La Freccia Azzurra

Il magazzino era una cantina che stava proprio sotto la bottega. La Befana e Teresa dovettero fare non meno di venti viaggi su e giù per le scale per mettere i nuovi giocattoli in vetrina e sugli scaffali.

Al terzo viaggio Teresa era già stanca.

— Signora baronessa — diceva fermandosi a mezza scala e levando il capo da un grosso fagotto di bambole che le riempiva le braccia — signora, mi batte il cuore.

— Per fortuna, mia cara, per fortuna — rispondeva la Befana. — Se non ti battesse più, saresti morta.

— Mi fanno male le gambe, signora baronessa.

— Lasciale in cucina che riposino tanto con le gambe non si può portare nulla.

— Signora baronessa, non ho più fiato.

— Io non te l'ho rubato, mia cara, ce n'ho tanto del mio.

Davvero la Befana non sembrava mai stanca. Vecchia com'era,

saltellava su per i gradini a tempo di ballo, come se avesse una molla sotto i tacchi, e intanto non cessava di fare i conti.

— Questi pellerossa mi frutteranno duecento lire l'uno, anzi forse trecento. I pellerossa vanno tanto di moda, adesso. Questo treno è una meraviglia. Lo battezzerò la Freccia Azzurra, e voglio ritirarmi dal commercio se fin da domani non verranno i bambini a mangiarselo con gli occhi.

La Befana e Teresa dovettero fare non meno di venti viaggi su e giù per le scale per mettere i nuovi giocattoli in vetrina e sugli scaffali.


La Freccia Azzurra era veramente uno splendido treno, con un fascio di rotaie che a stenderle tutte avrebbero fatto il giro della piazza, con due passaggi a livello, la cabina per i manovratori, una stazione col capostazione principale, un macchinista e un capotreno con gli occhiali. A starsene tanti mesi sepolto in magazzino, il treno elettrico si era ricoperto di polvere, ma la Befana, con uno straccio, lo ripulì a nuovo, facendo splendere la sua vernice, azzurra come l'acqua di un laghetto alpino. Tutto il treno era verniciato di azzurro, compresi il Capostazione, il Capotreno e il Macchinista.

Quando la Befana gli ebbe tolto la polvere che gli copriva gli occhi, il Macchinista si guardò attorno ed esclamò:

— Finalmente ci si vede. Ho l'impressione di essere rimasto per dei mesi sepolto in una galleria. Bene, quando si riparte? Io sono pronto.

— Calma, calma — intervenne il Capotreno, pulendosi gli occhiali nel fazzoletto. — Senza il mio ordine non parte nessuno.

— Contate le righe che avete sul berretto — disse una terza voce — e vedrete chi è che comanda, qui.

Il Capotreno contò le proprie righe, che erano quattro, e contò quelle del Capostazione, che erano cinque. Poi sospirò, si rimise gli occhiali e se ne stette zitto. Il Capostazione camminava avanti e indietro per la vetrina, dondolando il bastoncino col semaforo che gli serviva per dare le partenze. Sul piazzale della stazione era schierato un reggimento di bersaglieri di piombo, con in testa la fanfara e un colonnello. Più a destra c'era un'intera batteria di cannoni, con un generale pronto ad ordinare il fuoco.

Dietro alla stazione si stendeva invece una pianura verde, interrotta da strane montagne che parevano tagliate nel panettone: nella pianura erano accampati i pellerossa, attorno al loro capo Penna d'Argento, mentre dalle cime delle montagne si affacciavano i cow-boys a cavallo, pronti a lanciare i loro lazos.

Sospeso a mezz'aria sopra il tetto della stazione c'era un aeroplano. Il pilota si sporgeva dalla carlinga a guardare. Bisogna dire che si trattava solo di un pilota seduto perché così l'aveva fatto il fabbricante, e in piedi non si sarebbe potuto alzare perché non aveva gambe. Accanto all'aeroplano era appesa una gabbia rossa con un canarino, che si chiamava appunto il Canarino Giallo: se si faceva dondolare la gabbia, il canarino trillava.

Nella vetrina si trovavano ancora: una dozzina di bambole di tutte le forme, un orso giallo, un cane di pezza di nome Spìcciola, una scatola di pastelli, una scatola del meccano, un teatrino con tre marionette e un veliero a due alberi: sul ponte di comando passeggiava nervosamente il capitano, al quale per distrazione avevano dipinto

la barba solo su metà della faccia, tanto che lui doveva cercare di non mostrare mai la metà sbarbata per non fare brutta figura.

Il Capostazione e il Capitano Mezzabarba si guardavano di traverso, fingendo di non vedersi: si capiva benissimo che erano gelosi l'uno dell'altro, e chissà, forse erano sul punto di sfidarsi a duello per disputarsi il comando supremo della vetrina.

Tra le bambole si erano già formati due partiti: uno sospirava per il Capostazione, l'altro lanciava occhiate tenere a Mezzabarba. e solo una bambolina nera, con gli occhi più bianchi del latte, guardava il Pilota Seduto, e nessun altro.

Il cane di pezza, dal canto suo, avrebbe voluto abbaiare, scodinzolare e saltellare per la gioia ma non poteva farlo per tutti e tre, e non voleva scegliere un padrone solo per non offendere gli altri due: perciò se ne stava zitto e immobile, con un'aria un po' stupita. Il suo nome era scritto in rosso sul collare: Spìcciola. Forse si chiamava così perché era tanto piccolo?

Ma successe qualcosa che fece dimenticare le gelosie e le rivalità. La Befana alzò la saracinesca e il sole entrò nella vetrina come una cascata d'oro, suscitando in tutti un terribile spavento, perché nessuno lo aveva mai visto prima.

— Corpo di mille balene cieche! — urlò il Capitano Mezza-barba. — Che cos'è questo ciclone?

— Aiuto! Aiuto! — squittirono le bambole, svenendo una addosso all'altra. Il generale fece subito piazzare i cannoni in direzione del nemico, per respingere ogni attacco. Solo Penna d'Argento non si scompose. Si tolse di bocca la lunga pipa, come faceva soltanto nelle grandi occasioni, e disse:

— Giocattoli bianchi, niente paura. Stare Grande Spirito Sole, stare amico. Guardate come piazza allegra perché sole arrivato.

Tutti guardarono fuori della vetrina. La piazza infatti scintillava come se ogni cosa ridesse. La neve sui tetti sembrava infuocata. Un dolce calore entrava per i vetri polverosi.

— Corpo di mille balene ubriache — borbottò ancora Mezzabarba — io sono un lupo di mare, non un lupo di sole.

Le bambole, chiacchierando festosamente, si misero senz'altro a prendere la tintarella.

Davanti alla vetrina, però, c'era un po' d'ombra. C'era qualcuno che non lasciava passare il sole. L'ombra andava a cadere sul Macchinista, che si arrabbiò un poco:

— Ecco, proprio a me doveva toccare. Tutti si riscaldano e io

no.

Cercò di capire la ragione dell'ombra molesta e vi fissò gli occhi acuti, abituati a fissare per ore le rotaie, durante i lunghi viaggi. Gli occhi del Macchinista incontrarono un altro paio d'occhi, grandi, spalancati come finestre.

Vi si poteva guardar dentro, come si guarda dentro una casa quando non ci sono le tendine sui vetri. E dentro, c'era soltanto una grande tristezza.

— Strano — pensò il Macchinista della Freccia Azzurra — avevo sempre sentito dire che i bambini sono allegri e non fanno che ridere e giocare dalla mattina alla sera. Questo non mi sembra allegro per nulla. Che cosa gli avranno fatto?

Il bambino triste rimase per un pezzo a guardare nella vetrina, ma chissà poi se vedeva davvero ciò che guardava? I suoi occhi difatti traboccavano di lagrime, e ogni tanto una lagrima più grossa scendeva giù per la guancia e si infilava nel naso o fra le labbra. Nella vetrina tutti trattennero il fiato: non avevano mai visto niente del genere, e la cosa li stupiva assai.

— Corpo di mille balene bagnate — borbottò il Capitano Mezzabarba — segnerò l'avvenimento sul giornale di bordo.

Finalmente il bambino si asciugò gli occhi con la manica della giacchetta, si avvicinò alla porta della bottega, posò la mano sulla maniglia e spinse.

Si udì lo squillo roco di un campanello, che sembrava lamentarsi e chiamare aiuto.

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