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Carr Mackay sfregò il viso sul cuscino, rotolò sull’altro lato, socchiuse appena gli occhi e fissò con una smorfia la stretta striscia luminosa che filtrava da sotto le tapparelle.

Aspettò con impazienza che la sveglia smettesse di suonare. Quando finalmente l’ultimo trillo si esaurì, la sua mente tornò a tuffarsi avida dentro il corpo e si smarrì in innumerevoli vaghe consapevolezze di peso e di tensione muscolare: piccoli piaceri dolorosi.

Poi, quando gli parve che inesorabilmente sarebbe ripiombato nel sonno, balzò fuori impetuosamente dal letto, infilò i piedi nelle pantofole, andò alla finestra, sollevò le tapparelle e guardò in strada, annusò l’aria con un raschiamento di catarro in gola e andò nel bagno.

Un ampio asciugamano, intriso d’acqua il più possibile bollente, strizzato e premuto contro il mento e le guance, suscitò in lui il primo sorriso del mattino; anche la schiuma da barba ebbe un piacevole effetto. Se la distribuì pensoso sul viso, cercando di ottenere uno strato spesso e uniforme come di crema su di una torta di meringhe.

Quand’ebbe completato quel lavoro con sua soddisfazione, prese il rasoio di sicurezza, lo sbirciò per assicurarsi che fosse pulito, avvitò il manico fin quando la lametta non ebbe la giusta tensione e si guardò allo specchio. Le sue narici si contrassero con amichevole disgusto.

— Sei uno sciocco Carr Mackay — si disse gentilmente mentre si passava il rasoio lungo la mascella. — Trentanove anni e fai l’intervistatore in un’agenzia di collocamento. È la misura delle tue capacità in questo mondo prosaico! — Terminò la guancia con piccole, rapide rifiniture, tenne la lama sotto il rubinetto dell’acqua calda, poi cominciò l’altra guancia. La prima, ampia passata, era anche la più soddisfacente, come spalare la neve. — Oh, ma il tuo lavoro è soltanto un gradino, no? Ne farai di strada a partire da qui. Fra un mese, diciamo, sarai Mackay della Fisher e Mackay, consulenti editoriali, un piccolo pezzo grosso, no? — Stringendo il labbro superiore fra i denti, si cacciò il rasoio sotto il naso e lo mosse con massima cautela verso il basso.

— Ascolta Mackay: a chi credi di darla a bere? Perché non ammettere che te ne districherai alla prima occasione, anche se hai fatto una solenne promessa a Marcia? Tu sai benissimo che odii qualunque nuovo lavoro e che detesti doppiamente un lavoro col quale dovresti incantare il tuo prossimo. E anche se tu dovessi accettarlo per placare Marcia, la conclusione scontata è che finiresti per fare il fattorino del signor Fisher. Per giunta, l’intera faccenda è un’ampia illusione. — Invertendo il rasoio, falciò il labbro inferiore. — Oh, ma arriverà qualcosa di molto diverso, no? Qualche avvenimento totalmente inaspettato che esploderà nel bel mezzo del monotono ciclo della tua vita e ti spalancherà un nuovo mondo di mistero e di delizie. Mackay, amico mio, abbiamo ascoltato quel tuo strano concetto e cominciamo a esserne praticamente stufi. — Aggredì con ferocia il proprio mento. Era l’erba selvatica nel prato della sua barba.

— Mettiamola così: anche senza volerlo hai raggiunto un equilibrio nella vita. È piuttosto difficile che tu possa farti strada ancora più verso l’alto e non vuoi farlo. E non è così facile… ah! Ecco dove sta la paura: la paura di scivolare in basso. — Cominciò con il collo. Poiché non era mai riuscito a stabilire da che parte crescessero i peli in quel punto, si rase con una buona dose d’incertezza.

Mentre tornava a scaldare l’asciugamano si studiò il volto rasato. Strano, malgrado stesse pensando a Marcia, ciò non gli faceva più provare quella sensazione di avidità frustrata come invece gli succedeva di solito di primo mattino. Quella mattina aveva l’impressione d’essere una macchinetta bene oliata sulla cui capacità di funzionare indefinitamente senza cacciarsi in nessun guaio (o in qualunque altra cosa) si poteva fare affidamento. Rassicurante, ma anche deprimente.

Affondò il viso nell’asciugamano fumante.

Tornato in camera da letto dovette affrontare il problema se indossare l’abito blu o quello marrone. Una decisione importante, oppure queste cose venivano decise per voi in anticipo? Scelse l’abito marrone. Mentre si stava infilando i calzoni, il suo sguardo cadde sulla superficie vuota del comodino accanto al letto. Provò una vaga sensazione d’inquietudine. Avrebbe dovuto esserci qualcosa? Decise di no.

In piedi davanti al tavolo della toilette trasferì nei calzoni gli oggetti disposti in bell’ordine sopra di esso, e si rassettò i capelli con la spazzola di tipo militare. Gettò un’occhiata alla fotografia di Marcia, curioso di controllare l’effetto che avrebbe fatto su di lui. Aveva un aspetto fresco e assai fotogenico.

È strano, pensò Carr, quanto siamo legati al volto. Rammentò a se stesso che lui e Marcia avrebbero dovuto andare dai Pendleton l’indomani sera, venerdì. Questo gli concedeva un altro giorno e mezzo per riflettere sulla faccenda di Fisher.

Dopo essersi tastato rapidamente le tasche per controllare se c’era tutto quello che avrebbe dovuto esserci e aver dato un’ultima occhiata alla stanza, valicò la porta e la chiuse dietro di sé, scendendo le scale al piccolo trotto. Un’occhiata al Carr dalla faccia vuota nello specchio gli fece decidere che sarebbe stata, come minimo, una giornata tediosa.

Giunto in strada comperò un giornale e saltò su un autobus che arrivò con giudiziosa puntualità. Pagò il biglietto e trovò un posto dove sedersi.

Alla fine della corsa si trovò ad affrontare il secondo importante problema del mattino. Per riflesso condizionato o per libera scelta, ordinò succo d’arancia, un uovo, toast e caffè. Mentre aspettava che lo servissero, continuò a leggere il giornale: la pagina sportiva e quella dei fumetti. Ancora una volta provò una vaga sensazione di accelerazione predeterminata.

A mezzo isolato dall’Agenzia Generale di Collocamento incontrò Tom Elvested. Si scambiarono i commenti sul tempo. Però qualcosa stava ancora tormentando la mente di Carr quando entrarono in ufficio. C’era una domanda che aveva avuto l’intenzione di fare a Tom, ma adesso aveva dimenticato quale fosse.

La signorina Zabel alzò lo sguardo dalla rosa che stava infilando in un vaso dal collo sottile. Gli sorrise. Lui le sorrise in risposta. Poi notò che il blocco del calendario sulla scrivania della donna diceva “venerdì”. Fece per dire qualcosa, poi gettò un’occhiata furtiva alla data del suo giornale. Provò una sensazione di stupore. Era venerdì. E lui era convinto che fosse giovedì… oppure no? Quel maledetto lavoro gli rammolliva il cervello, non riusciva neppure a ricordare il giorno della settimana. Oh, be’, tanto meglio. Così, il fine settimana era più vicino. E avrebbe visto Marcia quella stessa sera. Il suo smoking era in ordine? Certo.

Aveva appena avuto il tempo di sedersi alla sua scrivania e preparare le sue cose e già il primo candidato gli spuntava davanti: da quel momento arrivarono in un flusso costante. Per essere venerdì c’era parecchia animazione. E a ogni singolo istante c’era sempre qualcosa a tenerlo occupato.

Malgrado ciò, dopo la prima ora cominciò a provare ancora quei lampi d’inquietudine che l’avevano turbato sull’autobus. Piccoli guizzi di apprensione che si manifestavano senza preavviso e se ne andavano con velocità colpevole, come se non avessero il diritto di trovarsi nella sua mente. Certe cose lo tormentavano. Senza alcun motivo valido. Il pannello di vetro. L’orologio. L’estremità di un mozzicone di matita sulla sua scrivania. La schiena di Tom Elvested, che pareva così voluminosa. Il camminare ondeggiante della signorina Zabel.

Si aspettava che andare a pranzo con Tom e il resto della banda servisse a scuoterlo dal suo umore. Ma invece Carr quasi si sentì male nell’ascoltare le battute stantie di Tom Elvested sulle imminenti elezioni, fra una cronometrica forchettata e l’altra di gulash. Sapeva benissimo che Tom era un ragazzo intelligente e acuto ma adesso, ascoltandolo, si sarebbe, potuto giurare che avesse inghiottito un disco con incisi i commenti dei notiziari del mese scorso.

Ernie e Acosta erano altrettanto disastrosi, e il fatto che lui stesso si sentisse più o meno come un robot nervoso non era affatto una consolazione. E la cameriera pareva intenta a portargli in continuazione il conto.

Per coronare il tutto Tom si attardò insieme a lui quando uscirono, e ricominciò a parlargli di quell’amica intellettuale di Midge e su come una volta o l’altra avrebbero dovuto avere un appuntamento insieme. Si trattenne a stento sopportando lo sproloquio, perché non voleva apparire sgarbato.

Quando tornò in ufficio, il suo umore era peggio che mai. Digrignò i denti: stava diventando una di quelle orrende giornate in cui annuire a ogni sorriso esige uno sforzo e si è costretti a stirare le labbra o a stringere i pugni sotto la scrivania per riuscire a capire quello che la gente sta dicendo.

Una di quelle giornate in cui è difficile seguire quello che si sta facendo. Scoprì di aver preso il telefono e di aver fatto il numero di Marcia senza ricordare cosa l’aveva spinto a quell’azione.

— Non potremmo cenare insieme prima della festa di stasera? — le chiese. — Vorrei parlarti.

— Mi spiace ma non posso. Ma se vieni a prendermi verso le otto potremmo fermarci da qualche parte a bere qualcosa.

— Splendido.- Sentiva che c’era qualcosa che voleva dirle in quel momento, ma non riuscì a ricordare che cosa fosse prima che lei riattaccasse.

Proprio allora udì un raschiare di stivali, e vide un uomo basso e grasso in blue-jeans avvicinarsi alla sua scrivania… e gli venne la pelle d’oca.

Oh, ricordava fin troppo bene quell’uomo atticciato visto un paio di giorni innanzi. Il guaio era che quella figura si stagliava troppo nitidamente nella sua memoria, come qualcosa uscito da un incubo.

Riusciva a ricordare, con febbrile precisione, quasi ogni singola parola detta da quell’uomo, l’esatta intonazione, ogni gesto che aveva fatto.

Riusciva a raffigurarsi con precisione il modo in cui quell’uomo fumava una sigaretta.

Ma c’erano vuoti nella sua memoria che gli facevano paura. Non riusciva a ricordare una sola parola di ciò che lui aveva detto a quell’uomo, oppure come si era comportato con lui, né quello che era scritto nella domanda di lavoro che era stata presentata da quell’individuo. Sì, era come se quell’uomo atticciato galleggiasse tutto solo nello spazio come un piccolo dio azzurro.

Soltanto con grande difficoltà riuscì a ricordarne il nome: Jimmie Kozacs, e la sua occupazione: ispettore al magnetismo.

E adesso davanti a lui, sul lato opposto della scrivania, quell’uomo aveva la stessa qualità d’una eccessiva realtà, come i ricordi che Carr aveva di lui. Come se si trovasse seduto nelle prime file d’un cinematografo e il piccolo ispettore al magnetismo, ingrandito molte volte, torreggiasse sopra di lui dallo schermo.

Poi, come da un altoparlante difettoso in fondo a quella stessa sala cinematografica, sentì l’uomo che diceva: — Ehi, sono venuto a causa di quel lavoro alla Northcott. Non era come me l’avevano descritto.

Carr divenne conscio di averlo pregato di sedersi, di aver frugato in un cassetto alla ricerca della sua domanda e della sua scheda di registrazione, di aver intavolato con lui una specie di conversazione. Divenne ugualmente conscio, man mano che il colloquio proseguiva, delle energiche e indignate proteste del signor Kozacs a proposito di ciò che si aspettavano che facesse un ispettore al magnetismo, alla Northcott.

Ma durante tutto quel tempo continuò a essere affascinato dall’eccesso di realtà del signor Kozacs.

Guardare quel volto sano e arrossato, con il naso all’insù e il corpo tozzo stretto nei blue-jeans, e aspettarsi che acquistasse una tale compattezza da sfondare il pavimento e precipitare giù attraverso lo squarcio…

Tormentarsi il cervello per capire quale inconcepibile rapporto potesse esserci tra un volto così innocuo e la paura informe che continuava a salire dentro di lui fino al punto da indurlo quasi a vomitare.

E durante tutto quel tempo, continuare a parlare e a scribacchiare promemoria per lui, e alla fine salutarlo augurandogli una miglior fortuna…

Proprio allora Carr notò uno stupido errore nella domanda del signor Kozacs. Era la data. Mostrava che il loro primo colloquio era avvenuto martedì, mentre invece aveva avuto luogo soltanto avant’ieri, mercoledì.

L’uomo basso e grasso si stava incrociando con il candidato successivo che si stava avvicinando alla sua scrivania: Carr stava per richiamarlo e fargli notare la discrepanza. Ma prima che riuscisse a spiccicar parola, la sua mente tornò dal viaggio che aveva fatto senza aspettare che fosse lui a ordinarglielo esplicitamente: un rapido viaggio di andata e ritorno fino alla domenica precedente. E gli portò una serie di notizie che lo lasciarono stordito.

Parte di martedì pomeriggio, martedì e mercoledì sera, e tutto il giovedì erano vuoti.


Forse oggi non è venerdì. Forse si sbagliano tutti. Forse metà Chicago sta sbagliando.

No Mackay! È il modo migliore di perdere la testa. È la super autostrada che porta dritta al manicomio. Devi guardare in faccia la realtà.

Ma cos’hai fatto, allora, durante quei periodi di vuoto? Che cosa hai fatto?

Calma! È una domanda che per il momento dovrà restare senza risposta.

E cosa farai adesso?

Andrai da uno psichiatra? Gli dirai dei tuoi “periodi di amnesia”? Lo indurrai a interrogarti sulla tua infanzia, a tirar giù le tapparelle, a puntarti una luce negli occhi, a lavorare sui tuoi nervi…

No! Non potresti sopportarlo, e tu lo sai. Ti farebbe di sicuro perdere l’equilibrio mentale.

Ma c’è qualcosa che puoi fare.

Qualcosa che per lo meno terrà aperta una strada verso l’equilibrio mentale e la salvezza. Non è spettacolare, malgrado richieda una qualche specie di coraggio. Puoi semplicemente continuare a fare quello che si suppone che tu faccia. Recitare la commedia della tua routine giornaliera senza variarla di un millimetro. C’è sicurezza nella routine, Mackay. Fai andare avanti la gente là dove nient’altro ci riesce. È come per i soldati in battaglia, la disciplina e tutto il resto. Seguendo la routine hai la miglior possibilità di tenerti aggrappato alla tua mente.

Puoi cominciare subito. Alzati; ti è mai venuto in mente, Mackay, che alzarsi è un interessante problema meccanico? Le ossa sono leve, i muscoli sono motori, puoi sentire i cavi dei tendini stirarsi fluidamente. Sorridi: ti dà l’impressione di qualcosa che s’increspa nella tua guancia, non è vero? Stringi la mano al prossimo candidato. Nota il sudore della mano. Anche la qualità della stretta. Vigorosa ma sussultante: è un’indicazione del carattere. Studia la sua faccia: il sorriso, le otturazioni d’oro dei molari, gli occhi castani preoccupati e chiazzati di giallo, le increspature della tensione nella pelle scura intorno a essi, il naso vigile, le cicatrici dell’eczema sotto lo strato di crema. E la faccia per te, Mackay: una faccia da ricordare.

Gioisci, Mackay! Ecco un nuovo candidato: un intero nuovo mondo in cui smarrirti. So che è difficile, Mackay, ma fra un’ora e trentasette minuti saranno le cinque. Se resisterai fino ad allora e farai ciò che ci si aspetta da te, potrai uscire da qui con la mente intatta e nessuno avrà anche il minimo sospetto di quanto ti è accaduto. Sarai libero, Mackay: libero!

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