La fiamma bianco-azzurra balenò davanti alla faccia di Lane. Lievi sibili, e poi la Warren: — Presto in macchina! Ho un prigioniero! Forse ci verranno dietro, se lo portiamo fuori città!
La “cosa” gli toccò una spalla, e di nuovo sprizzò la fiamma azzurra. La Warren aveva preso una delle torce, l’aveva accesa e stava facendo pulizia davanti al volto di Lane. La torcia aveva una durata di due ore e quindi potevano usarla senza risparmio. Lane gliela prese di mano. Ora la gente correva in preda al panico, senza sapere da che cosa fuggiva. Alcuni annaspavano in cerca d’aria, ma altri erano già a terra, e soffocavano. Su tutto un gran sibilo che superava le voci umane, e veniva dall’alto, come l’urlo dell’uragano, e faceva accapponare la pelle.
Lane si aprì la strada fino alla macchina, lottando contro forti correnti di Gizmo, che stavano costituendo delle organizzazioni globulari, già sperimentate come nubi di polvere. Contro quei turbini, Lane manovrava la lunga fiamma come una spada. Questa volta, non c’era polvere, ma la palla era ugualmente visibile perché tutto tremolava dietro lo sterminato numero di Gizmo. I tetti delle case apparivano ondulati e Lane cercava disperatamente il punto vitale di quel turbine, come un tempo i balenieri cercavano con gli arpioni i punti vitali delle balene. Colpi prima una vena, e dai Gizmo morenti si levarono fiamme sottili, alte più di un metro. Poi, di colpo, centrò un’arteria, e intorno tutto fiammeggiò, e lo stormo dei Gizmo si disperse.
Un cavallo attaccato a un carro s’impennò, scalciò, stramazzò a terra. Qualcuno correva alla cieca, agitando l’aria davanti al viso, oppure cadeva in ginocchio, stramazzando poi sul marciapiede.
— Aprite! — urlò la Warren furiosa. — Aprite lo sportello!
Intanto cercava di respirare, con un’espressione di orrore in viso. L’odore dei Gizmo bruciati era spaventoso. Lei continuava a stringere la federa gonfia che si dimenava freneticamente.
La Warren batteva contro il finestrino. Dentro, Burke, con mani tremanti, tentava di mettere in funzione una torcia, e non sentiva niente. S’era chiuso dentro, e aveva bloccato gli sportelli in preda al panico. Lane colpì il finestrino con il serbatoio della sua torcia e il vetro si ruppe, ma rimase insieme perché infrangibile.
— Aprite — urlò Lane — o aprirò io con il fuoco!
Burke alzò la testa, si tirò su, si mise ad armeggiare con dita incerte e gli ci vollero parecchi secondi prima che riuscisse a sbloccare lo sportello. La Warren lo spalancò.
— Giù i finestrini — ordinò la Warren — e voi, Dick, mettetevi al volante. Questo idiota è costato molte vite.
Lane spinse via Burke e mise in moto. La Warren sedette accanto allo sportello anteriore, tenendo fuori dal finestrino la federa che si dibatteva tra grandi sibili.
— La fiamma, Burke — ansimò. — Quei mostri cercano di farmi uscire, lasciare la presa…
Non riuscì più a parlare. Burke manovrò la torcia e liberò la Warren che tirò di nuovo il fiato, piena di orrore. La macchina si mosse e filò lungo la strada, mentre Mostro continuava a urlare.
— Adesso — gridò la scienziata, superando l’abbaiare del cane — adesso faremo strillare l’amico. Burke, badate che non mi soffochino.
Strinse con l’altra mano il collo della federa, serrando via via più forte il prigioniero, che dibattendosi lanciò un suono stridulo, più volte ripetuto.
— Ecco — disse la Warren fiduciosa. — Ormai possiamo prendercela con calma! Ci seguiranno di sicuro!
Lane sterzò, per schivare una macchina ferma. C’era molto traffico in città, ma il tumulto era durato pochi minuti, e molte auto si fermavano a vedere cosa succedeva, anziché portarsi sul posto, dove altri uomini forse erano in pericolo. A un certo punto, la doppia colonna di macchine gli bloccò la strada; allora Lane salì sul marciapiedi, aggirò l’ostacolo, poi con un sobbalzo tornò sull’asfalto nella carreggiata.
— Guardate dietro — ordinò — e ditemi se i Gizmo attaccano ancora.
— C’è un tale che sta rialzandosi — rispose la Warren — e tutti gli corrono incontro per sapere perché è caduto in quel modo… Stanno anche soccorrendone un altro.
— Ce ne sono molte altre di quelle “cose”? — s’informò Lane. — Se tutto lo stormo c’insegue…
Una pausa. Lane guidava a trenta all’ora. E finalmente gli alberi. Si lasciarono alle spalle il centro della città.
— Ci seguono — disse la Warren, senza scomporsi. — In basso non sono molto fitti, vedo delle cose nitide. Ce ne sono di più in alto: la cima delle case è come increspata. E probabilmente, il grosso è ancora più su.
Gli alberi si chiusero sopra le loro teste. La macchina prese velocità.
La Warren domandò: — Credete che sia meglio legarlo più stretto, questo? I Gizmo viaggiano con noi, li sento che mi toccano le mani e i polsi. Con il fuoco Burke li tiene a bada, ma continuano a inseguire il compagno sibilante chiuso nella federa…
— Acceleriamo un po’ — rispose Lane. Non si stupiva della calma della scienziata: quando si è intenti a qualcosa, è difficile soccombere al panico.
Far qualcosa in un momento critico è sempre un buon calmante.
— Quaranta all’ora — riprese Lane. — Possiamo calcolare la loro velocità: appena non li sentite più sulle mani, sapremo qual è il loro limite di velocità.
La macchina abbandonò le strade ombreggiate di Murfree, e si trovò sotto il cielo senza nubi, nel sole splendente, in aperta campagna. Era molto diverso che tra le valli e le montagne impervie. Dai finestrini aperti entrava la brezza, mentre la macchina aumentava velocità.
— Faticano a tenerci dietro — disse vivamente la Warren. — A quanto andiamo?
— A cinquanta, anzi a cinquantacinque…
La macchina rallentò. La Warren brontolò subito: — Eccoli di nuovo in massa. Non è piacevole sentirseli sulle mani, fanno ribrezzo… Burke, lo stormo ci segue sempre?
— Sempre.
— Cerchiamo un luogo dove si possa interrompere l’inseguimento e che non sia vicino a una città, perché non ci sfoghino sopra il loro rancore.
Burke tremava ancora, e disse con le labbra aride: — Mi spiace, signor Lane, non vi ho dato molto aiuto, prima, ma non capivo che cosa volevate fare.
— Non pensateci — disse Lane, con gentilezza. — I Gizmo hanno attaccato Murfree, la dottoressa Warren ne ha preso uno, e gli altri ci hanno seguito, chiamati dal prigioniero. Finché seguono noi, non ammazzano nessuno. Adesso indicatemi un posto dove interrompere l’inseguimento, ma che sia lontano da un paese, e anche da case isolate, se possibile.
— S-sì — fece Burke, gelato di paura. Mostro si mise ad abbaiare.
— Allungate un calcio a quel cane — scattò Lane, irritato — che stia zitto! E ditemi dove scaricare quei cari amici sibilanti.
— Sto pensando, signor Lane — rispose Burke.
Lane continuò la corsa. Intanto il cielo si faceva scuro e si vedevano dei lampi.
— Un temporale — disse Lane. — Dovremo passarci in mezzo. E i Gizmo come se la caveranno?
La Warren sorrise: — Metabolismo gassoso significa gas ionizzati. Ma per deionizzare un gas lo si fa passare nell’acqua! La pioggia dovrebbe ridurne le dimensioni.
Lane vide la grigia cortina di pioggia avanzare lungo le pendici occidentali dei monti. Correva sulle creste, in un lungo fronte umido che si muoveva attraverso la valle. Un bivio: Lane scelse la strada che portava più vicino al temporale.
— Forse l’acqua ci libererà dagli altri — disse la Warren piena di speranza — e possiamo portarci dietro questo.
— Come portafortuna, ma sì! — disse Lane. — Strillano di più, quelli dietro, o si sono avvicinati?
— Ci superano — riferì Burke.
— Non devono — rispose Lane. — Non so fino a che punto siano astuti, ma potrebbero gettarmi della polvere negli occhi e accecarmi. — Accelerò e si diresse dritto in mezzo al temporale.
Poco dopo un turbine di vento sollevò un gran polverone, e la grigia cortina d’acqua si stese sulla campagna. La macchina correva sobbalzando tra masse di pini che nascondevano ogni cosa, tranne i nuvoloni neri e il nastro della strada davanti.
Con uno scroscio improvviso arrivò la pioggia. Tamburellava violenta sul tetto della macchina e scorreva, rossastra di polvere, giù per il lunotto posteriore, mentre i tergicristallo tenevano sgombro il parabrezza. La Warren rialzò il vetro, e vi fissò la federa, che sbatacchiava appena fuori, investita dalla pioggia. Burke spense la torcia, che aveva protetto la scienziata dagli attacchi dei Gizmo.
Intanto, mentre chiudevano i vetri della macchina, sotto una pioggia torrenziale l’asfalto della strada divenne lucido e nero, con sopra cinque centimetri buoni d’acqua. La campagna era plumbea, squarciata dai fulmini. Si sentiva il fruscio delle gomme nell’acqua, il ronzio monotono dei tergicristallo e un buon odore di terra bagnata.
— Dobbiamo mettere dentro il prigioniero — disse la Warren, con un certo disagio. — Possiamo ficcarlo nella latta che vi siete procurato. Se riusciamo a portarlo a Washington e a farlo vedere a qualche scienziato, si occuperanno subito della cosa.
— Sì, forse — disse Lane — ma a me non importa un bel niente della buona salute dei Gizmo. Lasciatelo pure fuori.
Continuò la corsa. La strada piegava a destra, pianeggiante, per poi dirigersi verso l’ampio fondovalle. La pioggia cadeva fitta sui prati.
A tre chilometri dall’ultimo tratto sotto i pini si trovarono di colpo fuori del temporale. Da una parte e dall’altra, campi bagnati e rossastri; di fronte il maltempo si spostava in direzione nord-est. Lo seguirono. La federa, sballottata fuori del finestrino di destra, non sembrava consistente come prima.
— Vi dispiace fermare? — chiese la Warren. — Vorrei vedere cos’è capitato al mio esemplare. Non mi sembra più vispo come prima. Vorrei portarlo fino a Washington!
Lane bloccò la macchina.
— Sorvegliate la campagna alle spalle — ordinò a Burke — io mi occuperò della zona di fronte. Burke, voi continuate a credere a una organizzazione militare dei Gizmo?
— Sì — rispose lui, impacciato. — Quelli non vogliono che ci portiamo via il prigioniero perché hanno paura che parli. Hanno persino sospeso l’attacco per impedirci di portarcelo via.
La Warren intanto imprecava: la federa era fradicia d’acqua, ed era asciutta soltanto dove era stata stretta dal finestrino. E appena tirata dentro la macchina s’era afflosciata: non era proprio del tutto vuota, rimaneva ancora qualche bolla ma non abbastanza grossa per essere un Gizmo.
— È morto! — protestava la Warren. — E avrebbe risolto tutto! Ora dobbiamo prenderne un altro.
Aprì la federa, e ne uscì un puzzo insopportabile. Agitò in fretta e furia il sacco fuori del finestrino e cercò di respirare aria pura.
Lane rimise in moto e partì.
Per tutta un’ora, nessuna traccia di Gizmo, come se lì non esistessero. Poi, in un posto, videro quattro gatti morti. Le bestiole erano proprio inanimate, non semplicemente addormentate. Un indizio inequivocabile. Lane fermò la macchina e spense il motore. Tese l’orecchio. Non un suono intorno: né insetti, né canti di uccelli. Riaccese.
— Non ho prove sicure, ma direi che qui ci sono Gizmo o ci sono stati. Ce ne vuole un bel numero però, per eliminare tutti gli esseri che ronzano o cinguettano…
La Warren lo guardò, vivacemente interessata. Una cosa impressionante, a pensarci: gli uccelli distruggono centinaia di migliaia di insetti al giorno, eppure ogni metro di terra o ancor più di bosco pullula di innumerevoli animaletti. Le rondini li cacciano fino al crepuscolo inoltrato, ma di insetti ce ne sono sempre. È difficile pensare a quanti ne vengano distrutti in una giornata e in un metro di terra, eppure il loro numero non diminuisce: spopolare un campo di questi minuscoli abitanti è davvero una strage enorme. E poi eliminare tutto: uccelli, topi, conigli, talpe…
— Non riesco a immaginare — disse la scienziata — quanti devono essere stati i Gizmo che hanno distrutto le zanzare, lassù, dov’eravamo con la roulotte. In quei globi di polvere ce ne dovevano essere a centinaia di migliaia. Un numero enorme! E ognuno di essi può uccidere un uomo. La cosa è grave, Dick!
Burke riprese a parlare, ritrovando un po’ dell’antica baldanza.
— Sissignori! Quei Gizmo sono Marziani o Venusiani, o di dove altro volete. Chiaro come il sole che non sono Terrestri! E sono intelligenti come gli uomini. Forse sulla Terra, prima che arrivassero, c’erano degli esseri gassosi, come potremmo trovarne su Marte o su Venere, se ci andassimo. Ma questi Gizmo non vengono dalla Terra e sono intelligenti, hanno una civiltà, conoscono la tattica militare e anzi la strategia. Hanno studiato un piano di conquista della Terra e c’è poco da stare allegri.
— Si, le cose non vanno molto bene, in questo sono d’accordo — dichiarò Lane. — Ma fino a che punto, non lo so. Certo che se i nugoli di Gizmo possono arrivare dappertutto, le prospettive non sono affatto rosee!
La macchina ora correva verso nord-est, in mezzo a declivi ammantati di verde. S’erano lasciati alle spalle il temporale e filavano lungo una rotabile di terra battuta, tra alti steccati e fitte siepi, con qua e là una cascina. Qualche gatto: vivo. Lane fermò, spense il motore: nient’altro che le solite voci della campagna. Quando la macchina si avvicinava gli uccelli volavano via dai rami più alti delle siepi.
— Ecco di nuovo gli insetti e gli uccelli — disse Lane.
— E i Gizmo — aggiunse la Warren con calma.
Puntò il dito: proprio mentre i tre guardavano, una pernice cadde sbattendo le ali, e rimase a terra inanimata. L’erba intorno palpitava lievemente, come se sul corpicino premessero delle bolle di gas. Lane rimise subito in moto.
La pernice morta tuttavia fu un particolare trascurabile nello sviluppo successivo degli avvenimenti, quando si verificarono vari incidenti che rivelavano uno stato di cose anormale.
In una fattoria dell’Alabama, un contadino negro s’era rivolto a un medicone per metter fine all’epidemia scoppiata tra i suoi polli. A mezzanotte costui aveva bruciato all’interno del pollaio un gran mucchio puzzolente di piume, radici, polveri e altri rifiuti. Mentre quella roba ardeva il medicone recitava frasi misteriose, senza un senso definito, frasi che in realtà venivano dal Golfo di Guinea attraverso generazioni di taumaturghi e che in origine avevano un significato spaventoso. Un fumo densissimo usciva dal pollaio e dentro vi stagnava un puzzo che mozzava davvero il respiro. Il medicone uscì all’aperto, tossendo e dichiarando che da allora in poi i polli potevano starsene tranquilli nel nido.
E fu proprio così. Il medicone aveva recitato formule magiche per cacciare spiriti, demoni, esseri invisibili che attaccavano i polli e li facevano trovare al mattino morti nel pollaio. Incantesimi e suffumigi lasciarono inebetiti i polli scampati alle stragi, ma la perizia professionale del medicone doveva rivelarsi ben fondata. Le bestie ormai erano al sicuro dai Gizmo: pennuti e pollaio emanavano un odore che i Gizmo non sopportavano, e il ciarlatano aveva dato un valido contributo alla caccia ai Gizmo.
Un altro caso. A Tarzana, in California, un malato d’asma, di notte s’era come al solito sentito soffocare. C’era abituato e non badò al lieve sibilo. Anziché annaspare nel vuoto, cercò sul tavolino da notte la fialetta che aveva posato su un fazzoletto pulito. La spezzò e accostò il fazzoletto al naso. L’odore pungente del nitrato di amile si diffuse nell’aria e lui poté di nuovo respirare. Ma non ci fu un graduale miglioramento, come gli capitava di solito: un attimo prima soffocava, un attimo dopo respirava perfettamente. L’odore del nitrato era pungente e il malato si abbandonò sui cuscini ancora spaventato, ma più calmo. Le orecchie gli ronzavano ancora e il cuore gli batteva forte, ma era abituato agli attacchi di asma.
Non sentì il lieve sibilo diventare acuto, spegnersi in un urlo brevissimo. Non gli venne in mente che un Gizmo aveva aspirato i vapori del nitrato di amile: non aveva mai sentito parlare di Gizmo, e non poteva sapere che un’entità gassosa con metabolismo gassoso reagisce al nitrato di amile come reagirebbe un essere umano a un bagno nell’acido nitrico.
Incidenti simili non erano frequenti. Tuttavia è tipico il fatto che la distruzione di Serenity e la strage degli animali domestici non furono mai messi in relazione con fatti come quelli del medicone e dell’attacco di “asma”.
Dalle foreste del Maine, del Minnesota, della Georgia, dell’Oregon, furono segnalate migrazioni di selvaggina. In vari posti, le volpi traversavano furtivamente i campi di soia, e i cervi si trasferivano cautamente in zone dove da anni non se ne vedevano più. Gli animali selvatici fuggivano dai boschi verso le zone abitate; preferivano il pericolo noto, gli uomini, ai mostri invisibili che sibilavano nelle zone solitarie.
Proprio mentre Lane si allontanava dalla pernice, nuova vittima dei Gizmo, a una cinquantina di chilometri, nella Virginia occidentale, un folto gruppo di uomini sorvegliava la zona dove s’erano riversate le bestie fuggiasche.
Molto prima dell’alba s’era sparsa la notizia dell’esodo. Qualche campo era stato risparmiato, altri erano parzialmente distrutti, e alcuni contadini, quel mattino, s’erano trovati gli orsi in cortile. Erano subito corsi dalle autorità del luogo che s’erano riunite per discutere il da farsi. Conigli, topi, cervi, marmotte, ogni specie di animale erbivoro, avevano invaso i campi coltivati. Al raduno partecipavano guardie campestri e forestali, e persino un inviato del Ministero dell’Agricoltura, che aveva percorso un centinaio di chilometri per arrivare in tempo. E naturalmente c’erano i giornalisti.
Nelle prime luci del mattino, lo spettacolo era impressionante. Un immenso campo di granoturco, con le piante verdi, una vicina all’altra, piene di foglie, più alte di un uomo, allineate lungo i solchi tracciati con precisione matematica, e che sembravano arrivare fino all’orizzonte. Una strada bloccata al traffico da un’auto della polizia posta di traverso. Dietro, altre macchine, sulla strada e fuori, e altre ancora ne arrivavano e la gente scendeva e proseguiva a piedi. La notizia della migrazione degli animali s’era sparsa fulminea.
E nel campo ogni sorta di bestie: conigli e marmotte intenti a rodere, orsi che andavano su e giù lungo i solchi e strappavano, per fare in fretta, le pannocchie ancora verdi. Qua e là, dei cervi, timidi, che a volte si azzardavano a brucare le cime più tenere. Il più delle volte però vagavano a gruppetti spinti dal terrore calpestando e abbattendo tutto. C’erano anche delle volpi, con in bocca qualche minuscolo batuffolo insanguinato, mentre altre bestiole saltavano e correvano. Nella calca le puzzole si aggiravano irritate con le code piumose ritte in segno di collera.
C’era un gran frastuono nel campo di granoturco. Si passava dal panico alla calma precaria, in un punto o nell’altro. Intanto le piante di granoturco cadevano e il contadino, che vedeva il raccolto scomparire sotto i suoi occhi, invocava disperato gli agenti, le guardie forestali, il rappresentante del Ministero dell’Agricoltura. La sua famiglia aveva abbandonato la fattoria, e le provviste nel granaio e nel fienile erano in balia dei predatori, che pure erano come interdetti, fra tanta abbondanza. Le donnole minacciavano le galline, e i fiori del suo magnifico granoturco pendevano spezzati, e dappertutto un gran ruminio, strilli, brontolii, grugniti, bramiti, e altri rumori fiochi che non provenivano dalle bestie.
Non ci fu nessuna reazione: la distruzione progressiva e massiccia del raccolto continuò. Gli uomini, osservatori ufficiali o semplici curiosi, non riuscirono a fare niente: se ne stettero semplicemente a guardare. Non una parola fra loro, tranne qualche esclamazione di sorpresa, d’angoscia, di sbalordimento. Poi la scena cambiò, ma gli uomini a tutta prima, non se ne accorsero. La cosa non cominciò dove c’era più gente, e forse soltanto qualche animale avvertì i primi leggeri sibili.
La strage delle povere bestie cominciò a un centinaio di metri dall’auto della polizia. Un gruppetto di sei cervi impazzì improvvisamente e si precipitò alla cieca attraverso i solchi affollati, inseguito da sibili acuti e rabbiosi. Poi s’impennò un orso e lottò contro il nulla. Altri sibili, e i conigli scalciarono convulsamente e le volpi scattarono e lottarono contro gli esseri invisibili, e topi e scoiattoli stridevano mentre cadevano, soffocati e le donnole continuavano a rotolarsi azzannando soltanto l’aria.
Gli uomini si resero conto del pericolo quando una lince si lanciò in mezzo a loro ciecamente, pazzamente, lottando contro il nulla. Poi i conigli si buttarono tra le macchine, e morivano in preda alle convulsioni; le volpi correvano in mezzo alla gente, azzannando furiosamente gli esseri invisibili, poi stramazzavano e morivano tra un fuggi-fuggi generale.
La gente non avvertì i sibili, nel tumulto delle povere bestie inferocite e disperate. Ma anche in mezzo agli uomini c’erano frastuono e confusione, la gente si urtava e urlava in preda al panico. Tutti correvano verso le loro macchine o cercavano di salire dove capitava. Chiudevano i finestrini, mettevano in moto e in breve sulla strada regnò il caos. Parafanghi ammaccati, clacson scatenati e le macchine che tagliavano tra i campi, in mezzo al grano, pur di uscire dall’ingorgo.
In pochi minuti ci furono soltanto le nuvole di polvere delle macchine lanciate a pazza velocità, ma altre rimasero bloccate, con i paraurti ammaccati, mentre i padroni cercavano scampo a bordo di altre macchine.
Mezz’ora più tardi, i giornalisti imprecavano contro i loro colleghi di città: avevano telefonato la loro storia al giornale dal posto più vicino, e ora in redazione tutti la consideravano una cosa da nulla, che non avrebbe di sicuro impressionato la gente. Sì, certo, appena telefonata la faccenda sembrava importante, ma poi per precedenti esperienze, si sapeva che si sarebbe afflosciata, riducendosi a niente. I contadini, tuttavia, continuavano a insistere con gli ambienti responsabili del governo e delle province affinché facessero fronte alla grave epidemia scoppiata tra gli animali. Bisognava rivolgere una interrogazione al Ministero dell’Agricoltura per i raccolti distrutti, e pensare al rischio che correvano gli uomini se orsi e linci abbandonavano le zone selvagge. Ma soprattutto, il Ministero della Sanità doveva preoccuparsi che l’epidemia non si trasmettesse agli uomini.
Mentre i giornalisti si accapigliavano con i burocrati scettici, si ebbero, tra gli spettatori, vari casi letali. Delle salme si occupò un agente, che più tardi si sentì gelare pensando al rischio corso. La gente era venuta per assistere a un avvenimento insolito e molti erano morti proprio per la loro curiosità, convulsi in viso, con la lingua fuori: morti soffocati.
A questo punto, non si poté più non credere. I medici tentarono di stabilire le cause di quell’autoasfissia — non c’erano tracce di violenza sulle vittime — la stampa cominciò a occuparsi della faccenda. Arrivarono gli elicotteri a riprendere la scena dall’alto. I vari Uffici d’Igiene si misero in moto per scoprire quel che era realmente accaduto. Con l’ausilio di maschere e di complicati apparecchi cercavano d’individuare il virus o il germe responsabile dei decessi. Erano tante le bestie uccise che si dovette ricorrere ai bulldozer perché il contagio non si diffondesse.
Lane e la Warren, che si trovavano in Virginia, appresero i fatti del Minnesota dai titoli cubitali dei giornali esposti in un’edicola.
Lane fermò a un distributore per fare il pieno e mentre la pompa era in funzione attraversò la strada e comprò i giornali.
— Devo provare di nuovo a telefonare — disse la Warren, disperata, quando ebbe letto gli articoli e visto le fotografie. — Quegli uomini con i bulldozer, quegli altri che cercano i virus, disturberanno certo i Gizmo mentre si nutrono, proprio come avete fatto voi vicino ai conigli morti. E quelli, furiosi, li attaccheranno. Bisogna avvertirli in qualche modo: mandare della gente ignara a sotterrare quelle bestie è un vero e proprio omicidio.
Lane fece una smorfia. Qualcosa aveva attirato il suo sguardo verso una montagna lontana, chiaramente visibile da quel posto ai margini della cittadina. Osservò con più attenzione: foresta e prati ondeggiavano vagamente e l’ondulazione era più forte al centro di una grande sfera. La palla avanzava, lenta, inesorabile.
— Temo — disse Lane con calma — che quella gente sia molto meno in pericolo di noi. Guardate laggiù.
E puntò il dito. La Warren guardò e lacrime di rabbia impotente le rotolarono lungo le guance.
— Sì, signor Lane — disse Burke con un certo tono tra il soddisfatto e il compiaciuto. — Siamo tutti in pericolo. Quei Marziani, o Venusiani, o che altro sono, stanno sviluppando una vera e propria offensiva generale. La “cosa” contro le pendici del monte è una schiera di Gizmo che si prepara per il giorno “G”, il giorno dei Gizmo. E allora verrà il bello!