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Dick Lane fu il primo essere umano a venire attaccato dai Gizmo e a sopravvivere, in modo da poterne parlare. Con tutta probabilità l’attacco fu opera di una piccola pattuglia nemica. Accadde mentre arrancava su per un sentiero di montagna, appena segnato, fra piante di alloro, querce e pini, lungo i fianchi di un monte che nessuno s’era preso il disturbo di battezzare.

La montagna faceva parte della catena degli Appalachi, nella Virginia occidentale, a una quindicina di chilometri da Murfree che fu in seguito teatro di grandi avvenimenti.

Lane era già stato in altre località per lo stesso scopo, ma era sempre rimasto deluso, e lo stesso gli stava capitando lì sul monte. Niente su tutta la linea. La gente parlava di animali selvatici morti in modo misterioso, e di certi inspiegabili decessi di esseri umani. Ma finora Lane non aveva scoperto niente di concreto. Sospetti sì, e anche gravi, ma nessuna prova che li giustificasse.

In quel caldo pomeriggio d’estate Dick Lane si sentiva scoraggiato, inquieto e depresso.

Per uno sportivo, anzi, per un giornalista sportivo come lui, tutta quella faccenda era seccante. Ma per il resto del mondo non aveva alcuna importanza. A parte naturalmente alcuni pescatori e cacciatori molto preoccupati per i loro ottimi cani che, come impazziti di colpo, s’erano messi a lottare contro l’aria mordendo a vuoto e latrando furiosamente.

Quasi sempre le povere bestie erano morte. Nell’autunno precedente, anche un cacciatore di fagiani era stato trovato esanime accanto al suo cane, morto, nel New Jersey. Uomo e bestia giacevano in mezzo alle sterpaglie tutte calpestate come in una specie di parossismo. Nessuna traccia di violenza, né sull’uomo, né sul cane.

Certo qualcosa di misterioso faceva strage di cani da caccia e di animali selvatici, e si diceva che in alcune regioni lontane troppa gente morisse in circostanze incomprensibili.

Per motivi professionali, Lane si spingeva in zone ricche di selvaggina e di pesci, poi stendeva i suoi articoli che venivano pubblicati quasi tutti sul periodico “Pianure e foreste”. Un mestiere piacevole quello di Lane, finché non erano cominciate le stragi misteriose.

Prima che giornalista Lane era uno sportivo, e quella strage incontrollata di selvaggina lo impressionò alquanto soprattutto perché era evidente che gli uccisori non ammazzavano per mangiare; infatti abbandonavano senza toccarli i corpi delle bestie morte dopo essersi battute coraggiosamente.

“Pianure e foreste” aveva segnalato questi fatti, ma essendo una rivista esclusivamente sportiva non aveva dato notevole rilievo alla notizia che un ragazzo di dieci anni era stato trovato soffocato nell’Euclid Park di Cleveland, e che altri due bambini erano morti in modo altrettanto misterioso, mentre raccoglievano more nei pressi di Englewood, nel New Jersey. Erano state considerate morti accidentali, e non si era pensato di collegarle all’altro fenomeno più vasto. Comunque, Lane e i suoi amici sportivi avevano insistito sulla necessità di indagare a fondo sulle morti degli animali selvatici e di tutti quei cani da caccia. Perciò la rivista aveva incaricato Lane di scoprire cosa c’era sotto. Era dunque parecchio tempo che il giornalista si dava da fare, ma senza risultati tangibili. In quel pomeriggio d’estate, Lane arrancava su per il sentiero senza troppe speranze di successo.

Si era spinto a Murfree in seguito alle notizie provenienti da quella zona, e particolarmente preoccupanti. Nella regione si era verificato un caso appena dieci giorni prima. Nel cuore della notte il bestiame di una fattoria era come impazzito: gli animali si erano dibattuti freneticamente nei box, abbattendo le pareti della stalla, buttandosi contro lo steccato del cortile, e infine fuggendo nella notte in preda a un terrore folle. Le bestie scappate erano otto. Sei erano poi state ritrovate, calme, il mattino seguente, le altre due erano morte senza segni di ferite. Si parlava anche di volpi, di tacchini selvatici, di opossum, di procioni sterminati.

Qualcosa faceva strage di animali selvatici nella regione di Murfree, e la stagione di caccia, ormai prossima, sarebbe stata compromessa.

Lane aveva rivolto un’infinità di domande, aveva cercato indizi un po’ per tutta la zona, e come al solito non aveva scoperto niente. Quel pomeriggio si dirigeva a piedi verso l’ultimo punto della regione dove ancora poteva sperare di scoprire qualcosa. Proprio in quei giorni si trovava nella zona una spedizione biologica promossa dalla Gale University, e la gente del posto diceva che stava studiando gli avvoltoi.

A capo della spedizione c’era una donna. La biologa non aveva fatto buona impressione agli informatori di Lane, i quali avevano insistito sul particolare che portava sempre i pantaloni e, cosa ancora più grave, che non era il tipo adatto per portarli. Cocciuto, Lane si era messo in testa di raggiungere la spedizione, per chiedere alla biologa se aveva scoperto qualche indizio che facesse al caso suo.

La giornata era stupenda. Tutt’attorno l’aspro paesaggio di montagna sembrava crogiolarsi tranquillamente al sole. Sotto un cielo intensamente azzurro, le montagne apparivano di un verde cupo. Era piovuto, la notte prima, e i ruscelli scorrevano allegri fra le rocce. I raggi che filtravano attraverso i rami erano eccezionalmente caldi.

Lane scese un pendio facendo rotolare sassi e pietrisco. In fondo, ai piedi del monte si apriva la valle profonda. La terra rossa dei campi arati era spruzzata di verde. Poi Lane notò un luccichio metallico: la macchina della spedizione, senza dubbio. L’automezzo scomparve alla vista, nascosto da uno spuntone di roccia, mentre il giornalista scendeva lungo il sentiero. Poco dopo il terreno divenne pianeggiante, e Lane sbucò in una breve radura coperta da alte erbe. Al centro della spianata c’era un mucchietto di pelo grigio che spiccava in mezzo all’erba.

Il silenzio e l’immobilità erano assoluti. Fosse stato di notte, quel silenzio innaturale l’avrebbe impressionato. Ma Lane sentiva l’erba cantare sotto i suoi passi, e non pensò affatto che la mancanza di suoni vivi potesse essere un brutto segno.

Qualcosa di invisibile gli sfiorò la faccia. Di notte ne sarebbe rimasto scosso, ma adesso il sole era alto nel cielo. Agitò la mano davanti a sé: gli pareva che ci fosse un filo di ragnatela sospeso nell’aria. Di nuovo. E di nuovo, Lane, impaziente, smosse l’aria, guardando giù a terra.

Da quando si occupava della faccenda, quello era uno spettacolo familiare, ma non certo gradevole.

Al suolo giacevano, morti, venti o trenta conigli selvatici, in un ammasso confuso. Dovevano essere lì da parecchi giorni, eppure non c’erano insetti: i mosconi non li avevano toccati. E neppure gli avvoltoi. Solo allora Lane si rese conto che l’assenza di insetti era un fatto da non trascurare. Sollevò la testa e la “cosa” che il giornalista aveva scambiato per una ragnatela lo toccò per la terza volta. Lui prese dalla tasca un fazzoletto, se lo premette sulla bocca e sul naso, poi, con un piede, rivoltò uno dei conigli.

Udì un lieve suono stridulo, ma non riuscì a capire che cosa fosse. I conigli erano morti tutti, e non c’erano tracce di ferite. Rimosse un’altra carcassa. Scoperte di quel genere ne erano già state fatte tante.

Lievi tocchi misteriosi sulla fronte, sulle guance.

Lane si premette di nuovo il fazzoletto sul volto e tornò ad osservare i corpi rigidi delle bestiole. Strano che dei conigli si riunissero in tanti, soprattutto per morire: i conigli non hanno nemici naturali che li circondino prima di ucciderli. Ancor più allarmante l’altra osservazione. I mosconi e gli altri animali non si erano accostati ai piccoli corpi pelosi, che erano assolutamente intatti. Sempre più perplesso, Lane notò l’assenza di fetore nell’aria. Stava chiedendosi il perché, quando i lievi tocchi cessarono.

Qualcosa gli si chiuse sul volto, bloccandogli narici e labbra. Sulla fronte avvertì una pressione lieve ma insistente. Faccia e collo erano come invischiati in una rete invisibile.

Il sibilo già udito prima divenne più distinto, e Lane non poté più respirare.

Boccheggiò senza emettere suoni, preso da un panico cieco. Ma non si soccombe totalmente al panico, quando si è sbalorditi come lo era Lane in quel momento. Il giornalista rimase un istante assolutamente immobile, cercando disperatamente di immettere aria nei polmoni. Impossibile. Poteva soffiare fuori l’aria, ma non inspirarla, né dalla bocca né dalle narici, come se un fitto velo invisibile e impenetrabile gli coprisse la faccia. Si sentiva addosso quella “cosa” che non era né calda né fredda. Attraverso la “cosa” l’aria non passava, e lui non riusciva a respirare. Stava soffocando.

Barcollò inebetito, annaspando nel vuoto. A stento, si trascinò attraverso la radura, con l’unico desiderio di respirare e non riuscendoci.

Si ficcò nel sottobosco, inciampò, stramazzò lungo e disteso, e fini con la faccia contro uno strato di foglie secche. E finalmente poté respirare ancora. Aspirò una gran boccata d’aria, aria che sapeva di muschio e di foglie morte.

Poi si sollevò carponi… e il respiro gli mancò di nuovo. Per la seconda volta la “cosa” gli avvolse la faccia, gli tappò naso e bocca. Lottò ancora per liberarsi e tornò a tuffarsi nel tappeto di foglie.

E il respiro tornò.

Giacque immobile, ansimante, con la faccia affondata tra le foglie. E allora accadde qualcosa di straordinario: lievi tocchi gli sfiorarono il collo e le orecchie. Lane si sentì rabbrividire. La “cosa” voleva fargli sollevare la faccia per poterlo soffocare.

Ma non c’era nessuno, lì intorno!

Nonostante la paura di venire soffocato, il sentimento più forte in Lane era lo stupore. Giaceva a terra immobile e una “cosa” ignota lo toccava, lo sfiorava perché voleva che lui guardasse in su, che si alzasse.

E intanto mugolava, impaziente di soffocarlo. Lane sapeva che l’incomprensibile “cosa” senza nome voleva ucciderlo, e che c’era un solo modo per impedirglielo: rimanere a terra, con la faccia nelle foglie. La “cosa” invisibile non mordeva, non dilaniava, non trafiggeva. Si stava semplicemente inquietando perché lui non si sollevava, permettendole così di uccidere.

Lane era madido di sudore. Quella “cosa” era l’assassino dei boschi e dei deserti.

I colpetti cessarono.

Lane continuò a restare sdraiato, immobile, inerte. Per la prima volta si rendeva conto dell’innaturale silenzio che lo circondava. Quella quiete adesso lo terrorizzava. Tese l’orecchio cercando di sentire ancora il suono della “cosa” che un istante prima gli sibilava vicino, o di avvertirne il movimento. Nessun rumore. Anzi no… Appena percettibile, non lontano di lì, mormorava un ruscello.


Molto tempo dopo Lane si mosse, con cautela. Nessun canto d’uccello ancora, né un ronzio d’insetto. Non un suono, tranne il fruscio prodotto dallo sfregamento del suo corpo contro la sterpaglia.

Si mise seduto e si guardò attorno, pallido da far paura. Scrutò in ogni direzione, piano, furtivamente, assicurandosi che nùn ci fosse proprio nulla tranne alberi e fogliame. Si alzò in piedi e mosse qualche passo.

Di nuovo gli mancò il respiro.

Non un segno stavolta, neppure i tocchi leggeri. La “cosa” s’incollò sulla sua faccia con un lieve sibilo. Lane poteva vedere attraverso quel velo, ma non respirare. Pieno d’orrore tornò indietro, si buttò a terra, e premendo la faccia contro le foglie secche respirò profondamente.

Qualche istante dopo, più calmo, si alzò di nuovo tenendo premute contro le narici un doppio strato di foglie, e respirando attraverso quelle. L’odore di muschio era fortissimo. Aspettava in preda alla disperazione, perché la “cosa”, che voleva ucciderlo, l’avrebbe certo visto muoversi. Non poteva sperare di svignarsela inosservato.

Invece non accadde niente, e dopo aver aspettato un bel po’, Lane osò scendere lungo il sentiero.

Si sentiva ancora scosso dopo aver percorso un chilometro. Dopo tre chilometri incominciò a respirare più liberamente, ma era ancora pallido quando, da un pendio, avvistò la roulotte di alluminio scintillante sotto il sole, a cinquecento metri da lui. Più avanti la valle degradava, e gli alberi agitavano i rami nella brezza. Tutto era splendido e sereno.

Avanzò ancora qualche passo e vide dell’altro. Vicino a una strana costruzione di rete metallica, alta trenta centimetri, c’era una donna robusta, in pantaloni, intenta ad osservare la rete.

Lane si avvicinò e sentì una voce di contralto che imprecava in termini decisamente poco ortodossi.

Lane tossì, e la donna alzò la testa per guardarlo. Il giornalista non ebbe più dubbi.

— Mi chiamo Lane — disse. — Dick Lane. Voi dovete essere la dottoressa Warren. A Murfree mi hanno detto che vi avrei trovata qui, e che avreste potuto aiutarmi.

— Un po’ difficile — rispose lei in tono seccato. — Di che cosa si tratta?

Lane le disse chi era, le parlò di “Pianure e foreste”, e le spiegò che cercava di scoprire qualcosa a proposito di un fenomeno che interessava molto gli sportivi. Molti capi di selvaggina venivano uccisi in modo insolito, e le stragi erano avvolte nel mistero. Lui s’era fatta un’idea alquanto inverosimile, ma sperava che una studiosa e una biologa come lei avesse notato qualche cosa di concreto.

La Warren lo guardò in modo strano. Poi puntò l’indice: — State parlando di quello?

Lane guardò: un mucchietto pietoso di piume arruffate, su un corpicino dal becco tagliente. C’erano anche delle uova infangate dalla pioggia.

— Una pernice morta nel suo nido — disse lei. Per quanto ancora scombussolato, Lane apprezzò lo spirito d’osservazione della Warren.

— Ce n’è un’altra mezza dozzina, morte così — continuò la donna, fissandolo attentamente. — Tutte nel raggio di quattrocento metri. La cosa mi è sembrata molto strana.

La Warren gli guardava le mani, e Lane si accorse di stringere ancora tra le dita le foglie secche che s’era premuto sul volto al momento di lasciare la radura. Le buttò via, impacciato. — Poco fa ho avuto un ottimo motivo per raccogliere quelle foglie. Ma immagino di avervi fatto l’effetto di essere un po’ matto.

La Warren grugnì, poco elegantemente. — E perché? — disse. — D’accordo, non capita spesso che la gente si presenti con in mano un mazzo di foglie morte, ma non mi è mai capitato di sentire un matto che considerasse strane le sue azioni, come invece avete fatto voi. Se poi vi interessate alla vita degli animali selvatici, forse potete aiutarmi voi. Sono preoccupata per gli avvoltoi. Quel pasticcio fa parte del mio problema — aggiunse, agitando una mano verso il misterioso aggeggio di filo di rame. — Venite giù fino alla roulotte, prenderemo una tazza di caffè. Sapete qualcosa sulla vita e le abitudini degli avvoltoi?

— Pochissimo — dovette ammettere Lane. Sapeva dove nidificavano, quasi sempre nei tronchi cavi e come difendevano il nido contro gli intrusi. Ma gli avvoltoi, con l’uso che facevano del loro becco, non gli erano molto simpatici.

— Andiamo — disse la Warren, e si avviò svelta, continuando a parlare. — Sto conducendo ricerche sulle sostituzioni infrasensorie. In certi casi un senso può sostituirne un altro. Prendiamo ad esempio le vipere. Sulla testa delle vipere c’è un nervo con il quale quei rettili percepiscono le minime variazioni di temperatura. Così riescono ad individuare le prede a sangue caldo anche al buio, quando gli occhi sono del tutto inutili. In questo caso la percezione del calore si sostituisce al senso della vista. I pipistrelli invece avvertono gli ostacoli con le orecchie. E gli avvoltoi al posto dell’olfatto debbono possedere un senso molto più affinato. Mettete una bestia morta, anche coperta di frasche, anche dentro una buca, dove non la si possa vedere, e subito gli avvoltoi accorrono da ogni parte, persino da sopravvento! Eppure da sopravvento non ne possono sentire l’odore! E in realtà il primo avvoltoio che arriva da sopravvento sull’esca ancora tiepida, non la fiuta: la vede! È l’unica spiegazione possibile. Si serve del nervo ottico, anziché dell’olfatto, pur non “vedendo” veramente. Mi capite?

Lane ascoltava appena. A circa tre chilometri da lì qualcosa aveva tentato di ucciderlo, e lui non si era ancora ripreso. Per poco non era caduto vittima dello stesso nemico che sterminava cervi, orsi, linci, e anche altri uomini. Non aveva visto niente, aveva soltanto avvertito una specie di sibilo. Era assurdo eppure era capitato proprio a lui.

— Stavo già ottenendo buoni risultati — riprese la Warren un po’ irritata — ma da dieci giorni in qua, gli avvoltoi si comportano in modo strano. Si librano in aria, cercano il cibo, ma se io metto un’esca sulla quale una settimana fa si sarebbero precipitati, la ignorano completamente! È ridicolo! Sono arrivata alla conclusione che le esalazioni della decomposizione organica si possono scorgere visivamente, ma devo dimostrarlo. E per dimostrarlo ho bisogno appunto degli avvoltoi. Laggiù ci sono dei polli morti — indicò verso un punto con la grossa mano — e gli avvoltoi non li degnano di uno sguardo! Capricci? Gli avvoltoi si mettono a fare i capricci adesso? Oppure si tratta di quei dannati sistemi dinamici, che credo di aver individuato, ma soltanto a metà?

Si voltò accigliata verso Lane che si era fermato a guardare fisso una talpa. Era uscita all’aperto per morire. Uno spettacolo patetico: un mucchietto di pelo con le zampette rosee che spuntavano di sotto. Né mosconi né zanzare l’avevano toccata.

— È li da una settimana — disse, brusca, la Warren.

— Gli avvoltoi non hanno minimamente toccato certi conigli che ho incontrato prima — disse Lane — e non ci sono mosche intorno a questa talpa. — Rabbrividì. — Ho anche notato che non si sentiva puzzo nell’aria, dove c’erano i conigli. E c’è dell’altro…

— Cosa?

— Credo di sapere quel che è accaduto — riprese Lane — ma non riesco a crederci, tanto è pazzesco. Eppure si adatta perfettamente a quel che vi ho detto prima a proposito di fatti inspiegabili…

Si interruppe. Chi avrebbe creduto al suo racconto?

— Padronissimo di tenervi per voi le vostre opinioni — disse la Warren. — A me invece non importa niente di farmi prendere in giro. Quindi vi dico che mi sembra… badate che per ora è soltanto un’ipotesi… mi sembra che qui intorno ci siano dei sistemi dinamici gassosi. Soltanto così si possono spiegare certi fenomeni. Questi sistemi si comportano come cose pseudoviventi, e io mi domando se non sono loro a tener lontani i miei avvoltoi. Sistemi dinamici i quali consumano gli odori che gli avvoltoi dovrebbero vedere!

Lane la fissò un momento, in profondo silenzio. Poi domandò: — Cos’è successo a mosche e zanzare qui intorno?

— Non ce n’è nemmeno una — rispose la Warren. — Una cosa veramente stranissima. Non ci sono più mosche, né zanzare, né moscerini! — Di scatto riprese a camminare verso la roulotte.

Quando furono a un centinaio di metri dalla macchina, un cane sbucò da sotto il veicolo e prese a trotterellare verso di loro. Non era un gran che, come esemplare. Aveva cominciato come cane da caccia, ma a metà strada doveva aver cambiato idea. Teneva la coda penzoloni, e la testa bassa. Si muoveva senza slancio.

— Ecco Mostro — disse brevemente la Warren. — Non è mio. Apparteneva a una famiglia di gente del Sud, che è scappata in preda al panico per qualche cosa che hanno creduto di vedere la scorsa settimana. Quando se ne sono andati, Mostro è rimasto qui, probabilmente perché noi della spedizione gli davamo da mangiare. Cosa che i suoi padroni forse non facevano.

Il cane mugolò un saluto mentre la Warren continuava a camminare.

— Un momento! — disse Lane. — Da che cosa sono scappati?

— Incubi — tagliò corto la Warren. — Dicevano che c’erano delle cose che si sedevano sul loro petto e non li lasciavano respirare. Passavano la notte con la testa sotto le coperte. Due cani e tutti i loro polli sono morti. Anche la mucca. Probabilmente di vecchiaia, ma quelli sono scappati parlando di incantesimi.

— Dio mio! — balbettò Lane sbalordito.

— Eh? — disse la Warren, allarmata dalla sua espressione. — Che cosa vi succede?

Lane faceva lavorare freneticamente il cervello. Collegò fra loro i vari fatti e con suo immenso stupore scoprì che collimavano perfettamente. Il risultato era assurdo, ma i fatti erano quelli.

— Comincio a pensare che quei poveri contadini siano stati molto saggi. Credo che vi racconterò quel che mi è successo.

E le riferì esattamente la sua avventura, senza aggiungere particolari, senza azzardare ipotesi.

— Adesso sapete perché quando ci siamo incontrati tenevo in mano delle foglie secche. Quelle foglie erano per me una specie di celata da usare in caso di bisogno — concluse.

La Warren lo fissò attenta, poi approvò. — Certo bisogna dimostrarlo. Dicono che ho troppa fantasia! Ma gli farò vedere cose che quelli neanche sospettano! Signor Lane — aggiunse poi — sono disperata. Tanto disperata da prendere in considerazione una storia assurda come la vostra, alla quale però credo. Ma spero di scoprire perché si comportano in modo tanto strano i locali “Cathertes aura septentrionalis”, gli avvoltoi, per voi. Restate a pranzo con me e ditemi tutto quello che sapete.


Mostro uggiolò disperatamente.

Poi si mise a ringhiare azzannando l’aria. Faceva un effetto strano e spaventoso vederlo tutto tremante digrignare i denti contro il niente.

Girava adagio su se stesso, mugolando come se stesse seguendo i movimenti di qualcuno invisibile. Era atterrito.

Di colpo si volse e si lanciò alla cieca azzannando nel vuoto, intorno a sé. Fece un balzo, girò su se stesso pazzamente, poi indietreggiò con le orecchie basse e la coda tra le gambe.

Lane si sentì irrigidire. Sapeva che cosa aveva sentito Mostro: alcuni lievi sibili, e forse qualche tocco sul pelo.

— Mi ha seguito — urlò. — Presto, nella roulotte!

Spinse avanti la Warren, mentre Mostro si rotolava a terra tentando di azzannare chissà che, e poi si buttava impazzito dentro un cespuglio continuando a ringhiare. Un attimo dopo ne balzò fuori, si precipitò verso la roulotte, e si lanciò attraverso là porta aperta quasi travolgendo la Warren.

— Dentro! — gridò Lane. — Presto! Prima che ci raggiunga!

Per un momento gli parve di sentire un lieve sibilo maligno, e di nuovo riprovò l’orrore di poco prima, nella radura, accanto ai conigli morti. Pensò agli animali che lottavano invano, sorpresi dal nemico nel loro regno, a tutte le bestie morte che aveva visto.

Il suono lamentoso diventò più forte, come se provenisse da diverse parti.

Spingendo freneticamente la Warren, si tolse la giacca e l’agitò nell’aria. Invisibile o no, voleva sapere se l’indumento toccava qualcosa.

— Presto! — ansimò ancora. — Presto, chiudiamo!

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