CAPITOLO XXXIII

Don Merriam aveva mangiato e dormito un'altra volta, nella sua piccola cabina a bordo del Vagabondo, quando si svegliò con una sensazione di immensa chiarezza interiore. Osservò tranquillamente il soffitto dal colore neutro che si illuminava.

Non sentiva il letto, sotto di lui, e si rendeva conto appena del suo corpo… i piccoli, esili messaggi nervosi del tatto e della tensione erano al minimo. Per quel che poteva stabilire, lui era disteso supino, con le braccia diritte e rilassate sui fianchi.

Improvvisamente, fu pervaso da una curiosità senza limiti intorno alla grande nave della quale era diventato un passeggero involontario. Tutto il suo essere era divorato dal desiderio di conoscere, di sapere, o, se questo non fosse stato possibile, almeno di vedere. La sensazione era intensissima, eppure non provava il desiderio di sfogarla con contrazioni del viso e del corpo e dei muscoli.

Senza preavviso, il soffitto cominciò a discendere velocemente su di lui.

Cercò di buttarsi giù dal letto, ma l'unico risultato fu quello di girarsi, senza apparente movimento, e allora vide la parte inferiore della parete e la «doccia» che si trovava oltre, e da quella visione capì che lui si trovava a quasi due metri di altezza, rispetto a essi.

Il soffitto non si era mosso. Lui stava galleggiando nell'aria. Prima sulla schiena, ora bocconi, a cinquanta centimetri dal soffitto.

Aveva il mento sollevato, e la testa piegata all'indietro, benché non avvertisse alcun senso di costrizione, e così la sua vista era diretta avanti, come la punta di una lancia. Non poteva guardare in basso, a qualsiasi punto del letto sottostante, benché tentasse di farlo, perché voleva sapere se avrebbe visto il suo corpo disteso laggiù… sia che fosse un corpo reale, o di sogno.

Né poteva sollevare le mani davanti al viso, per vederle. O era incapace di muovere braccia e gambe, o non le possedeva più.

Era impossibile stabilire se lassù lui avesse un corpo reale, o anche un corpo di sogno, o se fosse soltanto un punto di osservazione sospeso, con un corpo immaginario dietro di esso.

Una piccola prova: gli era impossibile vedere, ai margini del campo visivo, i contorni sfumati del naso e delle sopracciglia e delle guance che normalmente si vedono, e si ignorano. Ma forse questo avveniva soltanto perché la sua vista era diretta così irrevocabilmente avanti.

Improvvisamente egli cominciò a muoversi, rapidamente, in quella direzione, verso la parete. Chiuse gli occhi… poteva fare questo, almeno, o comunque interrompere momentaneamente la visione… e quando li riaprì, benché non ci fosse stato alcun urto, né la minima sensazione di una resistenza, scoprì di volare veloce lungo un corridoio d'argento, ricoperto di arabeschi e di geroglifici. Si aprì, quasi immediatamente, in uno dei grandi pozzi, o condotti, e con un senso improvviso di esultanza si tuffò nell'abisso.

A questo punto cominciò per Don Merriam un'esperienza che avrebbe potuto essere solo un vivido sogno, o un sogno indotto in lui dai suoi ospiti-catturatori, o una percezione extrasensoria di chiaroveggenza offertagli sotto forma di un sogno nel quale volava, o perfino… così gli sembrava… una trasformazione del suo corpo, reso perfettamente immateriale, capace di permeare tutte le pareti e l'atmosfera e altre barriere, un miracolo operato da una fisica e da una chimica aliene, e reso immune alla gravità e a tutte le altre comuni leggi della natura. E a questo modo egli si tuffò e volteggiò e avanzò nell'aria, quasi involontariamente, ma ugualmente guidato dalla divorante curiosità della sua mente, e fu un viaggio d'incubo e di sogno, splendido, irreale e reale, esaltante.

O forse, pensò brevemente, questo accadeva in un solo istante, fuori del tempo.

Don Merriam non poté stabilire quale tra queste, o tra altre inimmaginabili soluzioni, fosse la base della sua esperienza. Poté soltanto volare e volteggiare e vedere.

Dapprima, i suoi movimenti furono limitati ai corridoi e ai pozzi vuoti. O, se c'erano delle creature, o delle macchine mobili, o dei piccoli aerei, in quel dedalo di corridoi e pozzi, erano confusi e resi invisibili dalla rapidità del suo passaggio. La regola era che, per alcuni istanti lui viaggiava a una velocità quasi pari a quella della luce, così gli sembrava, conscio solamente della forma generale e della direzione del passaggio attraverso il quale viaggiava; poi galleggiava lentamente, per un breve periodo, capace di vedere tutto ciò che lo circondava da vicino; e poi sfrecciava via di nuovo, in parte involontariamente, in parte perché un imperioso desiderio di vedere qualcosa d'altro s'impadroniva di lui. Questo processo proseguì, apparentemente interminabile, eppure senza stanchezza e neppure noia, come se il tempo fosse ingigantito senza limiti, attraverso la lente bizzarra di qualche arcano telescopio.

Gradualmente, si formò e si stabilizzò nella sua mente l'immagine tridimensionale del Vagabondo, totalmente artificiale, un gioco a incastro di globi, un globo dentro l'altro per piani e piani e piani… cinquantamila globi almeno… ovunque venato da corridoi, come un'immensa spugna d'argento. Molti dei grandi pozzi attraversavano completamente il pianeta, intersecandosi al centro in un immenso globo vuoto che aveva un suo cielo nero scintillante di luci disseminate casualmente, come stelle tra le cavità ampie un miglio e più di pozzi, con le loro tenebre e le loro luci sofficemente baluginanti.

Ma sebbene la sua immaginazione si gonfiasse felice di quel senso di esultanza e di una nuova potenza che la sempre crescente comprensione della struttura del Vagabondo gli dava, una caratteristica del pianeta lo opprimeva, e poi cominciò a spaventarlo, più per le sue implicazioni che per la sua semplice natura: la corteccia dello spessore di trenta metri, fatta di nero metallo, che era il suo tetto ricoperto dal sottile velo ornamentale… il terreno sul quale il Baba Yaga e l'astronave lunare sovietica erano atterrati… e le rotonde ampie un miglio, fatte di metallo ugualmente spesso, già predisposte per scivolare dai loro recessi e coprire l'imboccatura dei pozzi, sigillando il pianeta come una grande fortezza.

A rinforzare questa peculiare minacciosità, c'erano gruppi di mostruose bobine, spirali e spirali di metallo che discendevano nei pozzi che giungevano al centro del pianeta, come se i pozzi potessero servire, chissà come, alla funzione di mostruosi acceleratori lineari.

Interiormente ritraendosi dalla impervia corazza di metallo, Don si ritrovò al centro di quell'immensità centrale spruzzata di stelle. Forse era ampio solo venti miglia, ma ora gli sembrava un universo, e i grandi buchi nel suo cielo stellato parevano le porte di altri universi, ed egli sentì che c'erano degli esseri invisibili intorno a lui, impalpabili nebulosità pensanti che vivevano nelle gelide profondità dello spazio intergalattico, e questa presenza generò in lui un'improvvisa paura, ancor più acuta di quella prodotta dalla corteccia difensiva del pianeta.

Fu questa acuta paura, forse, a lanciarlo in una seconda esplorazione volante del Vagabondo. Non si limitò più ai corridoi, ma sfrecciò veloce attraverso le pareti, avvertendo il loro spessore soltanto come un momentaneo annebbiarsi della sua visione, come un breve battito di palpebre, percorrendo stanza dopo stanza, locale dopo locale, in una cavalcata turbinosa. E ora, quando faceva una pausa, si trovava sempre vicino a degli esseri viventi. Questi esseri viventi non erano di una sola specie, ma di molte.

Benché i felinidi, o uomini-gatto, come colui che lo aveva accolto sul pianeta, formassero una cospicua minoranza nell'equipaggio del Vagabondo, specialmente vicino alla superficie del pianeta, c'erano creature che parevano il prodotto finale di quasi tutte le linee di evoluzione terrestre, e anche di linee d'evoluzione completamente, irrevocabilmente aliene: cavalli dalle teste immense, con organi tattili e prensili annidati negli zoccoli; giganteschi ragni dagli occhi placidi, che pulsavano nelle giunture di una corrente sanguigna spinta da forti arterie; serpenti, con grandi occhi e piccoli tentacoli prensili; lucertole umanoidi, scintillanti di squame e dalle splendide, colorate creste; creature che avevano la forma, e si muovevano come grosse ruote, con un cervello centrale che ruotava in senso opposto, con gli organi sensoriali; piovre e polipi di terra, che si ergevano orgogliosamente su tre o sei tentacoli; e creature apparentemente ispirate da esseri mitici quali il basilisco e l'arpia. Queste creature mitiche Don le trovò nei più profondi recessi del pianeta, volando in una immensa sala che pareva un'immensa uccelliera. Questa sala, così grande da occupare diversi piani… un mondo interno a sua volta… era ricoperta di alberi sottili, dai molti rami nodosi, con piccole foglie, e illuminata da una dozzina di grandi lampade galleggianti che parevano soli.

Alcuni laghi color turchese che aveva scorto dal Baba Yaga erano profondi quanto erano ampi, e in essi abitavano balene dagli immensi occhi, e presumibilmente dai grandi cervelli, con braccia che parevano cavi, che terminavano in filamenti simili a dita. E accanto alle balene nuotavano altre creature marine, apparentemente intelligenti, dai volti mobili ed espressivi.

Don avrebbe voluto fermarsi a studiare tutte quelle creature, osservare le loro azioni nei dettagli, ma sempre il bisogno di vedere qualche altra forma di vita, ancor più misteriosa o prodigiosa, si impadroniva di lui e lo spingeva, così che le sue paure furono brevi come quelle avventure lungo i corridoi vuoti. In nessun caso le creature che egli osservava parvero rendersi conto della sua presenza.

Nessuna forma di vita pareva mantenere un isolamento razziale; aveva visto alcuni felini impegnati in conversazioni apparentemente amichevoli con le più piccole arpie, nel loro mondo-uccelliera, e c'era stato uno dei giganteschi ragni che aveva nuotato, usando come remi le lunghe zampe, e con indosso una sorta di tuta trasparente, nei profondi laghi delle balene.

Cominciò a sembrargli incredibile che la varietà e il numero degli esseri che stava osservando potessero essere ospitati da un pianeta delle dimensioni della Terra, ma poi si rese conto che, con tutti i suoi ponti, il Vagabondo aveva una superficie abitabile quindicimila volte superiore, almeno, a quella della Terra.

Malgrado il numero e la varietà, quasi tutti gli esseri che poté osservare così brevemente parevano occupatissimi, pressati da chissà quale urgenza. Anche le creature immobili gli parvero immerse nel lavoro… meditazioni d'importanza vitale. C'era un onnipresente senso di crisi.

Di quando in quando, come per un errore del disegno di volo, o forse per riposo, Don si fermava in una sala priva di occupanti: grandi serbatoi che si riempivano di roccia lunare; immensi corridoi di macchine silenziose e scintillanti di luci arcane, con grandi tubi e cavi nei quali scorrevano fluidi di molti colori; grandi serre di strana vegetazione, illuminate da lampade più luminose del sole… solo che quelle potevano essere delle piante intelligenti; caverne artificiali colme di strutture geometriche compatte, che parevano sull'orlo della vita, come quelle che si trovavano sulla superficie del Vagabondo; sale sferiche colme di materia solare pura, fiammeggiante, violenta, benché essa non lo bruciasse né lo accecasse.

A volte egli vide del lavoro fisico svolto da creature di protoplasma, apparentemente artificiali, simili a gigantesche amebe, le cui colonne prensili e i cui organi sensoriali variavano a seconda del lavoro che veniva svolto. Altrove, si vedevano al lavoro dei robot di metallo, che avevano la forma di ragni, di esseri a ruota, e di molte altre forme di vita… benché alcuni robot sembrassero realmente vivi, come lo parevano certe enormi strutture simili a giganteschi cervelli elettronici. Le loro pareti trasparenti mostravano scure masse gelatinose che scintillavano di filamenti sottilissimi d'argento, più sottili che dei capelli, come se avessero potuto farsi crescere nervi e cellule cerebrali a seconda del bisogno.

Più grande era la varietà di forme di vita intelligenti che Don vedeva, più egli diventava sensibile alla loro presenza. Ora, quando egli si fermò nuovamente nel globo centrale spruzzato di stelle, esso parve un brulicare di deboli, soffusi esseri di nebbia violetta, dalle forme continuamente mutevoli, e dalle molte braccia: gelide creature delle tenebre al di là delle stelle. E una volta, quando salì brevemente nel ponte più alto, egli scorse una delle grandi forme astratte colorate aprirsi come un uovo, e riversare sulla pianura un'orda di creature.

Eppure, più egli diventava sensitivo alla presenza di vita intelligente, più era scosso dalla convinzione che esistessero intorno a lui forme invisibili di vita, che i suoi sensi non potevano vedere… come se il Vagabondo avesse molti più fantasmi, a bordo, di tutti i membri del suo equipaggio.

Indugiò in un'immensa sala immersa nell'immobilità e nel silenzio, una sala profonda fatta di molte balconate, e quasi da un'infinità di cassette dai piccoli sportelli, come la sala di classificazione e registro di un'immensa biblioteca. C'erano dei filamenti che portavano dalle cassette a strumenti di visione, che davano l'idea di grandi microscopi, e a Don parve di scorgere movimento lungo quelle molteplici trame di tele di ragno, ed ebbe l'idea che in quel luogo microbi e virus servili stessero radunando, e ordinando per un'ispezione, delle molecole sulle quali era impressa la conoscenza totale delle razze e delle storie dei mondi. Tutto il pensiero e la cultura della Terra, si disse, sarebbe facilmente entrato in uno di quei piccoli sportelli, non avrebbe certo riempito interamente una delle cassette. Era come se in quel luogo lui sfiorasse la visione universale, onnisciente dell'eternità che a volte veniva chiamata Dio.

Da quella sala egli passò come un lampo immateriale in un'altra, molto più viva e colma di movimento, gremita di pannelli di comando, di mappe, di carte, di schermi e di cubi per la visione tridimensionale. Uno di questi cubi mostrava scene continuamente mutevoli di catastrofi: paesaggi e città dilaniati dal terremoto, percorsi dal fuoco, inondati da immense ondate e da un sollevarsi silenzioso delle acque. Guardò per qualche tempo, colmo di eccitazione, poi si rese conto, inorridito, che quello era il suo pianeta, la Terra, che subiva orrende mutilazioni, nella stretta della massa del Vagabondo… il Vagabondo, che poteva creare e annullare la gravità, a seconda dei desideri dei suoi occupanti.

Avrebbe voluto rimanere là, a guardare, o almeno gli parve logico, ma invece egli venne spinto irresistibilmente a proseguire, attraverso numerose pareti, fino a raggiungere un salone che era un grande osservatorio nero, per i molti volti alieni che lo circondavano, alcuni con due occhi, altri con tre, e altri ancora con otto. Nell'osservatorio erano sospesi dei modelli della Terra e del Vagabondo e una specie di anello gonfio, che era ciò che restava della Luna. Qua e là, soprattutto riuniti a grappoli, vicini ai due pianeti, c'erano dei punti di luce gialla e violetta che Don immaginò fossero astronavi.

I globi più grandi erano separati dalla distanza esatta… circa trenta diametri… e Don non riuscì a stabilire se quelle fossero copie, o proiezioni tridimensionali. L'illusione era così perfetta, da dargli l'impressione di galleggiare nello spazio, con gli spettrali volti alieni che sostituivano il gioco delle costellazioni.

Poi, senza preavviso, altri pianeti, verdi, grigi, dorati, alcuni dalla concezione strana come il Vagabondo, cominciarono ad apparire a uno o due per volta. Abbacinanti serpentine di luce che viaggiavano con una bizzarra lentezza percorsero lo spazio tra essi… radiazioni che si muovevano a una velocità di 299.000 chilometri al secondo, ma rallentavano secondo una precisa scala di quel modello. Ci furono delle minuscole esplosioni. Astronavi simili a punticini di luce si mossero, in flotte d'incrociatori da guerra. Poi tutti i pianeti, all'infuori della Terra, cominciarono a muoversi lentamente, come se manovrassero per prepararsi a una battaglia.

Ma egli non vide mai l'esito di quella battaglia, perché le forze che lo spingevano attraverso il Vagabondo cominciarono a operare su di lui con grande urgenza, come se lui fosse ormai vicino alla fine del viaggio. Per la prima volta, provò un palpito di stanchezza.

Le tre sale successive attraverso le quali venne spinto erano tutte cubi di osservazione, con sfondi di nero velluto, a eccezione dei volti alieni degli osservatori. La prima mostrava una lente piatta, che ruotava lentamente, una lente fatta di punti vividi e di grappoli di luce… una galassia, certamente, probabilmente la Via Lattea.

La seconda sala aveva un grande sciame di macchie piccole, morbide, sferiche e a forma di disco, macchioline di luce distanziate assai più dei loro diametri. C'era qualcosa di strano, nello spazio di quell'osservatorio… pareva incurvarsi su se stesso, racchiudersi in una curva inesplicabile, misteriosamente, così che, mano a mano che lui si muoveva tutto intorno a lui cambiava più di quanto non avesse dovuto. Un attimo prima di venire portato fuori di là, Don sospettò che in quel modo gli fosse stato mostrato l'intero cosmo degli universi-isole: la totalità, l'universo.

La sua immaginazione cominciò a vagabondare sonnolenta, indipendentemente da quanto lui vedeva. Molte frasi galleggiarono come filamenti di fumo, attraverso gli spazi abbagliati della sua mente: Questo pianeta artificiale… l'ombelico del cosmo… il cervello centrale… l'occhio eterno… il libro del passato… trascendente come Dio, ma non ancora Dio.

Ritornò in sé, o alla sua visione volante, trasalendo, rendendosi conto che egli stava guardando in un immenso osservatorio nero, nel quale aveva appena visto il cosmo… era riconoscibile dalla forma misteriosamente distorta… ma ora quel cosmo era soltanto una macchiolina minuscola e pallida di luce che galleggiava solitaria. Poi macchioline luminose ancor più spettrali, di altre forme e colori, cominciarono ad apparire e a svanire, alcune rapide come il lampeggiare di una lucciola, altre indugiando per un poco. Don si chiese, quasi sognando, se quelli fossero degli altri universi, noti alle creature del Vagabondo. O forse soltanto universi ipotizzati… cercati… c'era qualcosa d'ipotetico, nel loro chiarore spettrale, e nel loro rapido svanire… e stelle e galassie e universi sono realmente oggetti così irreali, non più dei fievoli punti di luce che nuotavano davanti agli occhi di un uomo che sta per addormentarsi…

Poi il cosmo luminoso cominciò a tuffarsi e a sfrecciare intorno, come una foglia presa da un turbine di vento, ed egli si domandò, confusamente, per quale motivo ciò accadesse, poiché, certo, l'universo doveva avere basi solide… e poi anche i cosmi spettrali cominciarono a ruotare e turbinare, ipoteticamente…

L'ultima sala che Don attraversò lo riscosse brevemente da quel torpore sonnolento, come nessun'altra visione avrebbe potuto fare, e in essa gli parve d'intuire una morale, benché la sua mente stanca fosse incapace di tradurla in parole. Si trattava di una caverna immensa, grande come il pianeta, simile a quella delle arpie, con un cielo rosso come una fornace che si arcuava sopra una savana punteggiata da rocce e macchie d'alberi. Piccoli animali più snelli e aggraziati dei daini, e armati con un solitario corno sottile, pascolavano, muovendosi su piccoli zoccoli. Uccelli, con piume di rubino e di topazio e di smeraldo, e con grandi code ed elaborati pennacchi e ruote di pavone volavano bassi, posandosi frequentemente sull'erba alta e tra gli alberi, come se cercassero semi e frutta.

D'un tratto, tre uccelli presero il volo dall'erba, e il più vicino gruppo di unicorni s'immobilizzò, fiutando l'aria e muovendo le piccole teste qua e là, per poi correre via a grandi balzi. Simultaneamente, da dietro una roccia, un felinide fulvo, dalla pelliccia striata di grigio, assai simile all'accompagnatore di Don spiccò un grande balzo. Questi inseguì gli unicorni, con le lunghe zampe che si muovevano velocissime, poi si gettò sull'ultimo del gruppo, lo fece cadere a terra, lo afferrò per il petto e i fianchi, e affondò le fauci verso la gola palpitante.

Un uccello color topazio svolazzò vicino alla più vicina macchia d'alberi, e di là spiccò un balzo un felinide dalla pelliccia verde, una femmina, a giudicare dalle dimensioni minori e dai contorni lievemente diversi. La belva balzò, con infinita grazia e la quasi incredibile elevazione di una ballerina classica che eseguisse una grand jeté. Le sue lunghe braccia si mossero veloci, e sfiorarono appena l'uccello, ma tre lunghi artigli affondarono nel petto. Tenendolo per la cresta, con l'altra mano, la felina se lo portò alle labbra, e morse.

C'era un rosseggiare cupo, sulle labbra olivastre, e sul canino aguzzo che apparve, quando essa guardò, al di sopra delle piume gialle, direttamente nella direzione di Don, con i suoi grandi occhi simili a fiori, dalle iridi di giada. Poteva trattarsi di una coincidenza, ma Don ebbe l'irragionevole certezza di essere visto. E mentre la felina succhiava il sangue della creatura, con il cielo sanguigno alle sue spalle, gli sorrise.

A questo punto un'infinita stanchezza piombò su di lui, e tutto si fece confuso e nebuloso, e Don capì di volare di nuovo nella sua piccola cabina. Cercò di guardare in basso, dove c'era il letto, ma anche questa volta non ne fu capace. Un istante dopo si ritrovò sdraiato sul letto. Sentì il contatto carezzevole dai piedi alla nuca, e ogni immagine svanì, e il senso di movimento vorticoso si quietò, scomponendosi nelle tenebre del riposo.

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