CAPITOLO IXL

Il Vagabondo indossò la sua maschera yin-yang per la nona volta. Da due giorni interi esso tormentava la Terra con fuoco e inondazioni e terremoti e ora con grandi tempeste. Bagong Bung lasciò cadere il badile, raccolse il sacco fangoso, e corse verso la scialuppa arancione, che gli stava passando davanti sorretta da un gradino d'acqua incoronato di spuma. Cobber-Hume lo afferrò per la spalla. I quattro capitani ribelli della Principe Carlo, terrorizzati dai venti di uragano che dilaniavano la notte plumbea da oriente, come diecimila aerei invisibili che ronzassero sopra di loro, e inorriditi dagli altissimi reggimenti onde che marciavano sotto il vento come granatieri neri, fecero virare il grande incrociatore atomico, per salvarsi, in una delle foci del Rio delle Amazzoni. Le onde ricominciarono ad abbattersi sull'Albatros, malgrado l'ancora di mare, ma Barbara Katz non volle discendere in cabina. Un vento gelido cominciò a soffiare a raffiche, spazzando la terrazza dell'attico del signor Hasseltine, increspando le pozzanghere d'acqua salmastra che erano rimaste, e Sally Harris e Jake Lesher si ritirarono nuovamente nel soggiorno fradicio. Nella luce del faro della Pazienza, Wolf Loner vide due cadaveri galleggiare sulle acque, tra i detriti e i rottami sempre più fitti.


Il camion e la Corvette degli studiosi dei dischi volanti, con i fari accesi, avanzarono cautamente lungo la strada di montagna fiancheggiata, a intervalli regolari da cartelli che indicavano la direzione di Vandenberg Due. Erano già due volte che i passeggeri del camion avevano dovuto scendere, per aprire un varco nelle frane di sassi e pietrisco, non abbastanza grandi da richiedere l'uso dell'ultima carica rimasta nella pistola a momentum. Da un attimo all'altro, praticamente, una nuova frana poteva apparire nel fascio luminoso dei fari della Corvette. Si udiva il monotono clangore delle catene delle ruote posteriori del camion.

La brezza di levante che veniva dalle montagne, dietro di loro, era tiepida… fortunatamente, per individui esausti dalla fatica ed esposti all'aria, tranne Hixon e Pop che erano al riparo della cabina del camion.

A parte quello dei motori e delle ruote, l'unico suono era un ruggito lontano, debole, ritmico e sibilante, che veniva da un punto davanti a loro.

Il Vagabondo era spuntato due ore dopo il tramonto, e ora galleggiava sulle montagne orientali, nel cielo grigio e limpido; e la sua calda luce di vino e d'oro creava l'illusione che esso fosse l'origine dell'amichevole brezza. Non era più perfettamente sferico, però, ma lievemente gibboso, come la luna due giorni dopo il plenilunio. Una stretta falce nera tagliava il bordo della metà purpurea dello yin-yang, mentre imitando i movimenti della luna che aveva distrutto, il pianeta si muoveva verso oriente, intorno alla Terra, o, piuttosto, intorno a un punto tra i due pianeti. Sciolto e disarmonico intorno all'equatore del pianeta, come una sciarpa fragile spruzzata di diamanti, l'anello di frammenti lunari scintillava e riluceva.

Ora la strada saliva dolcemente verso un'ampia sella naturale, i cui fianchi s'innalzavano in lisci pendii coperti di terriccio per culminare in piatte e basse creste rocciose. La Corvette raggiunse la sommità della sella, girò a destra, e si fermò, lanciando quattro rapidi colpi di clacson, e spegnendo le luci. Il camion si affiancò a essa, sulla sinistra, e fece lo stesso.

Quasi tutti i componenti del gruppo avevano avuto, in un momento della loro vita, l'esperienza di guardare dall'alto una distesa di nebbia, o un basso strato di nuvole, dalla cima di una montagna o da un aeroplano, vedendo le cime delle colline e dei monti sollevarsi tra le dense volute, e meravigliandosi per l'aspetto piatto e solido, e per l'estensione, dell'eterea pianura… un autentico oceano di nubi. Ora le stesse persone ebbero, per un momento, o due, o tre, l'illusione di assistere allo stesso spettacolo, nella luce del Vagabondo.

Questo illusorio oceano notturno di nubi cominciava a meno di cinquanta metri dal punto in cui si trovavano, e a non più di una dozzina di metri più in basso, e si stendeva fino all'orizzonte occidentale, seguendo da vicino, su entrambi i lati, i contorni delle colline. C'era soltanto un'isola, bassa e piatta, ma così grande da stendersi oltre il campo visivo, dietro le nere pendici delle alture, a nord. Su quest'isola brillavano e ammiccavano disordinatamente delle luci rosse e bianche, e la luce del Vagabondo rivelava due grappoli di edifici bassi, dalle pareti e dai tetti pallidi. E in quei primi momenti di visione si udì un remoto ronzìo, e una piccola coppia di luci, rosse e verdi, scese dal sud, un piccolo aeroplano che scendeva sull'isola. Uno stretto, di almeno quattrocento metri, separava l'isola dalla terraferma.

Poi l'illusione svanì e, uno per uno, gli studiosi dei dischi volanti capirono che non era un oceano di nubi quello che si stendeva fino all'orizzonte, ma l'oceano vero, l'oceano salato, non nebbia, vapore acqueo impalpabile, ma un mare di acqua solida, con le onde che si frangevano ritmicamente sulle pendici della collina, e sulla strada in discesa, cinquanta metri più avanti; che l'isola era Vandenberg Due; e che lo stretto copriva, tra le altre cose, l'Autostrada Costiera del Pacifico, dove descriveva una curva verso l'interno della base dell'Astronautica, la casa del Progetto Luna… di Morton Opperly e del maggiore Buford Humphreys, di Paul Hagbolt e Donald Merriam, benché gli ultimi due ora fossero altrove.

Al volante della Corvette, Hunter avvertì sulla spalla sinistra il contatto di dita che dapprima indugiarono leggere, ma poi strinsero con forza. Posò la mano destra sulla mano che gli stringeva la spalla, e voltò il capo, e guardò il volto di Margo… i capelli biondi appiattiti, le lunghe labbra, le guance affilate, gli occhi scuri… e lei sostenne il suo sguardo, con occhi inespressivi, indecifrabili.

Senza staccare la mano da quella di lei gridò, rivolgendosi al camion:

«Ci accamperemo qui, stanotte, vicino al mare. Quando la marea scenderà, entreremo a Vandenberg.»


Don Merriam guardò le pareti del pozzo, e sollevò lo sguardo verso il circolo di cielo che ruotava musicalmente in una tempesta rossa e nera, come se i colori fossero stati scelti per adattarsi al pelo della sua guida che era in piedi, in silenzio, sulla piattaforma accanto a lui.

Il circolo crebbe lentamente, poi rapidamente, poi l'ascensore si fermò, e il suo pavimento tornò a essere una parte uniforme della grande pianura vergata di strani geroglifici.

Apparentemente, nulla era mutato. La colonna di roccia lunare torreggiava ancora come un grigio pinnacolo, quattro volte più alto dell'Everest, e si tuffava nell'abisso. Al di là della pianura vuota, le grandi strutture plastiche erano ferme in lontananza, come un'armata di sculture astratte. Il pozzo sbadigliava, con la sua balaustra d'argento priva di supporti.

Poi Don vide che solo un disco volante… colorato con uno yin-yang violetto… galleggiava nell'aria, accanto al Baba Yaga. L'astronave lunare segnata e ammaccata dalle peripezie sostenute riluceva, come se fosse stata rimessa a nuovo, e invece della scaletta, sotto il portello c'era un massiccio tubo di metallo, grande come un uomo, che pareva allargarsi in fondo.

Al di là del Baba Yaga, l'astronave lunare russa scintillava anch'essa come se fosse stata nuova, e un tubo metallico simile sporgeva dal portello, che era situato in prossimità della punta.

Il felinide toccò lievemente la spalla di Don e disse, nel suo inglese lievemente distorto e carezzevole:

«Ora ti portiamo da un amico terrestre. La tua astronave è rifornita e revisionata, e viene con noi, ma all'inizio tu viaggerai nella mia. Ci sarà un trasferimento nello spazio. Non aver paura.»


Paul Hagbolt si svegliò di soprassalto. Tigerishka stava ringhiando, rivolgendosi a lui:

«Svegliati! Vestiti. Abbiamo un ospite!»

Il sobbalzo lo fece volare a un metro di distanza dalla finestra sulla quale aveva riposato, così, per il momento, poté soltanto galleggiare impotente nella gravità nulla del disco volante, cercando nel frattempo di sollevare dagli occhi e dalla mente la cappa del sonno.

Il sole interno era stato riacceso, e le finestre erano di un solido rosa, ancora una volta, e creavano un effetto combinato di serra e salotto.

Tigerishka stava estraendo da una porta del Pannello dei Rifiuti alcuni oggetti flosci. Un attimo dopo, li lanciò a Paul.

«Vestiti, scimmia.»

Uno degli oggetti s'impigliò negli artigli, e lei lo strappò, infuriata, e lo getto dietro gli altri.

Paul, o piuttosto il suo corpo, intercettò gli oggetti senza difficoltà, poiché erano stati lanciati con precisione. Erano i suoi vestiti, perfettamente lavati, e profumati di cotone e altre fibre, benché fosse sparita la piega dei pantaloni. Cominciò ad armeggiare con essi, dicendo, con una voce ancora assonnata:

«Ma, Tigerishka…»

«Ti aiuterò io, stupida scimmia!»

Lo raggiunse subito e, afferrando la camicia, cominciò a infilare il piede di Paul in una manica.

«Cosa è successo, Tigerishka?» domandò, senza aiutarla. «Dopo questa notte…»

«Non azzardarti neppure a menzionare questa notte, scimmia!» ringhiò lei. La camicia si strappò, e lei cercò d'infilare il piede di Paul nel più vicino indumento che poté afferrare, che era la giacca.

«Ma ti comporti come se fossi arrabbiata e ti vergognassi di quanto è accaduto,» protestò, continuando a ignorare i suoi tentativi di vestirlo.

Lei interruppe quello che stava facendo, e lo afferrò per le spalle, e lo fissò furibonda.

«Come se mi vergognassi!» ripeté lei, con voce vibrante. Poi, gelidamente: «Paul, tu hai mai masturbato un animale inferiore?»

Paul si limitò a fissarla stolidamente, sentendo i suoi muscoli irrigidirsi, soprattutto intorno al collo.

«Non darti un'aria così sconvolta,» ordinò lei, nervosamente. «Succede sempre, sul tuo pianeta. In una maniera o nell'altra, lo fate per ottenere il seme dei tori e degli stalloni, per la fecondazione artificiale… e così via!»

Lui disse, con voce calma:

«Vuoi dire che quanto è accaduto stanotte non è stato un vero amplesso?»

Lei sibilò, a quelle parole, soffiò come una vera gatta, e poi disse, in tono aspro:

«Un vero amplesso avrebbe inaridito i tuoi fragili genitali d'antropoide! Ero stupida, ero annoiata, mi dispiaceva per te. È stato tutto.»

Per un momento, Paul capì chiaramente che una super-bestia, al proprio livello, poteva avere delle neurosi, proprio come quelle di un antropoide parlante, poteva soffrire di attacchi d'irrealtà, fare le cose sbagliate, annoiarsi, consumare stancamente il tempo e i sentimenti. Per un momento capì quanto lui stesso doveva essere stato solo e confuso, per pretendere di amare una gatta come se fosse stata una ragazza, fantasticare una passione erotica per Miao.

Ma in quell'istante Tigerishka lo schiaffeggiò, con una zampa, e ringhiò:

«Non sognare, scimmia. Vestiti!»

Il fragile ponte di comprensione che l'intuito aveva creato si schiantò, benché in superficie questo non fosse immediatamente palese, perché lui continuò, con la medesima calma irreale:

«Vuoi dire che è stata questa l'intera esperienza, che è stato questo l'unico significato di questa notte, per te? Soltanto essere 'gentile' con un animale domestico?»

Lei disse, con fermezza:

«Questa notte i miei sentimenti sono stati, per il novanta per cento, pietà per te e noia per me.»

«E l'altro dieci per cento?» insisté lui.

Lei abbassò i grandi occhi.

«Non lo so, Paul. Ecco, non lo so,» disse, rigidamente, afferrando di nuovo la giacca. Poi, «Oh, vestiti da solo,» sibilò, esaperata, e si diresse al pannello di comando. «Ma sbrigati. Il nostro ospite è quasi arrivato alla porta.»

Paul ignorò quelle parole. Nella sua gelida miseria si stava insinuando un'ondata di calda malizia. Lentamente, si sfilò dal piede la manica della giacca. Disse, in tono uniforme:

«A me sembra che questa notte tutto sia cominciato quando io ho trattato te come un animale domestico, grattandoti sotto il collo e accarezzandoti il pelo, e tu eri felice, facevi le fusa, reagivi esattamente come…»

Il pavimento rosa balzò in alto e lo urtò, e il dolore si ripercosse sordamente nel suo corpo. Tigerishka disse:

«Sono passata alla gravità terrestre, per aiutarti a vestirti più in fretta! Oh, se almeno tu avessi idea di che cosa significa essere legata a questo modo a un repellente corpo calvo, e con una mente assolutamente inferiore, e dover stancare la propria gola con l'assurdità di produrre dei suoni…»

Ora, finalmente, Paul cominciò a occuparsi dei vestiti, senza fretta, individuando la biancheria e disponendola in ordine, per indossarla. Ma nello stesso tempo quell'ondata di malizia cercava qualcosa… qualsiasi cosa, non aveva importanza… per rispondere usando le stesse armi di Tigerishka. La trovò abbastanza rapidamente.

«Tigerishka,» le disse lentamente, sentendosi insolitamente pesante ma a suo agio, mentre sedeva sul rosso pavimento di velluto e indossava gli slip e allungava la mano verso i pantaloni, «Ti vanti di essere infallibile, per quanto riguarda la mente. E certamente la tua mente lavora molto più in fretta della mia. Presumibilmente, tu possiedi una memoria eidetica per tutto ciò che accade intorno a te… compreso quello che osservi nella mia mente. Eppure questa notte, quando ti ho menzionato le quattro fotografie stellari rivelatrici che io ho visto… fotografie di un pianeta che compiva una falsa uscita dall'iperspazio, lo capisco ora… mi hai assicurato che potevano esistere solo due campi di distorsione, il primo vicino a Plutone, il secondo vicino a Venere.

«Be', pensa quello che vuoi, ma c'erano altre due fotografie di distorsioni stellari, altre due false uscite.» A questo punto, la sentì entrare nella sua mente. Proseguì ugualmente: «Erano la seconda e la quarta della serie, e mostravano Giove e la Luna.»

La risposta di Tigerishka lo sorprese. Lei disse, in fretta:

«Hai ragione. Devo fare immediatamente rapporto al Vagabondo. Potrebbe trattarsi di… quello di cui abbiamo paura.» Si voltò bruscamente verso il pannello di comando. Era in piedi, ora, eretta sulle zampe posteriori, nella stessa gravità che premeva il corpo di Paul. «Tu, saluta il nostro ospite!»

Un portello si aprì al centro del pavimento rosa e, con le spalle voltate a Paul, un uomo che indossava l'uniforme dell'Astronautica degli Stati Uniti fece il suo ingresso. Appoggiò i gomiti sul bordo del portello, affrontò la gravità, ma evidentemente questa non lo sorprese particolarmente, perché egli issò subito il resto del suo corpo all'interno del disco volante.

Paul, che aveva appena indossato la camicia, si alzò di scatto, e riuscì a cogliere una fuggevole visione dell'interno di un largo tubo metallico, mentre il portello si chiudeva.

Il nuovo venuto, dopo avere fissato Tigerishka, si guardò intorno.

«Don!»

«Paul!»

«Credevo che tu fossi perduto sulla Luna. Come…»

«E io credevo che tu fossi… non so cosa. Ma come…»

Tacquero entrambi, impacciati, aspettando che l'altro incominciasse a parlare. Poi Paul si accorse che Don lo stava squadrando con evidente curiosità. Si affrettò a chiudere la cerniera lampo dei pantaloni, e ad abbottonare la camicia.

Don guardò Tigerishka, la guardò per diversi secondi. Poi guardò i fiori e il resto dell'arredamento. Infine il suo sguardo tornò a posarsi su Paul, ed egli spalancò le braccia, con aria sconfitta, e sorrise, con l'aria di chi vuole dire, «Non m'importa che il sistema solare stia andando a pezzi, né che noi ci troviamo in un impossibile campo gravitazionale, in un impossibile disco volante, nel cuore dello spazio siderale… Ma tutto questo è buffo, come una farsa piccante!»

Paul si accorse di arrossire. Provò una collera violenta contro se stesso.

Tigerishka si voltò a guardarli, dal pannello di comando, per il tempo sufficiente a dire:

«Benvenuto, Donald Barnard Merriam! Ti prego di scusare la scimmia, si vergogna della sua nudità. Ma suppongo che anche tu ti vergogni. Veramente, dovreste provare entrambi il pelo!»

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