.
— Io dico che si starà molto meglio di sopra — pensò — ci debbono essere dei cuscini rossi, come negli scompartimenti di prima classe della Freccia Azzurra. Scommetto che ci si può sdraiare in lungo e in largo, senza dover arrotolare la coda. Ora mi provo a salire.
Servendosi dei denti, delle zampe e della coda si arrampicò in vetta alla carrozza, si lasciò scivolare lungo il mantice ed entrò. C'era un bel caldo, là dentro. Spìcciola sentì sotto le zampe la carezza morbida del velluto, proprio come aveva immaginato.
— Non ci si vede molto — pensò — ma non c'è bisogno di vederci per capire che ci si sta anche meglio che sulla Freccia Azzurra. Temo che bagnerò i cuscini con le zampe, ma che m'importa? È la prima volta in vita mia che vado in carrozza, e me la voglio proprio godere. Ora mi allungherò a comodo mio.
Difatti si stirò e si allungò… e urtò con la testa contro qualcosa, o piuttosto contro qualcuno.
— Chi c'è sulla carrozza? — pensò Spìcciola spaventato. Drizzò il muso, spalancò i suoi occhietti grigi e quel che vide gli andò dritto al cuore.
Disteso sui cuscini, il corpo reclinato su un braccio, gli occhi chiusi in un sonno beato. Spìcciola vide un bambino.