CAPITOLO XIX

Paul Hagbolt affondò in un mare respirabile di calore, di dolci profumi di spezie, e di allegri colori a pastello, dominati dal rosa… benché qua e là si vedessero delle striscie verdi.

Per pochi istanti, egli non ebbe la piena certezza di essere stato trascinato all'interno di un veicolo. Gli parve invece di avere subito un'istantanea traslazione in un altro piano di esistenza, in un altro punto dell'universo… un punto che aveva la calda, quieta e viscosa intimità di una giungla e di un'alcova insieme.

Non aveva visto il disco volante, se non per brevi istanti. Per quasi tutto il tempo in cui esso aveva galleggiato nell'aria sopra il gruppo, egli era stato inginocchiato, respirando acqua salata e soffocando e cercando di afferrare Miao. Quando era stato afferrato e tirato su, dapprima aveva pensato che lui e Miao fossero stati sollevati dall'ondata successiva, e stessero avanzando sulla cresta, come la piattaforma.

Poi erano venuti tre lampi, fuggevoli eppure così vividi da sconvolgere: per prima, una faccia enorme, elegante, verde-purpurea di gatto; poi, due occhi fissi, con incredibili iridi a cinque petali intorno alle nere stelle a cinque punte delle pupille; e poi, una zampa lunga, snella, grande come una mano, con stretti cuscini di pelo indaco e quattro artigli dalla curva crudele, fatti di corno traslucido, grigio e viola… ebbe l'impressione che quegli artigli fossero stati affondati fino a un attimo prima nel colletto della sua giacca, e forse nel suo collo, reggendolo.

Un istante dopo, egli stava galleggiando con una lieve spinta rotatoria in quel mare caldo, zuccheroso, profumato di spezie e chiazzato di verde, dove il rosa dominava.

Un buco nero in quel mare apparve davanti a lui, e attraverso di esso egli vide Margo, affondata fino all'anca nell'acqua sudicia e schiumosa, con in mano qualcosa di grigio e luccicante, con lo sguardo in alto, verso di lui, e accanto a lei vide Doc, macchiato di schiuma, e Rama Joan, sporca di sabbia, con i capelli rosso-dorati bagnati e grondanti e sporchi. Poi quelle immagini rimpicciolirono con incredibile rapidità, come se fosse stato interposto un telescopio alla rovescia. Malgrado ciò, fu in quel momento che Paul cominciò a credere di trovarsi all'interno del disco volante che aveva visto fuggevolmente… il disco volante che ora doveva sfrecciare più veloce di qualsiasi proiettile, benché egli non provasse la minima sensazione di accelerazione. Poi il foro si chiuse su un velo delicatamente rosato… sì, era veramente uno strano fiore rosa.

Una parola si formò nella sua mente: antigravità. Se questo veicolo trasportava un proprio campo di gravità-nulla… e forse anche d'inerzia-nulla… la cosa poteva spiegare il fenomeno dell'assenza di una pressione gravitazionale, e anche il suo galleggiamento, con il corpo grondante acqua salmastra, circondato da gocce rotonde galleggianti di quell'acqua salmastra, nell'aria respirabile e profumata di una stanza rotonda, appiattita, contornata di fiori vivi.

Dei piccoli artigli punsero la sua mano sinistra, come una dozzina di vespe; Miao era terrorizzata dalle strane sensazioni, e offesa dall'acqua di mare, e si aggrappava con eccessivo vigore a lui. Nell'improvviso dolore, Paul scrollò il corpo, scacciando la gattina infuriata, e lei sfrecciò via nell'aria e svanì con uno sbuffo di petali giallo-rosa in un'aiuola sospesa.

Un istante dopo, egli venne afferrato alle spalle, e gettato contro una superficie dura, liscia come il velluto, che misteriosamente doveva essersi trovata tra le aiuole sospese di fiori. La cosa che lo spaventò di più fu che l'arto che gli circondò il collo… un arto snello, forte e agile, coperto di pelo verde a strisce viola… aveva due gomiti.

Con una velocità fulminea, che non gli permise di vedere con chiarezza, la creatura-tigre verde e violetta lavorò sui polsi e le caviglie di Paul, uniti da una forza invincibile. Delle zampe, con piccoli artigli grigio-viola, lo toccarono senza graffiarlo; una volta, avvertì la coda di qualcosa di simile a un serpente. Poi la creatura si allontanò da lui, spiccando un agile balzo nella stanza, e si tuffò in un'aiuola fiorita, per seguire Miao. Una lunga coda verde che finiva in una sfumatura viola, dal pelo liscio e snella e aggraziata, svanì in una grande esplosione di petali.

Cercò di sollevarsi dalla superficie sotto di lui, e scoprì di essere solo in grado di muovere il capo. Benché si trovasse ancora in stato d'imponderabilità, era, in virtù di chissà quale congegno, incollato saldamente alla stessa superficie… come vide con chiarezza ancor maggiore quando guardò direttamente in alto, e vide, a non più di tre metri di altezza, (o sotto di lui, o da un lato… non sapeva come orientarsi, in assenza di gravità) un riflesso a braccia e gambe aperte, come quelle di un'aquila, sporco di sabbia e bagnato come un pulcino, pallido, e con gli occhi allucinati… la sua immagine riflessa, che era rinforzata da una dozzina di sempre più fievoli riflessi dei riflessi dello stesso quadro ridicolo e umiliante.

La forma interna e il motivo decorativo del disco volante gli furono finalmente chiari. Una metà buona dei fiori che lui aveva visto non erano altro che riflessi speculari. Soffitto e pavimento erano rotondi, piatti specchi posti l'uno di fronte all'altro, separati da uno spazio di circa tre metri, e con un diametro di almeno sei metri. Lui era disceso, braccia e gambe in fuori, vicino al centro di uno di essi. Il bordo tra i due specchi era lussureggiante di fiori esotici, dai grandi petali carnosi, fiori grandi e piccoli… giallo pallido, azzurro, viola, magenta, ma soprattutto rosa e rosso tenue. Fiori che parevano vivi, perché c'erano foglie a forma di falce, di spada e di lancia, e si potevano scorgere dei rami nodosi e sinuosi… probabilmente il loro serbatoio idroponico, o qualunque fosse il vaso che li conteneva, doveva riempire la maggior parte del bordo esterno aerodinamico.

Ma quella specie di frittella che era il bordo — divisa da intersezioni in spazi triangolari — non poteva essere interamente piena di vegetazione, perché nascosto tra quel lussureggiante groviglio, oltre i suoi piedi immobilizzati, riuscì ora a scorgere un quadro di comando grigio-argento… comunque, si trattava di una superficie piatta irta di lisce escrescenze d'argento, e tutta ricoperta di forme e figure geometriche. Sforzandosi di girare il capo per quanto gli era possibile, egli poté vedere degli analoghi pannelli oltre ciascuna delle sue braccia aperte, e i tre pannelli erano situati alla stessa altezza, agli apici di un triangolo equilatero idealmente tracciato all'interno del disco volante… ma ciascuno di essi era seminascosto dalla vegetazione… proprio come degli oggetti funzionali ma squallidi sarebbero stati nascosti da un abile arredatore in un piccolo appartamento abitato da una donna stilèe e di spiccato gusto estetico… come un radiatore, un acquaio, un telefono, un giradischi.

L'intera scena era immersa in una luce vivida, calda, che ricordava una spiaggia d'estate, e che veniva da… non riuscì a scoprirne l'origine. Un sole invisibile al chiuso… un effetto spettrale e bizzarro.

Ancor più spettrale e bizzarra, e infinitamente più vicina, fu la sensazione che egli provò subito dopo… e cioè che la sua mente fosse stata invasa, e i suoi ricordi e la sua conoscenza rimescolati e setacciati, come se fossero stati un mazzo di carte. Ricordò futilmente che c'erano dei luoghi comuni, nei quali si diceva che un uomo in procinto di annegare rivivesse in pochi secondi tutta la sua vita, e si domandò se questo si poteva applicare anche nel momento di annegare tra i fiori… o di essere crocifisso da una tigre, che si preparava a squartarlo e a divorarlo.

Le sensazioni che si susseguivano nella sua mente furono così veloci che egli poté captarne solo immagini indistinte e frammenti spezzati. Erano ciò che lui possedeva, i suoi beni privati mentali, eppure era incapace di osservarli uno per uno, mentre passavano alla velocità del lampo e sbiadivano… l'ultima delle umiliazioni! Fu capace di cogliere soltanto alcune immagini, verso la fine di quella 'perquisizione doganale' della mente, e scoprì che la sua mente mostrava una singolare preoccupazione per i giardini zoologici e i balletti classici.

Si guardò intorno, ma non riuscì a scorgere alcun segno della creatura-tigre e di Miao. Il sole invisibile continuava a irradiare una luce spettrale. Le aiuole di fiori erano mortalmente immobili e silenziose, e trasudavano i loro strani, esotici profumi.


Donald Merriam era giunto ormai a metà del suo terzo passaggio nell'ombra del Vagabondo. Alla sua destra c'era il lato notturno dalle strane chiazze verdi, che lo faceva ancora pensare al ventre di un ragno. Davanti a lui c'era uno scaffale di stelle, e alla sua sinistra l'elissoide nero, che si allungava continuamente, della luna, con i cupi filamenti che si alzavano dalla punta e s'intrecciavano nello spazio come i fili di una mostruosa tela di ragno, su quello sfondo dal fitto scintillare. Cominciava a sentirsi stanco, e aveva freddo, e aveva rinunciato a stabilire una comunicazione radio.

Un punto fievole e giallognolo apparve contro l'oscuro disco del Vagabondo, più avanti, vicino allo scaffale di stelle. Rapidamente diventò una goccia giallognola, orizzontale rispetto a lui, poi una doppia virgola con un piccolo spazio nero al centro, come i nuovi fari d'automobile fluorescenti che erano così di moda, infine diventò una coppia di fusi gialli, che aumentava continuamente di dimensioni.

Soltanto allora Don si accorse che quello non era un nuovo aspetto della superficie del Vagabondo, ma una cosa materiale… o due cose… che si dirigevano direttamente sul Baba Yaga. Trasalì, e batté le palpebre, e un istante dopo, senza alcuna decelerazione graduale che egli potesse notare, i due fusi gialli si erano immobilizzati ai due lati del Baba Yaga, e così vicini che la cornice dello schermo visore tagliava nettamente l'estremità esterna di ciascuno fuso.

Ora gli sembravano due vascelli spaziali a forma di disco, tra i nove e i quindici metri di larghezza, e con uno spessore di tre o quattro metri. Per lo meno, egli ebbe la speranza che si trattasse di veicoli cosmici… e non, non… animali.

La sommaria valutazione della loro forma venne confermata quando, senza alcun lampeggiare visibile di razzi stabilizzatori, essi s'inclinarono verso di lui e diventarono due circoli gialli, uno con un triangolo violetto dipinto su di esso, l'altro con una V violetta, le cui barrette si stendevano dal centro al bordo.

Poi egli sentì una lieve pressione sul corpo rivestito dalla tuta spaziale, mentre il Baba Yaga veniva attirato irresistibilmente tra le sue scorte… era così che cominciava a considerarle… fino a quando solo i margini inferiori del loro bordo apparvero sullo schermo. Da quel momento in poi, essi mantennero con esattezza la posizione… come se si fossero ancorati alla sua piccola astronave lunare… e anche al suo corpo, gli parve d'intuire, anche se la sensazione era veramente bizzarra.

La cosa successiva che egli notò fu che le pallide macchie verdognole stavano discendendo lentamente, lungo la curva nera del Vagabondo, strisciando come se fossero state cimici fosforescenti!

Poi vide che lo scaffale di stelle si stava allargando, mano a mano che il nero elissoide della luna si allontanava.

Stando a tutte le indicazioni, il Baba Yaga veniva attirato dai dischi volanti che costituivano la sua scorta, veniva attirato in alto, a una velocità di circa cento miglia al secondo. Eppure lui non aveva avvertito neppure un atomo, delle forze gravitazionali che avrebbero dovuto schiacciarlo contro la parete, o addirittura fargliela sfondare.

Non c'era stato un solo momento, nelle ultime ore, neppure durante la bizzarra traversata della Luna, nel quale Don avesse pensato, Questa deve essere un'allucinazione. Lo pensò allora. L'accelerazione, e il prezzo che si pagava, per ottenerla, in carburante e in pressione di gravità, erano il nucleo delle sue conoscenze tecniche. Ciò che ora stava accadendo al suo corpo e al Baba Yaga non era semplicemente una mostruosa intrusione dell'ignoto, ma era una palese, totale contraddizione di tutto ciò che lui sapeva sul volo spaziale e sulle sue ferree limitazioni. Da cinque miglia al secondo, rispetto al Vagabondo, a cento miglia al secondo, ad angolo retto rispetto alla rotta precedente, eppure senza avvertire minimamente il cambiamento, senza neppure un indizio dell'accensione di qualche reattore principale, più abbagliante ed esplosivo di una stella azzurra… questo non era soltanto misterioso e soprannaturale, era del tutto impossibile!

Eppure le macchie verdi continuavano a inabissarsi, scendendo per la curva del pianeta, e il grande scaffale colmo di stelle si allargava, in alto, e d'un tratto il Baba Yaga si trovò nella luce del sole, sopra il Vagabondo. I raggi riflessi colpirono i suoi occhi dolorosamente, come pugnalate, dalla parte sinistra dello schermo, e dal bordo giallo della sua scorta di sinistra. Chiuse subito gli occhi, cercò a tentoni gli occhiali polarizzati, li infilò, aprì gli occhi di nuovo, e guardò.

Il Baba Yaga, saldamente ancorato alle sue scorte, stava ancora salendo nel cielo intorno al Vagabondo, a velocità fantastica. Lo schermo s'inclinò un poco a destra, e, guardando al di sopra della sommità curva del pianeta, Don poté vedere la Terra, la cui faccia mostrava principalmente l'Oceano Pacifico, ora, e l'iroso sole bianco e abbacinante, che riusciva a ferirgli gli occhi benché lui indossasse gli occhiali polarizzati.

La superficie del pianeta, sotto di lui, era immersa nella notte, poi apparve una falce della faccia illuminata, quasi tutta gialla, ma con il bordo superiore colorato di violetto.

Intrecciati nello spazio, sopra e tutt'intorno a lui, su uno sfondo sfolgorante di stelle, c'erano i sottili filamenti bianchi che uscivano dalla punta della Luna. Due erano più grossi, ora… non erano più filamenti, ma funi.

Avanti, i filamenti convergevano e scendevano in una grande curva verso il polo nord del Vagabondo. Là, vicinissimi ma sempre separati, essi parevano semplicemente unirsi alla superficie vellutata del pianeta, alcuni sulla faccia illuminata, altri sulla faccia buia, in tutto una dozzina, non di più. Visti così essi avevano l'aspetto di viticci misteriosi, senza foglie, che spuntavano dalla sommità del Vagabondo. Il Baba Yaga e le sue scorte stavano sfrecciando come palle di cannone verso lo stesso punto.

Poi, nell'attimo in cui parve che tra una frazione di secondo essi avrebbero oltrepassato le corde sempre più grosse, o si sarebbero scontrati con esse, le più incrollabili convinzioni di Don intorno al volo spaziale furono nuovamente frantumate, quando il Baba Yaga e i due dischi di scorta persero quasi tutta la loro velocità in una frazione di secondo, senza alcuna transizione apparente, e simultaneamente precipitarono verticalmente verso il luogo nero e giallo ove i viticci avevano le loro radici.

C'erano due ipotesi: o i dischi volanti che costituivano la sua scorta possedevao il motore antigravitazionale del quale tutti ridevano, a eccezione degli scrittori di fantascienza, e stavano trasportando il Baba Yaga nel loro campo di gravità-nulla, o lui aveva le allucinazioni, oppure…

Si voltò verso il quadro di comando, e cercò di ottenere un segnale radar dalla superficie sottostante. Con sua sorpresa, il segnale ritornò immediatamente.

Si trovavano a trecentoventi miglia dalla superficie, e stavano scendendo a una velocità di dieci miglia al secondo.

Automaticamente, toccò i comandi dei razzi stabilizzatori, per invertire la posizione del Baba Yaga, per poi essere in grado di frenare la caduta con quel poco di combustibile che gli era rimasto.

I razzi stabilizzatori non fecero spostare di un millimetro il Baba Yaga. Lo schermo continuò a mostrare la superficie del pianeta, in basso. E solo in quel momento Don notò che stavano scendendo come piume, parallelamente alla parte illuminata di uno dei filamenti che erano diventate corde, e poi grandi liane. Ora quel 'filamento' pareva enorme, dello spessore di almeno un miglio, e la sua pallida estensione riempiva un quarto dello schermo.

Ma con un fantastico gioco di prospettiva, come una colonna di Frank Lloyd Wright ancor più esagerata, enorme verso il tetto, sottilissima verso il pavimento, il cavo-peduncolo-liana si restringeva fin quasi a diventare un punticino, dove incontrava la faccia notturna del pianeta, in un punto vicinissimo alla linea dell'aurora.

E guardando la superficie di quella strana colonna, così da vicino, vide che non era affatto levigata, ma si trattava di una sorta di sostanza liscia piena di pezzi e massi dai contorni frastagliati, di ogni dimensione e di ogni folle angolazione… certamente la mescolanza di polvere lunare e roccia lunare che lui stesso aveva immaginato venisse risucchiata dal grande vortice sulla punta della luna.

Le rocce si muovevano lentamente, verso il basso, scendendo come un treno di poco più veloce su un binario parallelo… e l'impressione che ne ebbe Don fu questa.

Ma la cosa voleva dire che l'intera colonna stava precipitando alla medesima velocità del Baba Yaga… dieci miglia al secondo. Perché non si frangeva in un gigantesco scoppio di roccia, nel punto in cui colpiva il Vagabondo?

Improvvisamente, le rocce nella grande colonna cominciarono a cadere come fulmini, acquistando contorni irreali, diventando una scia indistinta e levigata per l'enorme velocità… proprio come se il treno del binario accanto avesse cambiato marcia, trasformandosi in un super-rapido.

La colonna aveva accelerato, oppure…

Un veloce controllo radar gli mostrò che la quota del Baba Yaga e della sua scorta era diminuita a trenta miglia, ma che la velocità di discesa era adesso di un solo miglio al secondo.

Allora la seconda ipotesi era giusta: loro avevano rallentato.

Il radar indicava però che non stavano rallentando ulteriormente. Il tempo era sempre più scarso, e lui utilizzò gli ultimi venti secondi per effettuare una ricognizione radar della superficie sottostante, cercando di ricavare qualche rilievo. Ma non ce n'erano… non c'erano luci sulla fascia oscura, c'era soltanto una pianura di velluto color limone, sulla faccia illuminata. La colonna di polvere e roccia lunare continuava a precipitare, e conservava la sua enorme ampiezza.

Stavano calando, ora, verso la zona d'ombra del Vagabondo. Don si tolse gli occhiali. I bordi dei dischi volanti mostrarono la stessa fosforescenza giallognola che avevano mostrato dietro il pianeta. Per un istante, gli parve di vederli riflessi lividamente sulla nera superficie sottostante. Si preparò allo schianto, e alla morte.

Poi, d'un tratto, la fosca superficie non era più là, e, come se il Baba Yaga e la sua scorta fossero penetrati per magia attraverso il soffitto di una gigantesca sala illuminata, egli si ritrovò a fissare un'altra superficie, molto, molto più in basso.

Non c'era dubbio che fosse molto più in basso, perché la colonna di roccia lunare, che appariva enorme alla sommità, si restringeva fin quasi a un punto laggiù, e veniva trasformata, da quel fantastico gioco prospettico, in un bizzarro triangolo di roccia lunare.

Pareva logico fare almeno una supposizione. Tutta la superficie del Vagabondo che lui aveva visto fino a quel momento… la superficie che aveva riflesso la luce del sole e le onde radar con tanta fedeltà… la superficie che era stata gialla e violetta sulla faccia diurna, nera con macchie verdi fosforescenti sulla faccia notturna… non era nulla di più di un involucro, una pellicola così sottile e priva di sostanza che un'astronave fragile come il Baba Yaga poteva attraversarla, alla velocità di un miglio al secondo, senza subire il minimo effetto, né urti, né danni, una pellicola che formava il tetto e lo schermo di tutta la luce artificiale e della vera vita del Vagabondo, una pellicola tesa ovunque, a circa venti miglia di altezza dalla vera superficie del pianeta… se quella che lui stava guardando, ora, era la vera superficie, e non qualche nuova illusione.

Si trattava della vera superficie, se la complessità e tutte le apparenze di solidità potevano essere ancora dei validi criteri di valutazione. Sotto di lui, visibile in tutto lo schermo visore, si stendeva una pianura immensa, immersa in una luce dolce, che scintillava di laghi, o per lo meno di lisce macchie turchesi di qualche tipo, una pianura bucherellata da cupi pozzi circolari che scintillavano sul fondo, larghi un miglio e più, una pianura che a parte questi elementi era gremita di tutti i tipi di oggetti massicci, di tutti i colori e di tutte le solide forme geometriche immaginabili… coni, cubi, cilindri, eliche, emisferi, siqurrat, prismi… nessun oggetto che Don potesse riconoscere, se non come astrazione.

Giganteschi edifici, macchine, veicoli, pure forme artistiche? Avrebbero potuto essere qualsiasi cosa.

Diversi confronti balenarono nella sua mente. L'arte giapponese di disporre secondo schemi preordinati le rocce, su scala gigantesca. Le copertine dei romanzi di fantascienza, del tipo che mostra un pavimento piatto e infinito, coperto di sculture astratte che hanno un aspetto per metà vivo.

Poi i suoi pensieri affondarono in profondità, nel confuso abisso di ricordi e falsi ricordi della prima infanzia, ed egli ricordò quando lo avevano accompagnato a fare visita a sua nonna, a Minneapolis… l'acido, secco odore del grande soggiorno dal soffitto alto, e poi quando lo avevano portato su, a vedere… non a toccare… gli sportelli di uno scaffale portaninnoli, coperto da ciò che, in seguito, aveva cercato di ricostruire… conchiglie, monete cinesi, fermacarte, lucidi campioni di minerali, fiori di plastica… innocenti soprammobili che erano stati totalmente sconosciuti e infinitamente affascinanti per il piccolo Don Merriam, benché gli fossero apparsi privi di senso.

Adesso lui era tornato bambino.

Qua e là, tra lui e la pianura, benché non direttamente sotto, galleggiavano nubi piccole e scure, dai contorni irregolari e dalle molte forme; ciascuna reggeva, come se fosse stata un nido per uova di arcobaleno, un grappolo di grandi globi lucenti, che lanciavano in alto fasci di luce di tutti i colori e di tutte le sfumature.

Quelle nubi gli vennero incontro e furono dietro di lui, una dopo l'altra, ricordandogli che il Baba Yaga, la cui velocità era diminuita di poco, si stava avvicinando sempre più alla bizzarra superficie. Per lo strano effetto della discesa, la pianura parve gonfiarsi, sotto di lui, e venirgli incontro, mentre le aliene forme geometriche ingigantivano, aumentando la loro strana e non identificabile bellezza. Ma non aveva più paura… tutta la paura era finita quando aveva toccato la pellicola protettiva del pianeta, e ora si sentiva esausto.

Il Baba Yaga e la sua scorta erano diretti verso un punto a metà strada tra due dei grandi pozzi, che giacevano così vicini l'uno dall'altro che dapprima parvero toccarsi tangenzialmente. La colonna di roccia affondava in uno di quei pozzi. L'altro pozzo mostrava lo scintillio corrusco che pareva caratteristico di tutti i pozzi aperti.

Infine il margine tra i pozzi acquistò un'ampiezza, diventò un nastro d'argento. Uno dei dischi di scorta parve incastonarsi nella colonna di roccia che precipitava, tanto si trovava vicino a essa.

Un istante dopo, senza una scossa, senza neppure un fremito, e con tutta l'impossibile sensazione di volare nel sogno, il Baba Yaga si arrestò completamente, a non più di quattro metri da una piatta superficie di argento opaco… così vicino a essa, anzi, che Don poté distinguere dei disegni incisi sulla superficie: un arabesco spiraleggiante d'incredibile complessità, con fasce e fasce di geroglifici.

Ancora senza peso, egli galleggiò sopra lo schermo, e guardò in basso, sentendosi come un pesce che guardasse da un vetro sistemato sul fondo dell'acquario.

Poi, come se dei razzi stabilizzatori fossero stati azionati, o come se una mano gigantesca lo avesse afferrato, il Baba Yaga cominciò a capovolgersi. Don si aggrappò al sedile di pilotaggio, per non perdere l'equilibrio.

Il movimento s'interruppe a metà, nel momento in cui il motore principale dell'astronave doveva essere puntato contro la superficie sottostante. Allora, gradualmente, un campo gravitazionale cominciò a prendere lui e l'astronave. Udì tre tonfi sommessi, e simultaneamente avvertì tre piccole scosse, mentre i tre piedi dell'astronave si posavano al suolo. Strinse con forza maggiore il sedile, mentre il peso del suo corpo aumentava, fino a quando, almeno da quel che lui poteva giudicare dopo avere trascorso un mese sulla Luna, ritornò più o meno quello che era stato sulla Terra. Allora il suo peso smise di crescere.

Ma egli notò queste cose con una piccola frazione della mente soltanto, perché quasi tutta la sua attenzione era assorbita dalla vista che ora lo schermo gli forniva del cielo del Vagabondo… l'altra parte della pellicola attraverso la quale egli era passato, circa quaranta secondi prima.

Tra lui e il 'cielo', le piccole nubi nere… ora più scure, poiché non poteva più vedere le uova luminose delle quali erano il nido… navigavano con lenta determinazione, proprio come le piccole nubi si muovono sopra i deserti del Sud-Ovest americano, spinte da un vento costante di ponente, senza versare una sola goccia del loro carico di pioggia. La lenta processione non oscurava mai più di un ottavo del cielo. Né la precipitosa colonna di roccia, che ora rimpiccioliva in alto, fino a toccare il cielo ridotta a un punto, grande triangolo rovesciato, oscurava più di un ottavo del cielo.

E quel cielo non era né viola né giallo, né c'erano regioni nere, né vi apparivano delle stelle. Si trattava invece di un lento turbinare di tutti i colori cupi, un fosco arcobaleno tempestoso, un cielo che turbinava di mille prismi, mutando continuamente, descrivendo sfumature sempre mutevoli, e immensi disegni curvi. Aveva l'armonia, la grandezza e la minaccia di una perpetua sinfonia cromatica, eppure esso sembrava naturale, pareva promettere infinite variazioni vitali. Don non riuscì a capire se fosse il cielo a produrre quella luce, o se essa venisse dai globi annidati tra le nubi, ora nascosti, o da qualche altra fonte indiretta. Quel cielo ricordava in parte la marmorizzazione di una pellicola d'olio sull'acqua, e in parte le folli tele di Van Gogh, come La Notte stellata, e ricordava ancor più le sfumature profonde, riverberanti che scorrono maestose davanti agli occhi della mente, nel buio.

Mentre egli stava pensando a questo, un ultimo pensiero che pareva metterlo all'interno di qualche mente immensa, udì un lieve suono raschiante, che gli fece scorrere un brivido gelido in tutto il corpo. Abbassò lo sguardo, appena in tempo per vedere l'ultimo bullone del portello aprirsi da solo, e il portello sollevarsi senza alcuna causa visibile. Lo spazio aperto gli rivelava ora la scaletta vuota, che usciva dal suo involucro e si posava sul vuoto pavimento d'argento sottostante.

Poi una voce, stranamente dolce e carezzevole, lo chiamò, parlando in inglese perfetto, con un accento solo lievemente straniero:

«Vieni! togliti lo scafandro e scendi!»

Australia, Indonesia, Filippine, Giappone e le parti orientali di Siberia e Cina erano ormai entrate nel lato notturno della Terra. Il Vagabondo, frequentemente apparso nella sua forma di yin-yang o mandala, fece vibrare delle corde religiose e mistiche in milioni di menti. E le voci dell'Asia Orientale si unirono a quelle americane, per avvertire il grappolo di continenti vecchi e scettici dell'occidente… il cuore culturale del mondo… di quanto avrebbero visto, non appena fosse caduta la notte.

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