14

Dapprima vi fu un palpitìo. Poi il palpitìo si ruppe in due parti: dolore e un lento dondolio. Poi molte altre sensazioni: il puzzo dell’olio bruciato e del legno marcito nell’acqua. La sensazione di coperte contro la sua pelle nuda. Una luce che ondeggiava. Un soffitto basso. Una sofferenza diffusa. Un accenno di nausea.

Poi la constatazione che tutto si concentrava su una sola persona, e che quella persona era lui.

Poi un grande ovale indistinto sopra di lui, che lentamente si schiarì fino a diventare un viso. Un viso pallido e gigantesco, con ampie e massicce mascelle che suggerivano una disfunzione ghiandolare. Una bocca larga col labbro inferiore pendulo e denti gialli. Guance fittamente solcate, un naso rotto e risaldato in qualche modo, occhiaie cavernose con grandi occhi immobili, il bianco leggermente fosco. Sopracciglia nere, cespugliose, striate di grigio. E sopra, la grande cupola bianca della fronte. L’espressione era quella d’una preoccupata sollecitudine.

Carr sentì una grande mano infilarsi sotto le sue spalle e sollevarlo senza sforzo alcuno: un bicchiere di vetro grossolano gli fu spinto contro le labbra.

— Bevete.

Era whisky allungato con acqua. Carr ne trangugiò un poco a piccoli sorsi. Poi tornò a guardare quel viso. Riconobbe il gigantesco battelliere che una volta aveva alzato lo sguardo su di lui quand’era passato sul ponte. Intuì di trovarsi nella cabina della chiatta nera a motore.

Ma non voleva pensare. Non tanto per il dolore quanto per una generale, amareggiata svogliatezza. Era contento di starsene lì disteso fra le coperte.

Il battelliere si rizzò. Era così alto che la sua testa mancava di poco le centinature ricurve che sostenevano il tetto della cabina, da una delle quali pendeva un’avvampante lampada a olio.

— Vivrete, state tranquillo — disse il battelliere con voce tonante. — Anche se non ci avrei giurato quando vi ho ripescato. Come avete fatto a cacciarvi in un simile pasticcio? A chi avete dato fastidio? Suppongo che siate andato in giro ad agitare le acque come la maggior parte degli altri sciocchi. Alla banda questo non piace. Guasta il loro spettacolo. Dovreste imparare a vivere tranquillo come faccio io. — Allungò una grossa mano dalle dita a spatola e si versò una porzione di whisky nel bicchiere dal quale Carr aveva bevuto.

La vernice alle pareti era annerita e si stava scrostando. A un’estremità della cabina c’era una piccola cucina economica con una dispensa, un lavello e un serbatoio arrugginito per l’acqua, appeso al soffitto grazie a un paio di supporti metallici. Alla stessa altezza c’erano diverse fessure per la ventilazione, ma Carr non poteva vedere fuori da esse. Notò i suoi indumenti che si stavano asciugando su una specie di corda per il bucato. Dalla parte opposta della cuccetta c’era un’ampia porta scorrevole, chiusa. C’erano parecchie cassapanche e altre casse tutt’intorno. Vicino alla porta vide una piccola libreria fatta con cassette per la frutta. Era piena zeppa di grossi volumi. Appiccicate alle pareti, là dove lo spazio lo consentiva, c’erano fotografie di pugili professionisti ritagliate dai giornali, e riproduzioni da pochi soldi d’incisioni e acqueforti di Doré e Goya.

Il battelliere si verso altro whisky e prese posto su una sedia di legno grigio non dipinto. Si grattò i peli del petto che sporgevano come cespugli dalla canottiera. Fissò Carr corrugando la fronte.

— Come avete fatto ad accorgervene? — Si sporse dalla sedia, i gomiti sulle ginocchia. — La maggior parte della gente non lo fa, sapete. Non possono.

Fece una pausa come per lasciare che le sue parole andassero a segno. Poi: — A me è successo tutto d’un tratto — continuò. — Mi chiamo Jules. Il vecchio Jules. Un tempo facevo il marinaio, ma mi piace pensare. Andavo in una di quelle grosse biblioteche e mi facevo dare ogni genere di libri. Filosofia, metafisica — sillabò queste parole con attenzione — scienza, perfino un po’ di religione. Me li leggevo e cercavo di capire il mondo. Di che si trattava, comunque. Perché mi trovavo qui. A cosa serviva tutta questa storia di nascere, lavorare e morire. A cosa serviva. Perché mai doveva continuare e continuare.

“E perché tutto doveva essere così maledettamente complicato? Perché tutti questi edifici e tutte queste demolizioni? Perché dovevano esserci le città con le strade affollate e gli autobus e i tram e i tassi e quelle scatole di traliccio aperte che si arrampicano su per il cielo per venir riempite poi di pietre e legno? Avevo un solo amico ed è rimasto ucciso cadendo da uno di quegli aquiloni d’acciaio. Non ci dovrebbe essere un modo più semplice per farlo? Perché le cose hanno dovuto essere tanto pasticciate che un uomo come me non è mai riuscito ad avere un solo pensiero chiaro e decente?”

Carr ascoltava con aria sognante. Il whisky stava facendo effetto. Adesso la testa non gli faceva più tanto male.

— Ancora di più: perché mai la gente non faceva veramente parte del mondo? — continuò l’altro, trangugiando un sorso di whisky dal suo bicchiere. — Perché non mostrano una reazione più genuina? Sì, ecco cos’era: la reazione. Per esempio, quando dormivate con una donna, perché era qualcosa che voi avevate e lei no? Perché quando andavate a un incontro di pugilato, i pugili erano soltanto una massa di carne e basta, e la folla un branco di fantocci urlanti? Perché mai una guerra non era nient’altro se non marce, azioni insensate e guai? Perché tutti dovevano passare la vita così, morti, facendo tutto in maniera così metodica e compassata come se fosse il pic nic scolastico della domenica o una parata di orfani a un funerale?

Si grattò la testa e tirò la sedia un po’ più vicina.

— E poi, tutt’a un tratto, mentre stavo leggendo alcuni libri scientifici, la risposta mi balenò nella mente. Era là, stampata in chiaro perché tutti potessero vederla… soltanto che nessuno poteva farlo. Era soltanto questo: Nessuno era veramente vivo. Dietro alla fronte degli altri non c’era nessun vero pensiero… soltanto nervi… soltanto rotelline. Non c’era bisogno dei pensieri, o delle menti, o dell’amore, o della paura per spiegare le cose. Tutto l’universo e gli uomini e la terra e i vermi e gli atomi, tutto lo spettacolo di tiro a segno… era soltanto una grande macchina.

Terminò il suo whisky. Carr girò un po’ la testa così da poter vedere con maggior chiarezza il battelliere. Gli stava facendo un effetto quasi calmante sentirlo parlare in maniera così calma degli orrori degli ultimi due giorni.

— Così era là tutto bello e predisposto per me — continuò il battelliere. — Era per questo che la gente non aveva mai una reazione schietta. Erano soltanto macchine. I pugili erano soltanto macchine fatte per combattere. La gente che li guardava erano soltanto macchine per pestare i piedi, urlare e imprecare. Una donna era soltanto una macchina per fare all’amore con tutto ben regolato per farvi passare un momento piacevole… ma la stella più lontana era più vicina a voi della bocca che baciavate.

“Capite quello che voglio dire? La gente… soltanto macchine, predisposte per fare un certo lavoro e poi morire. Se continuavate a essere la macchina che avreste dovuto essere, allora tutto bene. Allora le vostre azioni concordavano con quelle degli altri. Ma se non lo facevate, se cominciavate a fare qualcos’altro, gli altri non reagivano. Continuavano a fare quello che era stato stabilito per loro. Non aveva importanza quello che voi facevate, loro continuavano a fare i movimenti che erano stati progettati per loro. Potevano essere stati regolati per fare all’amore, e voi invece potevate decidere di combattere. Allora, loro avrebbero continuato a fare all’amore mentre voi combattevate. Oppure poteva succedere l’opposto. Qualcuno poteva parlare di Edison mentre voi volevate discutere di Ingersoll. Ma lui avrebbe continuato a parlare di Edison e voi vi sareste trovato tutto solo!”

Si girò sulla sedia e si versò un altro whisky.

— Tutto solo. Salvo per pochi altri, non più di uno su centomila credo, che si svegliano e capiscono le cose. Ma impazziscono e finiscono per ammazzarsi, o altrimenti diventano individui spregevoli. Sì, per la maggior parte diventano spregevoli. Ottengono i loro meschini piaceri facendo i prepotenti con le creature intorno a loro che non possono reagire. Li troverete dappertutto nel mondo: piccole bande di tre o quattro, o una mezza dozzina, che si sono svegliati soltanto per avere i loro meschini piaceri. Forse si tratta d’un paio di poliziotti a San Francisco, di un insegnante a Kansas City, di alcuni impresari di pompe funebri a Londra, i quali hanno scoperto che tutta la gente che se ne va in giro è bell’e morta e non c’è bisogno di trattarla più decentemente di così. Forse si tratta d’un paio di guardie di quei campi di concentramento che avevano in Europa, che vedono come sono brutte le cose e si danno da fare per peggiorarle ancora un po’. Soltanto di un po’. Non spregevole poco. Non osano distruggere veramente le cose alla grande poiché sanno che la macchina li accudisce e li nutre, e hanno sempre paura di farsi notare da altre bande come la loro e di venir spazzati via. È la paura che li spinge, sempre la paura. Non hanno il fegato di sfasciare sul serio tutta la baracca, ma traggono un intenso piacere a scribacchiarci sopra le loro sporche faccende, immischiandosi e pasticciando. Ho visto alcuni dei loro divertimenti, come loro li chiamano, talvolta di nascosto, talvolta all’aperto, per la strada. Tutto marcio e schifoso.

“Avete mai visto un commesso che veste un manichino in una vetrina, che ci armeggia intorno? Ebbene, supponete che lo schiaffeggi. Supponete che un ragazzino pianti un po’ di spilli in un gatto di pezza o butti una manciata di pepe negli occhi di una bambola. Proprio così, marcio e schifoso. Nessun decente uomo vivo vorrebbe aver a che fare con cose del genere. O tornerebbe al suo posto nella macchina recitando fino in fondo la parte assegnatagli, oppure si nasconderebbe come ho fatto io, vivendo quanto più tranquillamente possibile, senza smuovere le acque.”

Fissò Carr da sotto le sopracciglia ispide. — Cosa avete intenzione di fare? Siete giovane. Perché non tornate al vostro posto nella macchina e non ve la sudate fino in fondo a quel modo?

Carr tentò di sollevarsi un po’ a sedere. La cabina parve oscillare e si offuscò. — Non posso — si sentì bisbigliare — perché quelli che m’inseguono conoscono il posto in cui vivo e dove lavoro. È c’è una ragazza. Conoscono anche il suo rifugio… se non l’hanno già trovata.

Il battelliere si sporse in avanti, con i gomiti sulle ginocchia. — Chi sono? — domandò. — Quale banda? Che aspetto hanno?

Carr si mise a descrivere la signorina Hackman, il signor Wilson, e Driscoll Aimes. Aveva quasi finito di descriverli quando battelliere l’interruppe: — Li conosco. Gente spregevole. Ho visto quel loro perfido gatto nero.

Scolò quanto rimaneva del whisky poi restò lì seduto a giocherellare con quelle mani dalle grosse nocche. Finalmente si alzò in piedi. Il bicchiere rotolò attraverso il pavimento. Il battelliere raggiunse barcollando la porta, la socchiuse, poi la spalancò del tutto. Il buio e i rumori della città fluirono dentro. Si guardò intorno.

— Voi tornàtevene a casa — bofonchiò rivolto a Carr. — Voi e la vostra ragazza. Non preoccupatevi di niente, lasciate fare al vecchio Jules. Ho parecchie conoscenze. — Sventolò la grossa mano verso Carr. — Tornàtevene a casa. — Poi varcò incespicando la porta e se la chiuse alle spalle.

Carr si rizzò a sedere mordendosi le labbra per vincere l’improvviso attacco di vertigini. Protese le gambe oltre l’orlo della cuccetta e rimase seduto, immobile, con l’aria fresca che gli correva lungo la pelle, le pareti della cabina che ondeggiavano avanti e indietro, lentamente, per erompere, di tanto in tanto, in una cascata di fugaci scintille.

Dopo un po’ si rizzò in piedi, sempre tenendosi aggrappato all’orlo della cuccetta. Non appena la sua vista divenne chiara e ferma attraversò la cabina, ricordandosi di chinarsi fino a quando le sue dita non raggiunsero gli indumenti là dov’erano appesi, resi rigidi dall’acqua sudicia. Si rivestì con impacciata lentezza, come un bambino. I calzoni erano incollati insieme, e dovette passare le mani sopra le gambe per scollarli e poterli infilare.

Sentì in lontananza la sirena di una nave sul lago. Terminò di vestirsi e se ne stette lì a lisciarsi l’abito. Poi si diresse verso la porta, riuscì ad aprirla con difficoltà e uscì sullo stretto ponte.

I rumori della notte ormai avanzata di Chicago lo avvolsero: il solitario ronzio del traffico, un lontano scampanio stonato, lo sferragliare di un treno sulla sopraelevata attraverso il ponte della Wells Street, il rombo di macchinari inidentificabili. Carr vide sul lato opposto del fiume tre o quattro file di fari che si facevano strada lungo i due livelli della Wacker Drive, una luce rossa di avvertimento sulla riva, qua e là qualche chiazza illuminata tra le finestre dei torreggianti edifici, e i loro riflessi ondeggianti sull’acqua nera mobile come mercurio.

Carr si rese conto che la chiatta era ormeggiata sul lungofiume, soltanto che lui, in quel momento, si trovava sul lato della chiatta lontano da questo. Con traballante cautela, aggirò il ponte sul lato di poppa, trovò l’altra sponda, sbirciò sopra la murata, vide che fra lui e la pietra della riva non c’erano più di trenta di centimetri d’acqua. Aspettò un attimo, scavalcò la murata, recuperò l’equilibrio.

Proprio allora un vivido bagliore rosso fiammeggiò alle sue spalle, illuminando i mattoni e la pietra della riva come se fosse giorno. Stringendo spasmodicamente la murata, premendo le gambe, contro di essa per non cadere, Carr girò la testa. Vide il battelliere in piedi a prua con un razzo di segnalazione delle ferrovie che gli sfrigolava in mano. Contro la superficie nera del fiume, la metà inferiore del suo corpo gigantesco tagliata fuori dal basso tetto della cabina, la sua schiena in ombra, i grumi possenti dei suoi muscoli, il suo ampio volto e i capelli aggrovigliati riflettevano l’accecante bagliore rosso, e lui pareva un reggitore di torce nell’inferno, un segnalatore in riva allo Stige. Vide Carr. Per sette volte mosse la torcia in cerchio, poi altre sette volte e infine la scagliò in alto nell’aria, facendola roteare.

— Segnali — borbottò enigmaticamente dal lato opposto alla cabina. — Fidatevi del vecchio Jules.

Il razzo ancora acceso venne giù come una piccola meteora e si spense sfrigolando nel fiume.

— Ascoltate! — Carr sentì il richiamo del battelliere anche se quasi non riusciva più a distinguerlo tant’era profondo il buio che era calato all’improvviso dopo lo spegnimento del razzo… oppure era stato il suo stordimento a tornare? — Ascoltate. Lo sentite? — ripeté il battelliere con voce sommessa ed ebbra. Carr tese le orecchie ma non fu conscio di niente se non dei rumori meccanici di Chicago. — Eccolo! — gridò il battelliere: — Clankety-clank… clankety-clank… È il vero suono dell’universo. È la musica delle sfere. È il vostro coro celeste. Non molto dolce vero? — Fece una pausa. Poi, voltandosi verso la città, agitò minaccioso il pugno.

— Ma aspettate! — ruggì. — Aspettate! La vostra ora sta per giungere. C’è un nuovo potere che guida la grande macchina. Un potere che può fondere le città come una fiamma ossidrica fonde l’acciaio. Vedremo se la grande macchina riuscirà a resistere a questo, con la gente ancora tutta addormentata. Vedremo! Vedremo! Vedremo!

La vista di Carr si schiarì. Attraversò il sottile nastro d’acqua e s’incamminò con passo incerto per il lungofiume.

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