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Nella notte, la confusione arrivò al massimo. Non fu soltanto Hot Springs a sbarrare le porte, anche se fu tra le prime, ma a Hot Springs veniva molta gente facoltosa e la cittadina, mettendosi in quarantena, diventava, era chiaro, una località sicura dove spendere in pace i propri quattrini.

Fin quando perdurava quello stato di cose, si poteva stare tranquilli. Ma ben presto altre città si misero in isolamento e con la stessa ferma decisione.

Erano soprattutto i paesetti e le cittadine: una grande città non poteva isolarsi totalmente, se non a rischio di morire di fame. Il consiglio municipale delle città sedeva in permanenza, cercando un compromesso tra la presunta necessità di isolarsi e il bisogno di rifornirsi. E si trovarono compromessi alquanto singolari.

Ad Albany, ad esempio, furono adottate misure di emergenza che consideravano reato aprire il negozio o uscire di casa. A Reno, l’ordinanza municipale imponeva magnifiche precauzioni sanitarie per gli abitanti permanenti, ma escludeva dalla quarantena quanti erano di passaggio. A Tucson, si costituì un consiglio di tre membri, con pieni poteri, per la protezione della salute pubblica. Ad Athens, invece, erano proibite le riunioni di più di tre persone, fatta eccezione per i servizi religiosi.

D’altra parte, le autorità governative ordinarono ai laboratori di prodotti biologici di tenersi pronti per cominciare entro ventiquattro ore a produrre i vaccini, appena si fosse individuato il virus. Squadre di ricercatori furono inviate a stanare il male dal suo covo, per così dire, e a prendere a rischio della vita i campioni per poterli esaminare. Molti morirono. Alcuni, probabilmente, prima di cadere soffocati individuarono la reale natura dell’agente apportatore di morte, ma pochi, sicuramente, ci credettero.

Un buon numero di osservazioni fu fatto a Chicago, negli aeroporti, nelle stazioni meteorologiche e ai centri radar. Erano registrazioni ufficiali, molto serie, di fatti strani, anormali, irragionevoli, assurdi, inspiegabili: fatti indubbiamente significativi, ma senza i dati che Lane e la Warren tentavano disperatamente di diffondere, c’era ben poco da capire.


La prima osservazione ufficiale fu fatta al principale aeroporto di Chicago, poco dopo la mezzanotte. Le luci del campo splendevano nella notte senza nuvole, e le bizzarre antenne radar si muovevano ininterrottamente, avanti e indietro, girando sui loro sostegni. Un ronzio monotono, lontano, nell’aria, e nel cielo apparve una luce intermittente, rossa e bianca, che correva tra le stelle. Gli edifici dell’aeroporto erano illuminati a giorno e gettavano ombre nere, dove la luce non arrivava. Le finestre mandavano barbagli e un segnale luminoso ruotava adagio, lanciando i suoi raggi neh” oscurità. Lungo le strade dell’aeroporto guizzavano i fari delle macchine.

Nel buio, apparvero i due fanali d’atterraggio, e dietro quegli occhi gialli e abbaglianti, qualcosa scivolò rombando verso il suolo, e quando toccò terra, nelle luci del campo apparve un gigantesco sigaro d’alluminio con le ali tozze. Rallentò, girò e filò goffamente verso l’arrivo.

Tutto normale. Il riflesso luminoso sopra la città era ben visibile all’orizzonte. Lungo le vie guizzavano lampi di luce. Niente d’insolito, insomma. Tranne sugli schermi radar.

Qualcuno vi posò sopra l’occhio e rimase attonito. Chiamò altri, e tutti osservarono gli schermi. Allora un uomo si precipitò al telefono e chiamò freneticamente la Difesa Aerea Civile. Un attimo dopo, altri telefonavano alla base aerea e ci fu chi venne di corsa per riferire quel che aveva visto. Dappertutto incredulità, terrore e confusione. E anche scoppi di rabbia. Lo schermo registrava una situazione o assurda o molto grave.

Qualcosa avanzava verso Chicago, secondo il radar, sorvolando il lago Michigan; la “cosa” era enorme e sembrava si muovesse deliberatamente, a una velocità di cinquanta chilometri all’ora. Aveva una forma… una testa bulbosa e una specie di coda che svaniva nel nulla per poi riapparire, ma non si riusciva a capire la struttura delle varie parti. Proveniva a quel che pareva dalle zone più desertiche del Wisconsin, ed ora si dirigeva su Chicago.

I telefoni squillavano, e le onde corte correvano nell’etere. Si sparse la voce che fosse un Gizmo, quell’immagine già tante volte apparsa sugli schermi radar e di cui non si conosceva la causa, una zona cioè di superionizzazione dell’atmosfera. Ma quello era il capostipite di tutti i Gizmo: la testa bulbosa aveva un diametro di tre chilometri, si elevava a dodicimila metri e scendeva a meno di mezzo metro da terra. Era lungo quindici, trenta, quarantamila metri a seconda di dove lo si misurava. Aveva senz’altro una direzione e se non cambiava rotta, sarebbe presto arrivato sopra Chicago. Non c’era cosa in terra, in cielo o in mare che potesse presentare quell’aspetto sugli schermi radar.

Il fatto era incontestabile: non si trattava dell’osservazione di un singolo che poteva anche sbagliare, erano registrazioni di apparecchi elettronici, immagini formate sul rivestimento fosforescente degli schermi radar, impressionati dagli elettroni accelerati, controllati a loro volta dall’eco delle onde suscitate dall’originale dell’immagine. Ora il fosforo, non può inventare, gli elettroni non sono colti dal panico. Cioè, più semplicemente, un’immagine radar è la replica fedele — esatta, senza interpretazioni — di qualcosa che esiste realmente.

Non soltanto i radar dell’aeroporto rivelavano la presenza della “cosa”, ma anche quelli della stazione meteorologica, da un diverso punto di vista, e con diversa prospettiva, certo: ma era pur sempre la stessa cosa. E nulla di simile esisteva sulla terra. Una squadra di bombardieri sarebbe apparsa come una chiazza sugli schermi e questa invece era una nube, un oggetto solido, di enormi dimensioni. E poi non poteva essere solido! Era troppo grosso. E neanche poteva essere una nube: non era spinta dal vento. Si muoveva per conto proprio, anche se il vento poteva forse influire sul suo corso.


I piloti corsero agli apparecchi; i motori rombarono sulle piste e gli aerei decollarono e scomparvero nella notte. Tutti i campi, anche i più lontani, entrarono in allarme. Metà delle forze aeree disponibili sui vicini aeroporti militari si alzarono in volo e mossero direttamente contro la cosa enorme, che provocava preoccupanti segnalazioni del radar.

La trovarono e non videro nulla, benché i radar di bordo ne tracciassero i contorni. Lanciarono i missili, si buttarono dentro, avanti, indietro, di fianco. Nessun nucleo, niente di solido, nulla di percettibile. Secondo certi piloti i motori del loro jet funzionavano meglio, quando erano in mezzo alla cosa, ma per altri, invece, era peggio.

Qualche apparecchio fece ritorno alla base, subito sostituito da un altro. La “cosa” segnalata dal radar era troppo vasta, e gli aerei che l’attraversavano non la disturbarono minimamente. Continuava tranquilla ad avanzare su Chicago.

Un pilota riferì che le fiamme dei jet gli sembravano più lunghe del solito, ma del resto non ne era ben sicuro. Osservazione probabilmente inesatta: i Gizmo, volando a sciami, avevano bisogno di spazio tra l’uno e l’altro proprio come gli stormi d’uccelli. Il radar naturalmente non registrava migliaia di singoli esseri distinti, ma ne riproduceva la struttura generale.

Alle due e venti del mattino, la massa dei Gizmo raggiunse Chicago. Le sirene avevano svegliato la gente e le stazioni radio-televisive che avevano già concluso le trasmissioni, le ripresero per diffondere la notizia dell’inspiegabile evento.

Nulla di grave, in realtà, ma si consigliava di evitare gli ingorghi di traffico e s’invitavano i cittadini di Chicago a non uscire di casa. Sarebbero stati tenuti continuamente al corrente; e le autorità avrebbero tempestivamente comunicato le eventuali misure protettive, in caso di bisogno.

Lo stormo di Gizmo calò sul mattatoio.

Il rombo degli apparecchi che volteggiavano disperatamente all’interno della nube invisibile fu soverchiato dalle strida delle povere bestie prigioniere, quando arrivarono i Gizmo. Chiusi nei recinti, gli animali condannati mugghiavano disperatamente, con quei sibili addosso. L’urlo di disperazione corse sulla città, e a Chicago lo udirono tutti i cittadini, svegliati dalle sirene, atterriti dalle notizie trasmesse per radio. Un guardiano del mattatoio telefonò dalla cabina vetrata di dove sorvegliava i recinti delle bestie. Si sentivano come dei sibili, insistenti e penetranti. Davanti a lui le povere bestie si agitavano disperatamente, si buttavano una sull’altra, cozzavano nel vuoto, con grida mai sentite prima.

L’uomo s’interruppe di colpo, ci fu un rumore di cose in frantumi, e la comunicazione fu troncata.

Al mattino i recinti erano pieni di bestie morte. Mucche, pecore… — anche le pecore avevano lottato disperatamente — e maiali. Tutti morti. Tra i caduti, qualche uomo, una ventina appena, guardiani e sorveglianti. Certi operai che stavano facendo riparazioni all’interno di una delle maggiori celle frigorifere non sentirono nulla, né le sirene, né la radio, neppure le grida disperate degli animali morenti. Continuarono tranquillamente il lavoro e quando uscirono si trovarono in un silenzio di morte. Il giorno spuntava e quegli uomini si videro davanti cataste di bestie morte. C’erano anche la polizia, i vigili del fuoco, i medici che osservavano con prudenza la scena.


Ci fu allora una serie di reazioni, insieme stravaganti e prevedibili. Era evidente che qualcosa di insospettato, qualcosa d’invisibile, di letale e dotato di volontà, era in azione. Tutto un settore dell’opinione pubblica chiese a gran voce la guerra immediata con l’Unione Sovietica, certamente la causa di tutto. Un altro settore, meno numeroso, spiegava tutto coi dischi volanti, che esistevano sicuramente: il bestiame di Chicago era stato ucciso dagli invasori spaziali e bisognava mandare davanti alla Corte Marziale quei piloti dell’Aeronautica Militare che negavano di averli visti in volo su Chicago. Altri davano la colpa alle industrie locali e parlavano di inquinamento. C era un certo numero di persone fermamente convinte che la morte del bestiame fosse dovuta a qualche germe, trasportato dal vento. Che la nube segnalata dal radar andasse contro vento, questo non scuoteva minimamente la loro fiducia: era chiaro che i rilievi fatti sulla direzione e sulla velocità del vento dovevano essere sbagliati.

I giornali si sfogavano con titoli a caratteri cubitali, ma poi si limitavano a riferire i fatti. Strano che una breve notizia da Roanoke nella Virginia non trovasse posto neppure nelle ultime edizioni. Ma in fondo c’era da parlare della reazione della popolazione di Chicago e dare i particolari degli avvenimenti già narrati.

Certo, una delle cose più straordinarie della mente umana è la capacità di credere fermamente e contemporaneamente a due cose contraddittorie. Dopo la strage di Serenity, dopo il numero eccezionale di persone morte nel sonno il martedì, c’erano stati la strage degli animali nel campo di granoturco del Minnesota, l’enorme aumento di decessi per incidenti stradali il mercoledì, e il massacro del bestiame a Chicago nelle prime ore del venerdì mattina. Era evidente che un’epidemia, forse un’afta epizootica, faceva strage fra gli animali e colpiva anche gli uomini. D’altra parte, era altrettanto evidente che nel fatto di Chicago era intervenuto qualcosa di ben diverso da una malattia. E tra la strage di Chicago e quella del Minnesota c’era un’assoluta somiglianza, anche per come le povere bestie erano morte. E rientrava perfettamente nel quadro la morte per soffocamento degli automobilisti. Si era notato che le vittime d’incidenti stradali non viaggiavano mai a forte velocità nel momento della disgrazia. Se ne andavano tranquillamente a meno di cinquanta all’ora, con i finestrini aperti. Pareva logico dedurne che era al lavoro lo stesso nemico.

Qualcuno forse arrivò a questa conclusione, ma furono ben pochi: la pubblica opinione continuò fermamente a credere a un morbo misterioso che uccideva uomini e animali indistintamente, o a un altro fattore — forse i Russi, forse gli abitanti di un altro pianeta — una cosa viva, però, che faceva strage di uomini e di animali. Le cittadine si barricarono dietro i posti di blocco, stabilirono ferree quarantene, non molto sensate, e richiesero l’installazione di batterie antiaeree.

Le città più grandi presero misure ancor più rigide.

Particolarmente richiesti i missili teleguidati.

Se poi qualcuno osava dire che il bestiame di Chicago non era morto per malattia veniva denunciato per aver negato una verità di fede. Ma chi faceva osservare che, se il bestiame era morto di malattia, le batterie antiaeree erano del tutto inutili, veniva considerato un sovversivo.

La confusione avrebbe potuto essere istruttiva, pensava Lane con ironia, se non avesse avuto degli inconvenienti per la gente che aveva cose importanti da fare come lui e i suoi due compagni.

Lane, la Warren e Burke passarono la notte nell’unico motel di Monterey, con Mostro nella camera della Warren, e Burke che russava sonoramente nella stanza di Lane. Al mattino appresero che in Virginia gli incidenti stradali erano stati numerosissimi e che il governatore aveva ordinato di chiudere al traffico il confine tra i due Stati: provvedimento illegale, ma necessario.

Lane lasciò la Statale 220 e puntò a destra verso la valle del Shenandoah. A Staunton lo bloccarono gli agenti, dovette imboccare una strada di campagna, e di nuovo fu fermato a Harrisonburg, dove una guardia gli ficcò una pallottola nel parabrezza. Burke svenne.

Furono costretti a un lungo giro ozioso intorno a Harrisonburg, e persero tre ore per raggiungere la Panoramica, che non attraversava nessuna città e poteva servire per un bel tratto. Ma non la presero e preferirono proseguire per le strade di campagna. Tutto tranquillo a New Market. In giro c’erano cani e bambini e la gente che se ne andava per i fatti propri: la solita cittadina di provincia nel solito pomeriggio estivo. Luray invece era bloccata al traffico. Di nuovo, si persero in un intrico di piste che avevano tracce di gomme, ma non dovevano aver mai visto un bulldozer. Guadarono varie volte piccoli corsi d’acqua, seguirono segnali sbagliati, finirono in cascine oltre cui non andava la strada. Allora dovevano far marcia indietro e provare con un’altra derivazione.

Viaggiavano ormai da quattordici faticosissime ore, quando finalmente sbucarono a Strasburg. L’allarme, li, non era ancora arrivato. Vi passarono la notte, e il mattino dopo, alle quattro, erano di nuovo in macchina. Le notizie le seppero dalla radio, che riferiva la confusione generale.

Chicago non era stato l’unico obiettivo di una nube di Gizmo, segnalata dal radar. Il mattatoio di Kansas City era un disastro. Nel Texas, mentre si caricava del bestiame, erano arrivati quei sibili, tra il mugghiare disperato degli animali impazziti. Nelle regioni centrali il bestiame da allevamento moriva sul terreno sconvolto. Al mercato dei suini di Saint-Louis non si sapeva come eliminare le bestie morte e come proteggere la gente, in caso di un ritorno del morbo.

I tre decisero di dirigere su Winchester e poi su Washington. La dottoressa Warren era conosciuta in campo scientifico: a questo punto bastava che parlasse di quanto avevano scoperto, che eventualmente ne desse una dimostrazione pratica davanti a qualche influente burocrate e tutto sarebbe stato a posto. Lane inoltre aveva sempre di riserva il suo amico.

Mentre alle quattro del mattino si lasciavano alle spalle Strasburg immersa nel sonno, la radio annunciava che sul Giardino Zoologico Rock Creek di Washington era arrivata una delle solite nubi segnalate dal radar, dopo aver risalito sopravvento il Potomac, e avere fatto strage di tutti gli animali. Non un cane, non un gatto in tutta una zona di Washington.

Il giornale radio annunciò che la popolazione lasciava la città, spaventata soprattutto dal fatto che gli aerei avevano fatto fuoco contro la nube tentando di spazzarla, prima che arrivasse su Washington, e non c’erano riusciti.

Ponti e strade erano congestionati dal traffico; si stavano prendendo misure per facilitare lo sfollamento.

Quando la radio tacque, Lane disse con disappunto: — Si cambia programma: non andiamo più a Washington.

— Ma devo andare a Washington, Dick! — obiettò la Warren. — Lasciate che parli per mezz’ora con un biologo del Ministero dell’Agricoltura e vi assicuro…

— C’è il coprifuoco, dopo il tramonto — rispose secco Lane. — Misura d’emergenza per la difesa dei civili, lo chiamano. Vogliono cercare di frenare l’esodo dalla città. Probabilmente dappertutto è lo stesso. L’altro ieri ci sono state almeno un migliaio di vittime per incidenti stradali, causati dai Gizmo. E ieri le cose non sono certo andate meglio. Hanno parlato d’incidenti durante il giornale radio?

— No — disse spaventata la Warren. — Ma credete che le cose vadano tanto male da censurare le notizie? Forse le autorità hanno paura a lasciar uscire la gente dalle città, e di dover spiegare il perché…

— Non invidio quei signori, in questo momento — rispose Lane. — Può capitare benissimo, come è già capitato, che i Gizmo, dopo gli animali, se la prendano con gli uomini. Per ora la gente muore in città, e perciò gli altri vogliono scappare. Se i Gizmo uccidono lungo le strade la gente è indotta a restare a casa, ma se gliene spiegate il motivo, si sentirà sempre in pericolo.

Si fermò un istante. Erano le quattro passate del mattino, mancava ancora qualche ora all’alba. I fari foravano le tenebre. Ora correvano lungo la nazionale 11, non molto affollata di solito, a una quindicina di chilometri da Strasburg. Avevano incontrato soltanto due macchine. In quel punto la strada era in discesa, poi, duecento metri più in là, riprendeva a salire appena passato il ponte sul torrente in fondo alla valle. Un posto come tanti altri, lungo una strada normalissima nelle prime ore del mattino.

Faceva fresco, e c’era una leggera foschia giù nella valle.

Lane si accorse che la foschia non era immobile, si agitava, sembrava ribollisse. Alzò gli occhi alla china un po’ più avanti. Alla luce dei fari si scorgeva un moto ondulato. Qualcosa deformò il raggio, come se ci fossero masse di gas riscaldato.

— Le torce! — gridò Lane.

Schiacciò l’acceleratore e la macchina iniziò la discesa, aumentando la velocità, e attraversò nebbia e ondulazioni. Subito tutt’attorno risuonarono i sibili rabbiosi. La macchina correva e i sibili si facevano sempre più violenti. All’interno, brillò la fiamma di una torcia.

La Warren l’agitò, qualcosa arse in una fiammata azzurrognola. Un gran puzzo e i sibili divennero un urlo stridulo. Qualcosa sigillò naso e labbra di Lane. Tenne il fiato, continuando a guidare furiosamente, e la macchina superò la china e si lanciò in piano, sempre più in fretta. Filava sugli ottanta quando la Warren passò la torcia davanti al volto di Lane. La cosa avvampò, con un sibilo.

— Grazie — mormorò Lane mentre l’aria spazzava via l’odore. — Forse ci seguiranno per un po’, ma non importa. Come va lì dietro?

La Warren protestò: — Avrei potuto prenderne uno! Ma non avevo la federa.

— Burke? — domandò Lane improvvisamente. — Tutto bene?

La Warren passò la torcia davanti al volto contratto e spaurito di Burke. Un lampo, e Burke si abbandonò spossato.

— Muoiono così per le strade — osservò Lane — e non soltanto nei fondovalle, ma dappertutto. I Gizmo non sono intelligenti e non hanno volontà, ma la cosa non migliora la situazione.

Non la migliorava, certo, ma la rendeva più comprensibile. I Gizmo avevano l’istinto della caccia, non si accontentavano più di rifiuti, e la loro linea d’azione era evidente. Erano esseri capaci di muoversi a gruppi o a sciami, e come sempre avviene tra esseri socievoli ci sono sempre degli isolati che commettono singolarmente dei crimini. Ce ne sono anche a cui la caccia non interessa. Ma in complesso i Gizmo avevano tutti la tendenza a cacciare di notte e a nutrirsi di giorno. Nelle foreste native si muovevano in masse, con leggeri, macabri sibili, e fluttuavano invisibili tra gli alberi e nel sottobosco. In un certo senso pascolavano quando si muovevano in cerca di preda su una lunga linea frontale e profonda, spazzando via tutto: uccelli, insetti, ogni essere animato. Se s’imbattevano in un grosso branco, i Gizmo lo circondavano, approfittavano del panico che impediva alle povere bestie di fuggire, e le uccidevano.

Un ottimo sistema per procurarsi il sostentamento. Lane intanto faceva un quadro della situazione: adagio ma inesorabilmente quelle masse di mostri invisibili dilagavano su tutto. L’odore del mattatoio li avrebbe attirati da ogni parte, sarebbero calati sulla preda ciecamente. Per ora avevano attaccato la macchina perché disturbati ma, privi d’intelligenza com’erano, non facevano nessuna distinzione tra uomini e animali. Tuttavia erano a quanto pareva, capaci di collera: attaccavano rabbiosamente quando uno di loro era prigioniero, e sembravano anche terribilmente vendicativi.

Forse avevano inseguito lui e la Warren attraverso i monti, dove Burke li aveva presi a bordo, spinti dalla rabbia; e sempre per rabbia dei loro compagni morti s’erano lanciati contro il distributore con quelle enormi nubi di polvere. Non avevano zanne né artigli per difendersi. Compivano movimenti di massa, sotto la spinta del furore, della fame, forse della paura, come altre creature, come le api o le mandrie di bisonti…

Lane, filando nelle tenebre, lasciò a poco a poco cadere quelle ipotesi. Si immaginava masse di Gizmo dilaganti sulla Terra a far strage di ogni essere vivente. E se lo stormo calava su una città…

La prima notizia del genere fu segnalata da St. Joseph, nel Missouri.

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