6

Esitante Carr spinse il cancello di ferro. Si aprì d’una sessantina di centimetri, poi stridette contro la ghiaia, un po’ umida per la pioggia del giorno prima, e si bloccò del tutto. Carr scivolò dentro.

La casa appariva deserta. Comunque era risaputo che c’era gente che faceva una vita da recluso nei luoghi più impensabili.

Oppure, un posto come quello poteva essere segretamente usato da intrusi. Perfino in quel momento occhi estranei potevano sbirciarlo attraverso le fessure tra le assi che bloccavano le finestre del pianterreno.

I suoi piedi lo stavano conducendo lungo il viale che portava dietro la casa passando davanti al sottoportico. Aveva quasi raggiunto l’edificio quando notò le impronte.

Erano di una donna, molto fresche, eppure affondavano più in profondità delle sue. Dovevano essere state lasciate dopo la pioggia. Ce n’erano due serie: una conduceva verso il sottoportico, l’altra proveniva da esso.

Guardando le nere aiuole devastate, inspirando il loro odore umido e muffoso, Carr si sentì sollevato dalla presenza di quelle impronte.

Le esaminò più da vicino. Quelle che conducevano verso il sottoportico erano più profonde e spaziate. Ricordò che Jane si era allontanata quasi di corsa.

Ma la scoperta più sorprendente fu che le impronte non raggiungevano in nessun punto la casa. Si arrestavano nella fanghiglia creata dal terriccio soffiato dal vento nel sottoportico, a quasi due metri dai gradini infangati.

Qui le impronte si sovrapponevano confusamente, poi tornavano verso il cancello. Era evidente che Jane era corsa fino al sottoportico, aveva aspettato là sotto fino a quando non era stata sicura che lui se n’era andato, poi aveva ripercorso i propri passi.

A quanto pareva, aveva voluto fargli credere che lei viveva in un palazzo.

Carr tornò verso il cancello. Un ricordo della notte prima stava tentando di affiorargli alla mente. Guardò lungo la recinzione di ferro che correva parallela al marciapiede. Un pezzo di carta appena all’interno della recinzione attirò il suo sguardo: era incastrato tra i rami secchi e neri d’un arbusto. Carr ricordò che qualcosa di bianco era caduto nel buio, svolazzando, dalla borsetta di Jane.

Infilò la mano lungo la recinzione fino all’arbusto e afferrò il pezzo di carta, facendosi largo con difficoltà tra i rami secchi.

Il foglietto era ripiegato due volte e gli orli apparivano consumati e ingialliti come se fosse stato portato in giro per molto tempo. Non era macchiato dalla pioggia. Dispiegandolo, Carr scoprì che era fitto d’una scrittura in inchiostro marrone che gli ricordò vividamente l’avvertimento scribacchiato da Jane ma era molto più piccola e contorta. Con una certa difficoltà, tenendo alto il foglio di carta e spostandosi verso il centro del prato, alla luce morente lesse:


Sempre conservare le apparenze.

Sempre fare qualcosa.

Sempre esser primo o ultimo.

Sempre da solo o in strada.

Sempre avere una via di fuga.

Evita: i negozi vuoti, i cinema e i ristoranti affollati, e le code.

Posti sicuri: biblioteche, musei, chiese, bar.

Mai esitare o sei perduto.

Mai fare niente di strano: non verrebbe notato.

Mai spostare le cose: crea spazi vuoti.

Mai toccare qualcuno: PERICOLO! MACCHINARI!

Mai scappare di corsa, loro sono più veloci.

Mai guardare uno sconosciuto: potrebbe essere uno di loro.

Questi sono i segni: disprezzo, vigilanza, bluff, potere ostentato, crudeltà; loro usano la gente; sono incubi, succubi. Nessuno li nota mai veramente: così non farlo neppure tu.

Alcuni animali sono davvero vivi.


Carr guardò dietro di sé la casa chiusa con le assi di legno. Un uccello si levò dal tetto. Pareva più magro d’un piccione. Forse era una civetta.

Da qualche parte in fondo all’isolato un suono di passi risuonò sul cemento.

Carr studiò la forma del pezzo di carta. Era all’incirca quella di una busta dagli orli strappati. Alla prima occhiata l’altro lato pareva vuoto. Poi Carr distinse un timbro postale sbiadito e un indirizzo. Accese un fiammifero e, proteggendosi dal vento con lo stesso pezzo di carta, distinse un nome: Jane Gregg, e la città, Chicago. Il timbro postale risaliva a poco più di un anno prima. L’indirizzo coperto da una piega, offrì più difficoltà, ma riuscì a decifrarlo: 1924 Mayberry Street.

Il rumore dei passi si era fatto più vicino. Carr alzò lo sguardo. Al di là della recinzione stava passando una coppia! Riuscì a distinguere un colletto bianco e il luccichio di un pettine con lustrini. L’andatura era da persone anziane. Spense il fiammifero quasi con un senso di colpa, ma entrambi lo oltrepassarono senza girare la testa.

Pochi istanti dopo Carr sgusciò fuori del cancello, lo tirò a sé chiudendolo e si avviò nella stessa direzione dei due, attraversando la strada fino all’altro marciapiede prima di oltrepassarli.

Sotto l’illuminazione stradale, le foglie vicino ai lampioni parevano d’un verde artificiale. Accelerò il passo.

In quella direzione non c’era nessun mutamento repentino di ambiente, quanto un graduale deterioramento. Le case erano sempre più accostate le une alle altre, più piccole e più a ridosso della strada. Gli alberi divennero più radi, cessarono del tutto, l’erba scomparve. In fondo alle trasversali cominciarono a brillare le insegne al neon e il rombare dei bus, e gli echi delle radio e delle voci si fecero più intensi. D’un tratto le case si coagularono, raggiunsero il marciapiede d’un solo impeto, schizzarono verso l’alto in torreggianti ondate di mattoni, divennero le caserme delle classi medie, con soltanto uno stretto canale per il marciapiede fra le loro muraglie e le file di macchine parcheggiate paraurti contro paraurti.

Carr pensò con un sorriso forzato alla sua teoria ormai in frantumi di lunghi corridoi coperti da spessi tappeti, lume di candela, l’ereditiera perseguitata. Mayberry Street non era niente del genere.

Gli strani appunti che Jane aveva scribacchiato sulla busta continuavano a balenargli nella coscienza. Se mai c’era stato qualcosa che più aveva del manuale del paranoico…! Eppure…

Un’insegna stradale contorta diceva Maxwell. Al prossimo angolo, Marston. Poi, seguendo l’insensato sistema associativo che così spesso governa la scelta dei nomi delle strade, Mayberry.

Carr fissò i vecchi numeri dipinti sulla porta di vetro della prima casa di appartamenti. Erano il 1954-58.

Mentre percorreva la strada ebbe la sensazione di camminare a ritroso attraverso gli anni.

Il primo piano del 1922-24 era illuminato sul lato del 24, salvo una piccola veranda buia. Dietro a una finestra notò il bordo d’un canapé e un uomo dai capelli grigi in maniche di camicia intento a leggere un giornale. Quando fu all’interno del vestibolo dal basso soffitto, Carr si girò verso le caselle delle lettere in ottone sul lato del 24. La prima diceva: Herbert Gregg. Un istante dopo premette il pulsante, aspettò, lo premette di nuovo.

Non vi fu nessuna risposta né alcun mormorio dal citofono, nessun scatto della serratura alla porta che si apriva sulle scale. Eppure l’appartamento “Herbert Gregg” doveva essere quello in cui aveva visto seduto l’uomo dai capelli grigi.

Lì nel buio della tromba delle scale, al di là della porta interna, gli parve di aver visto muoversi qualcosa. Non riuscì a capire cosa fosse. Quando si avvicinò di più e sbirciò dentro, non vide niente.

Tornò fuori. Allungò il collo. L’uomo anziano era ancora seduto là. Era forse sordo?

Poi, mentre Carr guardava, l’uomo mise giù il giornale, si lasciò andare contro lo schienale, guardò dall’altra parte della stanza, e attraverso la finestra chiusa giunsero alle orecchie di Carr le triplette di note che aprivano il primo movimento della sonata al Chiaro di Luna.

Carr sentì il fil di ferro che cingeva il minuscolo pezzo di terra quasi del tutto privo d’erba premergli contro il polpaccio e si rese conto di aver fatto un passo indietro. Ricordò di aver ascoltato Jane che suonava il terzo movimento. Non poteva sapere se Jane avrebbe suonato il primo movimento proprio in quel modo.

Tornò nel vestibolo e premette di nuovo il pulsante.

Non vi fu nessuna esitazione nelle note del pianoforte. Sgorgavano gelide, remote, inumane, come se qualche gigantesco insetto stesse camminando con cortese precisione e infallibilità su e giù per la tastiera.

Carr sbirciò di nuovo attraverso la porta interna. Un po’ di luce filtrava da uno dei pianerottoli in alto. Provò a spingere la porta: lo scatto di chiusura doveva essersi bloccato perché si aprì immediatamente.

Avanzò rapidamente nella fitta penombra. Cinque gradini, una curva, altri cinque gradini. Poi, proprio mentre stava per arrivare al primo pianerottolo, anch’esso in ombra, sentì qualcosa di piccolo e silenzioso arrivargli da dietro sfregandosi contro le sue caviglie.

Carr si appiattì con la schiena e le mani contro la parete intonacata. Poi si rilassò, esalando un silenzioso sospiro. Era soltanto un gatto. Un gatto nero con la gola e il petto bianchi come un abito da sera.

Ed era anche un gatto molto tranquillo. S’incamminò soavemente verso la porta dell’appartamento dei Gregg.

Ma, giunto a mezzo metro di distanza, si fermò. Rimase là, immobile, per parecchi secondi, la testa alta come una statua, salvo per il suo pelo che parve infoltirsi un po’. Poi, molto lentamente, si guardò intorno.

Fissò Carr.

Al di là della porta, il pianoforte attaccò con vivacità il secondo movimento.

Carr protese esitando la mano. Si sentiva la gola secca e come paralizzata. — Micio — gracidò.

Il gatto inarcò la schiena, soffiò minacciosamente poi, torcendo il corpo, fece un balzo che lo portò a metà strada sulla successiva rampa di scale. Si rannicchiò sul gradino più alto, i verdi occhi sporgenti che lo scrutavano attraverso le sbarre della ringhiera.

Risuonò un rumore di passi. Istintivamente Carr si tirò indietro. La porta si spalancò all’improvviso, la musica esplose sul pianerottolo e una signora dai capelli grigi con un vestito stampato d’azzurro e bianco guardò fuori e chiamò: — Gigolò! Vieni qui! Gigolò!

Dietro veli di pinguedine, aveva il mento piccolo e il naso dritto di Jane. Non la statura di Jane tuttavia. Era piuttosto bassa oltre che grassa. Il suo viso aveva un’espressione sciocca.

E doveva anche essere miope poiché, malgrado stesse guardando nella direzione della scala, non vide il gatto, né si accorse della presenza di Carr. Provando il vivo disagio dell’intruso, Carr stava per farsi avanti quando si rese conto di essere così vicino che le avrebbe fatto prendere uno spavento.

— Gigolò! — chiamò di nuovo la donna. Poi parlando tra sé: — Quel gatto! — Un’occhiata alla lampadina guasta sul soffitto e infine, scuotendo distrattamente la testa: — Gigolò!

Tornò dentro. — Lascio la porte aperta, Gigolò — gridò. — Entra quando vuoi.

Carr uscì finalmente dal buio con un rauco: — Mi scusi. — Ma le veloci note iniziali del terzo movimento, suonate troppo forte, soffocarono la sua voce.

Raggiunse la porta. Gli occhi verdi in cima alla rampa lo seguirono. Carr alzò la mano per bussare, ma allo stesso tempo guardò attraverso la porta semiaperta lungo una minuscola anticamera fin dentro al soggiorno.

Era una stanza piuttosto piccola, con troppi mobili massicci in aggiunta al falso caminetto e ai troppi centrini merlettati sui tavolinetti e ai coprischienali sui poggiatesta e i braccioli delle poltrone. Poté vedere l’altra estremità del canapé rosso e i piedi infilati nelle pantofole dell’uomo anziano che c’era seduto. La donna si era ritirata su una sedia dallo schienale dritto sull’altro lato della stanza e se ne stava seduta con le mani incrociate, le labbra increspate in segno di preoccupazione.

Fra loro due c’era, un pianoforte verticale. Sopra il pianoforte una fotografia incorniciata in argento di Jane.

Ma non c’era nessuno seduto al pianoforte.

A Carr, il resto della stanza parve oscurarsi e cagliarsi, quando fissò la distesa dei tasti che s’increspava al ritmo della musica…

Poi esalò il respiro che aveva trattenuto. Naturale, doveva essere una specie di strumento elettrico.

La donna si mosse a disagio sulla seggiola. Le sue labbra continuarono ansiosamente a contrarsi e a distendersi come quelle d’un pesce dietro al cristallo di un acquario.

Alla fine la donna disse: — Non ti stai stancando troppo, cara? È tutto il giorno che lo stai facendo, sai?

Carr guardò in direzione dell’uomo, ma riuscì a vedere soltanto i piedi infilati nelle pantofole. Non vi fu risposta.

Il pianoforte smise di suonare. Carr fece un passo avanti. Ma proprio allora la donna si alzò e si avvicinò al pianoforte. Carr si aspettò che facesse qualcosa con il meccanismo, ma invece cominciò ad accarezzare l’aria ad una settantina di centimetri sopra il seggiolino del pianoforte con un movimento affettuoso verso il basso. Carr si sentì rabbrividire.

— Su, su cara — disse la donna. Il suo viso aveva quell’espressione sciocca e vacua che lui aveva già osservato sulla porta. — È stato molto bello, lo so, ma passi troppo tempo con la musica. Alla tua età una ragazza dovrebbe divertirsi, incontrare altri giovani. Ma tu rimani sempre chiusa in casa. — Si sporse in avanti, chinò la testa come se stesse guardando da dietro le spalle di qualcuno seduto al pianoforte, agitò il dito e disse con finta allegria: — Guarda che cerchi hai sotto gli occhi!

I piedi infilati nelle pantofole che sporgevano dal canapé rosso si girarono. Una voce stanca disse: — Su non preoccuparti per Jane, mamma.

La donna si raddrizzò. — Esercitarsi troppo fa male a chiunque. Mina la sua salute… e non m’importa quanto lei sia ambiziosa, o quanto tu lo sia per lei.

I piedi infilati nelle pantofole furono tirati indietro. Il canapé cigolò. L’uomo comparve infine alla vista: non era così vecchio come Carr aveva pensato, ma aveva un’aria stanca. La sua camicia, aperta sul collo, era del tipo col colletto staccabile.

Per Carr il tempo si fermò, come se l’orologio dell’universo esitasse prima del “tic” successivo. In quella pausa congelata, soltanto i suoi pensieri si mossero. Era vero allora. L’uomo basso e grasso… l’impiegato alla ricezione… Marcia nella sua camera da letto… Ieri notte con Jane: il bar, il negozio di musica, il cinematografo, i giocatori di scacchi… E adesso quella donna anziana.

Tutti, tutti automi. Macchine!

O altrimenti (il tempo riprese a scorrere) quella donna era pazza.

Sì, ecco, pazza, demente. Comportandosi nella sua demenza, come se la figlia assente si trovasse invece là davanti a lei. Credendoci fermamente.

Carr si aggrappò a questo pensiero.

— Suvvia cara — stava dicendo ancora con voce insulsa la donna — devi semplicemente riposarti.

— Mamma, non eccitarti — insisté ancora l’uomo anziano, per calmarla. — Va tutto bene.

Anche il padre è pazzo, pensò Carr. No, sta soltanto assecondandola. Finge di credere alle sue allucinazioni. Dev’essere così.

— Non va affatto bene — lo contraddisse la donna in lacrime. — Non voglio che Jane si eserciti tanto e faccia quelle lunghe passeggiate sconsiderate sempre da sola. Jane non devi… Improvvisamente, un’espressione di vivo allarme le si disegnò sul viso. — Oh Jane, non andar tene. Per favore, non andartene, Jane. — Tese la mano in direzione dell’anticamera come per trattenere qualcuno. Carr si tirò indietro. Provò un émpito di nausea. Era orribile che quella vecchia pazza assomigliasse tanto a Jane.

La donna lasciò ricadere la mano. — Se n’è andata — disse, e cominciò a singhiozzare.

— Sai che ti dico, mamma? — disse l’uomo anziano. — Andiamo a sederci al buio per un po’. Ti farà riposare. — La sollecitò verso la veranda.

Proprio allora, dietro a Carr, il gatto soffiò e si ritrasse di alcuni gradini più in alto: la porta del vestibolo in fondo alle scale venne aperta con uno schianto, vi fu un forte rumore di passi e si levarono alcune voci litigiose.

— Vi assicuro signor Wilson, state soltanto sprecando il vostro tempo. Dris ha controllato. Ce l’ha detto.

— Ha mentito, era con la ragazza da due ore quando l’abbiamo incontrato.

— Non è vero!

— Pensate proprio di no?

La prima voce era petulante, lamentosa. La seconda fredda, allegra. Erano le voci che Carr aveva udito nella tabaccheria.

Prima che avesse il tempo di analizzare i propri timori o anche soltanto di pensare in maniera coerente, Carr era sgusciato entro la porta aperta davanti a lui, aveva attraversato la piccola anticamera con tutta la rapidità possibile (ormai i genitori di Jane avevano lasciato il soggiorno) e percorse in punta di piedi il corridoio che portava sul retro dell’appartamento dove entrò nella prima stanza che trovò e rimase in piedi con la guancia premuta contro la parete, sbirciando dietro di sé nella direzione da cui era venuto.

Non riuscì a vedere la porta d’ingresso. Ma poco dopo delle ombre oscurarono l’intonaco del corridoio, informandolo che qualcuno si trovava nell’anticamera interrompendo la luce che usciva dal soggiorno.

— Insomma, qui non c’è — sentì dire dal signor Wilson.

— Ma l’abbiamo appena sentita suonare echeggiò la voce irritata della bionda.

— Siate ragionevole, signorina Hackman — obbiettò il signor Wilson. — Sapete benissimo che questo non dimostra niente.

— Ma perché mai Dris avrebbe dovuto mentire dicendo di averla controllata?

Il signor Wilson sbuffò. — Dris mentirebbe su qualunque cosa pur di avere il tempo per quelle sue avventure da strapazzo.

— Questo non è vero! — La voce della signorina Hackman echeggiò come se fosse stata colpita sul viso. — Dris potrà anche divertirsi con le ragazze quando ce la spassiamo tutti insieme, è naturale. Ma non quando è da solo!

— Pensate che non abbia le sue voglie private? Pensate di essere voi tutto lo spettacolo?

— Sì!

— Ah!

Carr si aspettava di udire il rumore dei passi o le voci dei genitori di Jane. Dovevano essersi certamente accorti della presenza di quegli intrusi. La veranda non era totalmente isolata.

Forse avevano paura quanto lui.

O forse… no, dannazione, l’idea che aveva avuto (quando il tempo si era fermato) non poteva, non doveva essere vera.

— Non siete giusto — gemette la signorina Hackman. — È probabile che la ragazza sia da qualche parte in fondo alla casa. Diamo un’occhiata.

Carr si era già chinato e aveva disfatto i nodi dei lacci delle sue scarpe. Adesso se le sfilò. La stanza in cui si trovava conteneva due letti gemelli. Era illuminata dalla luce che proveniva da un bagno dalle piastrelle bianche. Nella camera da letto c’era la stessa confusione e abbondanza di cianfrusaglie del soggiorno. Una delle ombre nel corridoio divenne più scura. Ma proprio mentre Carr stava per nascondersi nel bagno sentì il signor Wilson che esplodeva in un ordine: — Fermi! La veranda! Ascoltate la vecchia! Cosa sta dicendo?

Nel silenzio che seguì, Carr riuscì a udire un fioco farfugliare.

— Vedete — insisté ad alta voce il signor Wilson. — Sta parlando come se la ragazza fosse là.

— Ma…

— Ascoltate!

Il farfugliare cessò.

— Avete bisogno di altre prove? — chiese il signor Wilson. E un attimo dopo proseguì, con voce tranquilla: — Conosco i vostri teneri sentimenti per Dris signorina Hackman. In quanto sentimenti, per me non hanno alcun significato. Come influenze che distorcono la vostra capacità di giudizio, significano moltissimo. Dris è molto intelligente a volte, ma è indolente. Sapete che i nostri piaceri, i nostri piani, la nostra stessa esistenza dipendono da una vigilanza costante. Potremmo venir rovinati da una singola persona, come questa ragazza, o dall’ometto con gli occhiali.

— È morto — interloquì la signorina Hackman.

— È un pio desiderio. Supponete che lui o la ragazza diventino attivamente ostili. Cosa ancora peggiore, supponete che informino un altro gruppo come il nostro, ma più forte (ce ne sono, credetemi!), della nostra esistenza. Voi e io sappiamo, signorina Hackman, che quella ragazza sa di noi…

— Credo che sia rientrata nel suo vecchio solco — l’interruppe la signorina Hackman — e non dobbiamo più preoccuparci di lei. Può succedere. La maggior parte di loro vogliono tornare indietro.

Cercando d’intravedere quelli che parlavano Carr cominciò ad avvicinarsi di più alla porta senza far rumore, con le sole calze ai piedi.

— Ma la madre… — stava replicando il signor Wilson.

— Pazza. Al punto da credere che la ragazza sia là.

L’ombra del signor Wilson annuì. — Ve lo concedo… come possibilità. Forse la ragazza è rientrata nel solco. O forse no. Forse si è messa con Dris, o lui con lei, in segreto.

— Oh no! È indecente! Se ripetesse a Dris quello che avete appena detto…

— Comunque, non vorreste avere delle prove che non è così?

— Non mi abbasserei mai a coltivare un simile spregevole sospetto!

— No, eh? Non mi date l’impressione… Cos’è stato?

Carr s’irrigidì. Abbassando lo sguardo s’accorse di aver rovesciato un piccolo stupido fermaporte dalla forma di un pechinese seduto in posizione implorante sulle zampe posteriori. Fece per dirigersi verso la porta del bagno ma non aveva ancora fatto il primo passo, penosamente cauto, quando udì da quella stessa direzione, debole ma inequivocabile, il lieve rumore di qualcun altro che si muoveva. S’immobilizzò, poi si girò verso il corridoio. Sentì un ticchettio di tacchi alti, un’esclamazione gutturale, di sorpresa, da parte del signor Wilson, un morbido picchiettio affrettato, il miagolio d’un gatto inferocito, un agitarsi di ombre, uno schianto e un tonfo come se un bastone fosse stato calato con violenza su un tavolo e l’esclamazione del signor Wilson: — Dannazione!

Poi Carr intravide la signorina Hackman. Indossava un abito da sera grigio perla che le lasciava scoperte le spalle e reggeva una stola di visone sul braccio. Stava avanzando lungo il corridoio, ma lei non lo vide.

Nel medesimo istante qualcosa le si scagliò addosso da dietro. Il gatto Gigolò atterrò fra i suoi impeccabili capelli biondi lacerandole la pelle con gli artigli. La signorina Hackman urlò.

La battaglia che seguì fu troppo rapida e confusa perché Carr riuscisse a seguirla con chiarezza e si svolse quasi tutta nella piccola anticamera fuori della sua vista salvo per il gioco delle ombre. Due volte ancora il bastone o l’ombrello furono calati con violenza, il signor Wilson e la signorina Hackman urlarono e si gridarono l’uno all’altro nello stesso tempo, il gatto miagolava e soffiava in continuazione. Infine il signor Wilson urlò: — La porta! — Al che arrivò un ultimo colpo rimbombante seguito, sempre lanciato dal signor Wilson, da un: — Dannazione!

Nei pochi istanti che seguirono dal corridoio giunse soltanto il suono d’un respiro affannoso, poi la voce si levò in un gemito gravido di vendetta: — Brutto bastardo! Guardate cos’ha fatto alla mia guancia. Oh, perché devono esistere i gatti?

Poi la voce del signor Wilson, sinistramente pratica: — Non è scappato. È intrappolato sulle scale. Possiamo pigliarlo.

E la signorina Hackman: — Questo non sarebbe successo se avessimo portato la bestia!

Il signor Wilson: — La bestia! Questo pomeriggio la pensavate diversamente. Ricordate cos’è successo a Dris?

La signorina Hackman: — Quella è stata colpa sua. Non avrebbe dovuto stuzzicarla. Inoltre la bestia ha simpatia per me.

Il signor Wilson: — Sì, l’ho vista che vi guardava leccandosi i baffi. Stiamo sprecando tempo, signorina Hackman. Avrete molto più d’una guancia graffiata o d’una mano troncata per cui gemere e disperarvi se non rimetteremo subito in ordine questo pasticcio. Venite. Dobbiamo uccidere quel gatto.

Carr sentì un rumore di passi, poi la voce del signor Wilson che si faceva via via più fioca mentre saliva le scale, chiamando in tono sommesso e carezzevole: — Micio, micetto, vieni qui micio, micio, micio, micino, micino… — E qualche istante più tardi anche la signorina Hackman si unì a lui con voce talmente zuccherosa da far provare un brivido a Carr: — Vieni qui, micino.

Le voci continuarono ad allontanarsi. Carr aspettò un po’ poi attraversò la stanza in punta di piedi e sbirciò dalla porta del bagno. Il cubicolo, rivestito di piastrelle bianche, era vuoto, ma al di là di esso c’era un’altra porta aperta che conduceva in un’altra camera da letto.

Carr poté vedere che era una camera più piccola ma più accogliente. C’era un piccolo tavolo da toeletta con alcune lampade dai piccoli paralume rosa storti. Sulle pareti riconobbe riproduzioni di dipinti di Degas e Toulouse-Lautrec. Accanto al tavolo da toeletta c’era un piccolo scaffale traboccante di spartiti ammucchiati alla rinfusa e di romanzi dalle vivaci copertine consunte e strappate. C’era una boccetta d’inchiostro sul tavolo da toeletta in mezzo ai cosmetici. Si era rovesciata e ne era sgorgata fuori un larga macchia marrone, ormai asciutta.

Il cuore cominciò a battergli mentre attraversava le bianche piastrelle del bagno. Ricordava l’inchiostro marrone sul foglietto di carta che Jane aveva lasciato cadere. Ma quella camera da letto alla quale si stava avvicinando aveva qualcosa di strano. Malgrado quel vivido disordine adolescenziale, dava la sensazione di qualcosa di antico, quasi da museo: come d’una stanza storica conservata com’era stata lasciata dal suo illustre occupante. Il romanzo sul tavolo da toeletta era il best-seller dell’anno prima.

Però…

Tese la mano oltre la porta.

Qualcosa si mosse accanto a lui, inducendolo a girarsi di scatto.

Ebbe soltanto un breve istante per guardare, prima che il colpo cadesse. Ma in quel breve istante prima che la cappa di dolore gli venisse abbassata con violenza sopra gli occhi e le orecchie, oscurando ogni cosa, riconobbe il suo assalitore.

I tendini del collo risaltavano, le guance erano tirate indietro rivelando i grandi denti anteriori come quelli d’un topo. Invero l’aspetto nel suo insieme, gli occhi acquosi dallo sguardo stralunato, la fronte bassa, i capelli arruffati, la figura tesa, le braccia lunghe e sottili, era quella d’un topo in trappola… era l’ometto scuro con gli occhiali.

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