Francesco

Signora baronessa, c'è qualcuno in negozio — chiamò la serva.

La Befana, che era salita in camera sua a pettinarsi, scese velocemente la scaletta, continuando ad appuntarsi i capelli con le forcine che teneva tra le labbra.

— Chiunque sia — borbottò — perché non chiude la porta? Non ho udito il campanello, ma ho sentito subito la corrente d'aria.

Inforcò gli occhiali per darsi importanza ed entrò nella bottega a piccoli passi lenti, come devono fare le vere signore, soprattutto se sono quasi baronesse; ma poi, vedendo il bambino poveramente vestito che le stava davanti e si rigirava tra le mani un baschetto azzurro, capì che non era il caso di fare tante cerimonie.

— Ebbene? Che c'è? — domandò con fare brusco come per dire: spicciati perché non ho tempo da perdere.

— Ecco… Signora… — mormorò il bambino.

Nella vetrina erano tutt'orecchi. ma non riuscirono a sentire.

— Come ha detto? — bisbigliò il Capotreno.

— Ssst! — fece il Capostazione — non fate chiasso.

— Ragazzo mio — esclamò la Befana, che si sentiva scappare la pazienza, come ogni volta che doveva parlare con gentucola che

non sapeva nulla dei suoi titoli nobiliari — ragazzo mio, il tempo è prezioso. Dunque sbrigati, oppure lasciami in pace e scrivimi piuttosto una bella lettera.

— Ecco, signora, io le ho già scritto — disse il bambino tutto d'un fiato per non perdere il coraggio.

— Ah sì? E quando?

— Quasi un mese fa.

— Ora vedremo. Come ti chiami?

— Monti Francesco di Giuseppe.

— L'indirizzo?

— Via Garibaldi, 18.

— Hm… Monti, Monti… Ecco, Monti Francesco. Esatto, mi hai scritto ventitre giorni fa, chiedendomi in regalo un treno elettrico. E perché soltanto un treno? Avresti potuto chiedermi anche un aeroplano, o un dirigibile, o magari un'astronave interplanetaria.

— Ma a me piace il treno, signora Befana.

— Carino, lui, gli piace il treno… Ma stammi a sentire: due giorni dopo la tua lettera è venuta qui tua madre.

— Sì, gliel'ho detto io di venire. L'ho tanto pregata: va' dalla Befana, le ho detto, è così buona, non ci dirà di no.

— Per tua norma e regola io non sono né buona né cattiva. Io faccio il mio lavoro, e non posso lavorare gratis. Tua madre non aveva soldi per pagare: voleva lasciarmi un vecchio orologio in cambio del treno, ma io non posso vedere gli orologi perché fanno passare il tempo troppo in fretta. Le ho anche ricordato che mi deve pagare ancora il cavalluccio dell'anno scorso e la trottola di due anni fa. Lo sapevi tu questo?

No, il bambino non lo sapeva. Le mamme non dicono mai i loro dispiaceri ai bambini.

— Ed ecco perché quest'anno non hai avuto nulla. Mi sono spiegata? Ti sembra che io abbia ragione?

— Sì, signora, lei ha ragione — mormorò Francesco — io pensavo invece che lei si fosse scordata del mio indirizzo.

— No, anzi me lo ricordo molto bene. Ce l'ho scritto qui vedi? E un giorno o l'altro manderò la mia segretaria a prendere i soldi per i giocattoli degli anni passati.

La vecchia serva che stava origliando, a sentirsi chiamare «la mia segretaria» fu per svenire, e dovette bere mezzo bicchiere d'acqua per ripigliar fiato.

— Quale onore, signora baronessa — disse poi alla sua padrona quando il bambino se ne fu andato.

— Prego, prego — borbottò ruvidamente la Befana. — Ma intanto metti sulla porta il cartello «chiuso fino a domani», così non verranno altri scocciatori.

— Devo abbassare anche la saracinesca?

— Sì, è meglio. Tanto, oggi non si possono concludere buoni affari.

Teresa corse ad eseguire gli ordini. Francesco era sempre là, col naso incollato alla vetrina, ad aspettare chissà che cosa. La saracinesca che scendeva per poco non lo colpì sul capo. Francesco appoggiò la fronte alla lamiera polverosa e singhiozzò.

Nella vetrina quel singhiozzo fece un effetto straordinario: una dopo l'altra, quasi senza accorgersene, le bambole cominciarono a singhiozzare e singhiozzarono tanto forte che il Capitano Mezzabarba sghignazzò:

— Scimmie! Ecco che hanno bell'e imparato a piangere. — Sputò oltre il parapetto del suo veliero e disse ancora:

— Scimmie.

Poi tacque. Ora i singhiozzi del bambino non si udivano più: si udiva invece il rumore dei suoi passi che si allontanavano, uno, due, uno. due, un rumore malinconico, sempre più lontano. Poi più nulla.

Allora il Capitano Mezzabarba sputò di nuovo dal parapetto e ghignò:

— Corpo di mille balene stupide! Piangere per un treno. Non darei il mio veliero per tutti i treni di tutte le ferrovie del mondo.

Il Grande Capo Penna d'Argento si tolse la pipa di bocca, come doveva fare ogni volta per poter parlare e disse:

— Capitano Mezzabarba non dire verità. Lui stare molto commosso per povero cucciolo bianco.

— Chi, io? Che cosa vuol dire commosso, per favore?

— Volere dire metà faccia piangere e altra metà avere vergogna.

Mezzabarba si guardò bene dal voltarsi, perché la sua mezza faccia sbarbata piangeva davvero. Ma lui gridò:

— Smettila, uccellaccio della prateria. Se vengo giù ti spiumo come il tacchino di Natale.

E continuò per un pezzo a vomitare ingiurie molto colorite, tanto che il Generale, sperando che stesse per scoppiare la guerra, diede l'ordine di caricare i cannoni. Ma Penna d'Argento si era già rimessa la pipa in bocca e non parlò più, anzi, si addormentò placidamente.

Dormiva sempre con la pipa in bocca.

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