12

Carr alzò lo sguardo sui giganteschi ingrandimenti fotografici di donne in reggiseno e mutandine offuscati da una visibilissima grana e stampati in vivace arancione. Un’insegna berciava: — Ragazze e ancora Ragazze!

Intorno a lui, solitarie e desolate figure di uomini bighellonavano sui marciapiedi senza una meta.

Si rese conto di trovarsi nella South State Street e di aver cercato Jane Gregg attraverso gli incubi di Chicago e della propria mente sin dall’istante in cui se l’era squagliata alla chetichella dall’appartamento di Marcia, alcune ore prima.

Per lui, adesso, Jane era la sola persona al mondo. La sola persona che gli avrebbe risposto quando lui le avesse parlato. La sola persona dietro alla cui fronte vi fosse una luce interiore.

Salvo per pochi altri ai quali era meglio non pensare.

Era stato, uno dopo l’altro, in tutti i luoghi che lui e Jane avevano visitato, ma senza risultato. Adesso era venuto in un posto che le aveva sentito citare.

Intorno a lui, la luce delle insegne feriva gli occhi, la musica da ballo riempiva l’aria di miagolii, gli automi vagavano sperduti attraverso sudice ombre. Chicago, città di morte, metropoli senza cervello, popolata da milioni di macchine di carne e ossa che camminavano e lavoravano e articolavano parole come tanti dischi… e si arrugginivano e finivano nel mucchio dei rottami.

Città morta in un universo morto. Città morta attraverso la quale lui era condannato a cercare per sempre, futilmente.

Era contento che l’incubo della sua mente l’avesse aiutato a escluderla. Per un fugace momento ebbe una visione del volto di Marcia come l’aveva vista l’ultima volta. Si aspettava che quanto si trovava dietro la fronte della sua visione colasse fuori dagli occhi sotto forma di nere lacrime.

Passò davanti a un negozio che pareva una fessura da quanto era angusto e la cui insegna diceva TATUAGGI, seguito da una vetrina piena di cianfrusaglie. Davanti a essa oziavano due figure d’uomo avvolte in impermeabili scuri. Per qualche motivo, spiccavano fra gli altri desolati automi.

Mentre attraversava la strada, un tassi si fermò accanto a lui di fronte a un emporio dalla vetrina sciatta. La figura grassa del conducente si spremette fuori e si tuffò nell’emporio. Quando Carr passò davanti alla vetrina, lo vide intento a fare un numero al telefono pubblico.

Il bordo d’un colletto alquanto sudicio e strapazzato risaltava tra le spalle voluminose rivestite da un cappotto unto e un collo rosso, straripante. Sentì il motore dell’auto che borbottava sommesso. Davanti a lui le luci si diradarono, i marciapiedi divennero più vuoti man mano che la South State si avvicinava allo sfondo nero dei cantieri della ferrovia. Superò una figura di donna. Il volto era all’ombra d’un tendone, ma scorse i capelli che le arrivavano fino alle spalle, l’abito attillato d’un nero lucido che le aderiva strettamente ai fianchi e alle cosce, e le lunghe gambe nude.

Passò davanti a un’insegna che diceva: FOTO-TESSERA A TUTTE LE ORE. Passò davanti a un locale della vetrina oscurata con un’insegna che proclamava: SPETTACOLO CONTINUATO.

Pensò: cercherò Jane per sempre e non la troverò mai. Cercherò Jane…

Si fermò.

…cercherò Jane…

Si voltò.

No, non può essere, pensò. I capelli di quella donna erano biondi e i fianchi ondeggiavano in maniera troppo appariscente in quel vestito nero attillato.

Ma a prescindere da quei due particolari…

I capelli erano d’un biondo irregolare. Potevano essere… anzi, lo erano certamente… ossigenati.

Quel modo di camminare poteva essere esagerato a bella posta.

Cominciava a credere che fosse davvero Jane.

Proprio allora il suo sguardo superò per un attimo i capelli biondi che le ricadevano sulle spalle.

La lunga decappottabile nera si fermò accanto al marciapiede vicino al tassi, parcheggiando sul lato sbagliato della strada. Ne scese l’uomo senza una mano.

Sul lato opposto della strada, alla stessa altezza della ragazza in nero, c’era la signorina Hackman. Indossava un abito sportivo e inalberava un cappello entrambi verdi. Carr lanciò rapide occhiate a destra e a sinistra, poi cominciò ad attraversare la strada.

Il signor Wilson sbucò da una porta buia giusto a metà strada fra Carr e la ragazza in nero.

Carr provò una violenta stretta al cuore. Questo era il colpo finale, pensò. La fine della lunga, spaventevole fuga di Jane. L’uccisione.

A meno che…

I tre inseguitori le si avvicinarono lentamente, sicuri di sé. La ragazza in nero non si girò né si voltò, ma parve rallentare un po’.

A meno che non accadesse qualcosa a convincerli che lui e Jane erano automi, come tutti gli altri. A meno che lui e Jane non fossero riusciti a organizzare una messa in scena che li ingannasse.

Poteva esser fatto. Avevano sempre avuto dei dubbi su Jane.

Ma non poteva farlo da sola. Non poteva recitare da sola. Ma con lui…

Le tre figure continuarono ad avvicinarsi. La signorina Hackman sorrideva…

Carr s’inumidì le labbra e fischiò due volte, con un lungo svolazzo di apprezzamento alla fine di ciascun fischio.

La ragazza in nero si fermò.

Carr si affrettò verso di lei.

La ragazza in nero si girò. Carr vide il volto bianco di Jane, incorniciato da quei ridicoli capelli biondi.

— Ciao, piccola — la chiamò, salutandola con un cenno delle dita.

— Ciao — gli rispose lei. La sua bocca, coperta da uno spesso strato di rossetto, sorrise. Continuò leggermente ad ancheggiare mentre l’aspettava.

Carr la raggiunse, superando il signor Wilson… un attimo prima che lo facessero gli altri. Non li guardò, ma li sentì avvicinarsi alle loro spalle, formando un tenebroso semicerchio.

— Niente da fare, stasera? — chiese a Jane.

Il suo mento tracciò un piccolo cerchio, che non era proprio un assenso. Lei lo studiò dall’alto in basso. — Forse.

— Stanno fingendo! — Il bisbiglio della signorina Hackman era quasi inaudibile. Parve staccarsi dalle sue labbra e planare verso il suo orecchio come un insetto.

— Non lo credo — udì sussurrare in risposta al signor Wilson. — A me pare un adescamento come mille altri.

Una sensazione di gelo fece venire la pelle d’oca a Carr.

— Che ne direste se lo facessimo insieme? — chiese a Jane, fingendo di non aver udito nessun bisbiglio, di non essersi accorto di nessuna presenza alle spalle, costringendosi a continuare la parte che aveva scelto.

Jane parve aver completato un calcolo. — Perché no — disse alzando lo sguardo su di lui con un improvviso sorriso privo di ambiguità.

— Adescamento! — Il bisbiglio della signorina Hackman suonò quasi impercettibile come prima e altrettanto sprezzante. — Non ho mai visto niente di più dilettantesco. È come una recita scolastica.

Carr fece scivolare il braccio intorno alla vita di Jane, le prese la mano. S’incamminò con lei lungo la strada, verso le luci più intense. Sentì il rumore dei passi dei tre che li seguivano dappresso.

— Ma è ovvio che si tratta della ragazza! — Il bisbiglio della signorina Hackman era un po’ più forte. — Si è soltanto ossigenata i capelli e sta cercando di farsi passare per una puttana.

Come se temesse che Carr potesse voltarsi, la mano di Jane si strinse spasmodicamente sulla sua.

— Non potete esserne sicura — bisbigliò il signor Wilson. — Tanta gente sembra uguale. Siamo stati ingannati altre volte. Cosa ne dite, Dris?

— Che lui sia l’uomo non ci sono dubbi — bisbigliò in risposta la voce dell’uomo senza una mano. — Ma l’ho seguito per un po’ questa sera, e penso che sia a posto.

— Ma se è lo stesso uomo… — obiettò la signorina Hackman. — Ricordatevi che l’ho visto, io in persona, insieme alla ragazza all’agenzia di collocamento.

— Sì — rispose il signor Wilson — e abbiamo deciso che in quella circostanza eravamo stati tratti in inganno, e che lui non era affatto un complice. Il che dovrebbe indicare che questa non è la ragazza.

Carr percepiva i bisbigli ricadere tutt’intorno a loro come una ragnatela. Rivolto a Jane disse ad alta voce: — Hai un aspetto splendido, piccola.

— Non siete tanto male neanche voi — rispose lei.

Carr spostò il braccio intorno alla sua vita, sfiorandole i fianchi nel farlo. Ma i suoi occhi stavano esplorando la strada davanti a loro. La scena non era cambiata. I meccanismi dell’effimero funzionavano a pieno regime. Ai due uomini con l’impermeabile scuro, sul lato opposto della strada se n’erano aggiunti altri due. Il tassi davanti all’emporio borbottava ancora. Sui bordi del suo campo di visione, su entrambi i lati, c’erano porzioni confuse e sussultanti del panama del signor Wilson e del suo pancione a strisce, della camicetta di gabardine verde della signorina Hackman e delle sue gambe avvolte nelle calze di nylon.

— Siete d’accordo con me sulla ragazza, Dris? — chiese il signor Wilson.

— Penso di sì. — Ma questa volta nella voce dell’uomo senza una mano mancava la certezza. — Ma non posso esserne sicuro, siccome… insomma, non sono del tutto sicuro dell’uomo. È anche possibile che mi abbia ingannato.

La signorina Hackman prese la palla al balzo. — Esattamente. E credo che stiano ancora fingendo. Lasciate che li metta alla prova.

Attraverso l’abito succinto, Carr sentì Jane tremare.

— Mettételo via! — intimò, brusco, il signor Wilson.

— No — ribatté la signorina Hackman.

Erano giunti quasi all’angolo. Stavano oltrepassando la decappottabile nera. La figura di un uomo dagli occhi velati, con indosso una camicia azzurra sbiadita, salì sul marciapiede barcollando e cominciò ad attraversarlo con passo incerto. Carr tirò via Jane dalla sua strada.

— Disgustoso — disse Jane.

— L’avrei preso a botte se ti avesse urtata.

— Oh, ma è ubriaco — replicò Jane.

— L’avrei preso a botte lo stesso — ribadì Carr, ma non la stava più guardando. Il conducente del tassi stava uscendo in tutta fretta dall’emporio.

— Vieni, piccola — disse Carr d’un tratto, facendo un mezzo balzo in avanti e trascinando Jane con sé. — È qui che cominciamo a viaggiare in fretta.

— Oh, magnifico — sussurrò Jane. I suoi occhi si spalancarono quando fissò il tassi. Si affrettarono verso di esso.

Dietro l’angolo, gli uomini dall’impermeabile scuro lasciarono la vetrina del banco dei pegni e puntarono verso di loro.

Il breve bisbiglio della signorina Hackman era quasi un gemito: — Stanno scappando. Dovete lasciare che li metta alla prova.

Il conducente del tassi abbassò la testa per entrare nella macchina. Nel medesimo istante la mano di Carr si allungò verso la portiera.

— Potrebbe esser meglio… — giunse la voce di Dris.

Con la freddezza del ghiaccio, Carr tenne aperta la portiera per Jane. Con la coda dell’occhio vide la mano della signorina Hackman. Stringeva fra le dita uno di quegli spilloni simili a stiletti che le adornavano il cappello.

— Be’… — cominciò a dire il signor Wilson. Poi, con un tono di voce del tutto diverso, quasi bisbigliando, ma questa volta con viva agitazione e sorpresa: — No! Guardate! Presto, dobbiamo andarcene da qui!

Carr salì dietro a Jane, sbatté la portiera, si lasciò cadere sul sedile. Il tassi partì con un sobbalzo, ma dietro di loro udì un motore più potente mettersi in moto con un rombo. Azzardò una rapida occhiata alle sue spalle.

La decappottabile nera stava accelerando lungo la South State, allontanandosi da loro.

Sul marciapiede che avevano appena lasciato c’era un crocchio di uomini vestiti con impermeabili scuri.


Carr aprì la porta che dava sulla sua stanza, corse alla finestra, tirò giù le tapparelle, tornò alla porta e guardò lungo il corridoio buio, ascoltò per qualche istante e alla fine chiuse a chiave la porta e tirò il catenaccio.

Soltanto allora accese la luce.

— Credi davvero che qui saremo al sicuro? — gli chiese Jane. Incorniciata da quei capelli dilettantescamente ossigenati il suo volto appariva minuto e sbarazzino.

— Sempre più al sicuro che altrove — rispose lui. — Non credo che conoscano ancora il mio indirizzo. — Corrugò la fronte. — Cosa credi che li abbia tanto spaventati alla fine?

— Non mi sono accorta che fossero spaventati per qualcosa — rispose Jane.

— C’erano quegli uomini in impermeabile — lui le spiegò mentre lo sguardo di Jane andava istintivamente alla porta chiusa con il catenaccio.

— Preparo qualcosa da bere — disse Carr.

In bagno, mentre aggiungeva acqua al Whisky, ricordò la testa e il collo taurini, immobili, della creatura che aveva guidato il tassi quand’erano sgusciati fuori ad un semaforo rosso all’incrocio fra La Salle e Grand. Ogni cosa intorno a lui stava assumendo un aspetto distorto e orribilmente compatto. Gli pareva impossibile, in un universo di meccanismi recalcitranti, di essere in grado di svitare senza difficoltà il tappo d’una bottiglia di whisky, di aprire e chiudere un rubinetto, perfino di riuscire a spingere da parte quell’aria così densa mentre, con lo squallido pavimento bianco che pareva oscillargli sotto i piedi, lottava in preda alle vertigini per uscire dal bagno e rientrare in camera da letto.

Jane si precipitò verso di lui.

— È tutto impossibile — dichiarò lui rantolando. — Siamo pazzi tutti e due.

Lei gli afferrò con una energica stretta il braccio sopra il gomito. — L’ho detto molte volte a Fred — replico impietosa. — E a me stessa.

Carr strizzò le palpebre. Il pavimento si stabilizzò sotto di lui: Jane gli prese uno dei bicchieri colmi. Lui ingurgitò una sorsata dall’altro.

— Una folle illusione potrebbe venir condivisa… — cominciò.

Lei si limitò a guardarlo.

— Ma se non siamo pazzi — continuò lui tormentandosi — cos’è che ha creato il mondo in questo modo? Sono state forse le macchine a contagiare gli uomini trasformandoli in cose simili a loro? Oppure il credo dell’uomo in un universo completamente materialistico l’ha ridotto così? Oppure… — esitò — il mondo è sempre stato così: un insignificante giocattolo meccanico?

Jane scrollò le spalle.

— Ma perché dovremmo essere noi quelli che si sono svegliati? — proseguì Carr con crescente agitazione. — Perché, fra tanti miliardi, dovremmo essere stati noi a sviluppare una mente e a diventare consapevoli?

— Non lo so — lei rispose.

— Se soltanto sapessimo com’è accaduto a noi, potremmo avere qualche idea… — Carr la guardò. — Jane — disse — a te com’è successo? Qual è stata la prima volta che l’hai scoperto?

— È una lunga storia…

— Raccontamela.

— …e non sono sicura che spieghi qualcosa.

Lei lo guardò pensierosa. — D’accordo — annuì con voce sommessa. Si sedette sull’orlo del letto, con una sorta di gesto perentorio, e sorseggiò il suo bicchiere. — Devi pensare alla mia infanzia — cominciò — come a una educazione vuota, iperprotettiva, da classe media, in un appartamento in città. Devi pensarmi infelice, spaventata e sola, con poche amiche che giudicavo sciocche e ignoranti e allo stesso tempo più in gamba di me.

“E poi i miei genitori, creature fin troppo consuete alle quali ero molto attaccata, ma con i quali non avevo nessun vero contatto. Parevano vivere in maniera infelice una routine quotidiana sterile come la morte. Si eccitavano leggendo articoli di giornali che non avevano nulla a che fare con loro. Eppure erano ciechi davanti a migliaia di cose strane e sorprendenti che accadevano proprio davanti ai loro occhi.

“Il mondo intero era un mistero per me, e piuttosto brutto per giunta. Non sapevo cosa mai la gente cercasse, perché facevano le cose che facevano, a quali regole segrete obbedissero. Non sapevo che non c’erano né regole né finalità, soltanto movimenti meccanici. Avevo l’abitudine di fare lunghe passeggiate da sola, cercando di capire, lungo il fiume o nel parco.” Fece una pausa.

— È stato nel parco che ho incontrato l’ometto dalla pelle scura con gli occhiali.

Carr sollevò gli occhi a guardarla. — E adesso che cosa gli è successo? — chiese nervosamente.

Jane scrollò le spalle. — Non ne ho la più pallida idea. L’ultima volta che l’ho visto è quando sei venuto in biblioteca.

— Mi dicevi… l’hai incontrato per la prima volta nel parco.

— Non l’ho esattamente incontrato — lei rispose. — Avevo notato che mi osservava. Di solito da una certa distanza, da un altro sentiero del parco, o dall’altra parte del laghetto, o in mezzo a una folla. Si metteva a osservarmi, mi seguiva per un po’, e poi scompariva alla mia vista e rispuntava un po’ più in là. — Esitò. — Non avevo nessuna idea, naturalmente, che fosse già fuori della macchina, voglio dire dalla Vita, e attratto da me perché a volte potevo vederlo e perciò dovevo essere diventata semiconsapevole. Ma era sospettoso e impaurito al punto da voler essere ben sicuro di me.

“A volte pensavo che lui fosse qualcosa che io avevo creato nella mia mente. Aveva uno stranissimo modo di eclissarsi in mezzo ai cespugli, di sgusciare dietro la gente, di svanire anche quando in apparenza non c’era nessun posto dove andare. Mi ricordava il mio gatto Gigolò quando veniva preso da uno dei suoi umori di cacciatore… quando un attimo prima era disteso sul cuscino intento a guardarmi e l’istante successivo mi sbirciava dal corridoio, e nella mia mente non c’era nessun ricordo di come si fosse spostato da un punto all’altro. Sì, era così. Avevo la sensazione di poter accendere e spegnere l’ometto dalla pelle scura, se riesci a capirmi. Adesso so che ciò era dovuto al fatto che talvolta la mia consapevolezza era completamente desta (quando lo vedevo) e poi di nuovo quasi del tutto riaddormentata. Lo vedevo e avevo l’intenzione di ricordarmi di lui, ma per qualche ragione finivo sempre col non pensare più a lui, fino a quando non rispuntava, il giorno dopo.

“Quella era l’inerzia della macchina che si faceva valere. Siccome la macchina, la grande macchina chiamata Vita, vuole che tu viva sempre secondo un modello prestabilito, anche se sviluppi una mente, come fossi in una specie di trance, se vogliamo. È per questo che è così facile dimenticare ciò che tu vivi al di fuori del modello, e una semplice droga come il cloralio, che ti ho somministrato con le polverine, ti ha fatto dimenticare tutto. La macchina voleva che io dimenticassi l’ometto dalla pelle scura.”

— Hai mai cercato di parlargli? — chiese Carr. Adesso si sentiva più calmo. Il suono della voce di Jane lo placava.

— Non ti ho detto quant’ero timida. Ho finto di non accorgermi di lui. Inoltre, sapevo che agli estranei che seguono le ragazze non bisogna mai dar la possibilità di trovarsi da soli con loro. Anche se non credo di aver mai avuto paura di lui in quel senso. Aveva un aspetto così… piccolo, sì, e rispettabile. In effetti, suppongo di aver cominciato a sentirmi romantica nei suoi confronti. — Buttò giù un’altra sorsata dal suo bicchiere.

Carr finì il suo. — E poi?

— Oh, continuava a venirmi sempre più vicino, e poi un giorno si è accostato e mi ha parlato.

“Vi dispiace se faccio due passi con voi?” mi ha chiesto. Ho sentito un nodo alla gola ma sono riuscita a dire. “No”. Ed è tutto. Si è limitato a camminare al mio fianco. C’è voluto molto prima che mi toccasse anche soltanto il braccio. Ma questo non aveva importanza. Ciò che mi disse, invece, l’aveva. Non crederai mai quanta eccitazione mi abbia fatto provare. Mi parlò con voce assai calma, quasi esitante, ma tutto quello che mi disse andò dritto fino al cuore. Conosceva anche i miei pensieri più intimi, quelli che non avevo mai confidato a nessuno: quant’era misteriosa e sconcertante la vita, quanto ci si sentiva soli, come talvolta le altre persone sembrassero animali o macchine, com’erano morti e minacciosi i loro occhi. E conosceva anche le piccole cose che albergavano nella mia mente. Come i tasti del pianoforte sembrassero denti pronti a mordere, per esempio; come le parole comuni finissero per essere soltanto bizzarri ghirigori; come il russare, di notte, assomigliasse a lontani treni in corsa, e i treni in corsa al russare. Adesso so, naturalmente, che era piuttosto facile per lui indovinare queste cose in parte perché sapeva che eravamo entrambi fuori della macchina della vita, anche se io non lo sapevo.

“Quel primo giorno, dopo aver camminato insieme per un po’, vidi due mie amiche davanti a noi. Lui disse: ‘Adesso vi lascio’. E io provai quella strana sensazione ammiccante… e lui se ne andò. Ne fui contenta, perché non avrei saputo come presentarlo.

“Quella prima passeggiata stabilì un’abitudine. C’incontravamo e ci congedavamo sempre allo stesso modo. E avevo ancora quella stranissima difficoltà a ricordarmi di lui, e naturalmente non avevo mai parlato di lui a nessun altro. Lontana dal parco mi dicevo: ‘Te lo sei sognata, Jane’. E quasi ci credevo. Ma il pomeriggio successivo andavo al parco e lui compariva e io camminavo con lui e provavo la sensazione di un amico che mi leggesse nella mente. Continuò così per un bel po’.”

Carr si alzò in piedi e prese il suo bicchiere. Notò che una delle tapparelle alla finestra aveva all’incirca un paio di centimetri di buio sotto essa: si avvicinò e la tirò giù fino al davanzale.

— E le cose cambiarono? — chiese, mentre preparava altri due drink.

— In un certo senso.

— Non cominciò a far l’amore con te?

— No. Forse avrebbe dovuto. Forse le cose sarebbero andate meglio se l’avesse fatto. Ma non poteva. Perché, vedi, stava cercando di fare una cosa molto difficile e delicata. Voleva che io esistessi allo stesso tempo dentro e fuori della macchina della vita senza che io lo sapessi. Lontana dal parco sarei stata soltanto parte della macchina, avrei fatto i movimenti richiesti in preda a una sorta di trance. Poi al parco, insieme a lui, spezzavo lo schema, ma senza alterare quell’altra porzione della mia vita. Poiché avevo avuto l’abitudine di vagare da sola nel parco per la maggior parte del tempo… ma se vedeva che stavo per incontrare qualcun altro che mi avrebbe riportato dentro lo schema, lui si dileguava.

“Mi voleva come amica perché era solo, ma non mi voleva sola con lui nella sua pericolosa esistenza dove avrebbe dovuto essere responsabile per me.

“Tutto ciò significava che doveva fare molta attenzione ai nostri incontri, e anch’io dovevo fare ugualmente attenzione. Mi fece capire, anche se non disse precisamente così, che le nostre passeggiate assieme erano governate da regole magiche e che tutto si sarebbe guastato se fossero state violate anche una sola volta. Per esempio, non dovevo mai affrettarmi per incontrarlo. Doveva sempre succedere come se fosse stato per caso. Non dovevamo mai cercare di andare insieme in qualche posto speciale. Dovevamo parlare con la stessa familiarità di amici molto intimi, ma senza mai chiedere all’uno il nome dell’altro. E lui doveva sempre lasciarmi senza preavviso e senza prendere accordi su dove o come reincontrarci. Come se ogni cosa fosse accaduta per un tranquillo e fatalistico incantesimo.

“In effetti, stava cercando di planare, per così dire, accanto a una parte del mio schema di vita, intruso sconosciuto, mentre io dovevo essere la fanciulla dei suoi sogni, o il suo sogno d’amore, potresti dire, che lui aveva destato, pur lasciandomi irretita nello schema della mia vecchia vita, senza che fosse cambiata veramente.

“Ma non riuscì a farlo. Non per molto. Come risultò poi, le cose dovevano cambiare. Per quanto si ostinasse a tentare, non poteva nascondermi che c’era qualcosa di orribilmente importante dietro a ciò che pareva svolgersi in maniera così futile. Percepivo dentro di lui una tensione muta e terribile. Perfino quando la sua voce era più gentile e impersonale, potevo sentire quel fiume d’energia imprigionato, frustrato, vanificato. Alla fine cominciò a filtrare a poco a poco dentro di me. Camminavamo lentamente, e senza nessun motivo il mio cuore accelerava i battiti. Riuscivo a stento a respirare, le orecchie mi fischiavano, e un lieve spasimo di tensione correva su e giù dentro di me. E per tutto il tempo lui continuava a parlare, sempre con estrema calma. Era orribile.

“Forse, se avesse fatto all’amore con me… Anche se questo, naturalmente, avrebbe guastato tutti i suoi piani e, da quel punto di vista, mi avrebbe esposto a pericoli che lui non sentiva di avere il diritto di farmi condividere. Però, forse, se mi avesse parlato con franchezza, se mi avesse detto esattamente come stavano le cose, se mi avesse chiesto di condividere la sua esistenza infelice e ossessionata, sarebbe stato meglio.

“Ma non lo fece. E poi le cose cominciarono ad andare molto peggio.”

Carr le diede un altro drink. — Cosa vuoi dire?

Jane alzò lo sguardo su di lui. Adesso che si era immedesimata nella sua storia, pareva più giovane che mai, e quei capelli così irregolarmente biondi, lo spesso strato di rossetto, e l’abitino nero attillato, apparivano ridicoli, come se si fosse acconciata in quel modo per uno scherzo fra adolescenti.

— Eravamo incastrati, ecco qual era la situazione, e cominciavamo a marcire. Immagino che questo sia il significato della decadenza: non nasce mai dall’azione, ma dall’evitarla. Comunque, tutte quelle cose che mi diceva, che a tutta prima mi avevano deliziata poiché si accordavano con i miei pensieri, adesso cominciavano a terrorizzarmi. Poiché, vedi, io avevo creduto che quei bizzarri pensieri fossero soltanto fisime della mia mente, e che condividendoli con qualcuno me ne sarei sbarazzata. Continuavo ad aspettare che lui mi dicesse quant’erano stupidi e privi di fondamento, ma non lo fece mai. Invece, incominciai ad accorgermi, dal modo in cui parlava, che i miei bizzarri pensieri non erano affatto illusioni, ma la verità definitiva sul mondo vero. Niente aveva significato… un qualche significato. Il russare era in effetti una specie di motore sbuffante e la parola stampata non aveva più significato reale di quanto ne avessero le tracce lasciate dal vento sulla sabbia. L’altra gente non era viva, realmente viva, come lo eri tu, salvo forse poche anime gemelle simili a fantasmi. Si era del tutto soli.

“Capisci: avevo scoperto questo grande segreto malgrado tutti i suoi tentativi di nascondermelo. Anche se non gli rivelai che lo sapevo.

“Adesso quelle passeggiate nel parco avevano cominciato ad avere effetto sul resto della mia vita. Non tanto da cambiarne lo schema, naturalmente, ma sui suoi umori. Per tutto il giorno sprofondavo nella tristezza. Mio padre e mia madre mi parevano a un milione di miglia di distanza, le mie lezioni all’accademia la più insopportabile stupidità del mondo. Non riuscivo più a leggere i libri malgrado non ne avessi mai studiato le parole con tanta cura come in quei giorni. Non capivo nessuna delle cose che dicevo, la sola apparizione d’un edificio o d’una strada potevano spaventarmi, e talvolta, nel bel mezzo dei miei esercizi al pianoforte, toglievo di scatto le mani dalla tastiera come se i tasti mi avessero morso. Anche se, come ho detto, questo non cambiò lo schema della mia vita, e naturalmente nessuno se ne accorse (e come avrebbero potuto farlo le parti di un mondo-macchina?) salvo per Gigolò, il mio gatto.”

Fissò stranamente Carr. — Sì, alcuni animali sono davvero vivi, sai, proprio come certa gente. Forse sono quelle persone a contagiarli. Ti guardano quando sei fuori dallo schema… e allora lo sai.

— Lo so — annuì Carr. — Una volta Gigolò mi ha guardato.

— E non soltanto i gatti — aggiunse Jane.

— Cosa vuoi dire? — le domandò Carr a disagio. Si era ricordato di quando la signorina Hackman aveva ripetutamente accennato alla “bestia”.

— Niente di particolare — rispose Jane. — Gigolò lo sapeva. Talvolta si mostrava spaventato e mi soffiava contro, altre volte invece veniva da me ronfando e si faceva accarezzare nella maniera più affettuosa che si possa immaginare. A volte restava a guardare le finestre e le porte per ore e ore, come se fosse di guardia. Ero smarrita, senza un’anima che cercasse di salvarmi, neppure il mio uomo del parco. Lui, in un certo senso, meno di tutti, poiché penso che si rendesse conto del mutamento che stava avvenendo dentro di me, ma voleva a tutti costi salvare il suo gradevole sogno.

Accettò un altro drink e si rilassò contro lo schienale. — E poi, un giorno di autunno, con le nuvole basse e le foglie cadute che scricchiolavano sotto i nostri piedi, e noi avevamo camminato insieme più a lungo di quanto avessimo fatto prima… in effetti, per una volta tanto mi aveva accompagnato per un po’ fuori del parco, ed io ne ero contenta… insomma, proprio allora capitò che guardassi il lato opposto della strada, e qui mi accorsi d’un giovanotto tutto azzimato che ci fissava. Anche questo mi fece contenta, poiché era la prima volta che qualcuno, per quanto ricordavo, dava l’impressione di guardarci quand’eravamo insieme, e adesso speravo sempre che qualcosa ci piombasse addosso e ci disincagliasse. Richiamai l’attenzione del mio amico sul giovanotto. Si voltò e lo sbirciò attraverso le sue grosse lenti.

“Un attimo dopo mi aveva afferrato saldamente sopra il gomito, spingendomi in avanti quasi a passo di corsa. Non parlò fino a quando non avemmo svoltato l’angolo. Poi disse, con una voce che non gli avevo mai sentito prima: ‘Ci hanno visti. Tornatevene a casa’.

“Accennai a fargli delle domande, ma lui si limitò ad aggiungere: ‘Non parlate. Proseguite in fretta. Non voltatevi a guardare’. Me lo disse con tale veemenza che mi spaventai e gli obbedii.

“Nelle ore che seguirono, la mia paura crebbe. Mi immaginavo ‘loro’ in mille modi orribili… Se soltanto mi avesse detto qualcosa di quella singola parola! Sentivo vagamente di aver violato un’orrenda barriera e provavo un tremendo senso di colpa. Andai a dormire pregando di non rivedere mai più l’ometto dalla pelle scura, e che mi venisse concesso, d’ora in poi, di vivere la mia vecchia, stupida vita come avevo avuto intenzione di viverla.

“Era da un po’ passata mezzanotte quando mi svegliai col cuore che mi balzava in petto, e Gigolò era là, in piedi sul letto, intento a soffiare in direzione della finestra. Accesi di scatto la lampada e alla sua luce vidi, premuto contro il riquadro scuro, il volto sorridente del giovane che quel pomeriggio si era trovato sul lato opposto della strada. Tu lo conosci, Carr. Quello che chiamano Dris. Driscoll Aimes. Allora aveva due mani, e se ne servì per aprire la finestra.”

Carr si sporse istintivamente in avanti.

— Balzai in piedi — proseguì Jane — e corsi nella camera dei miei genitori. Li chiamai perché si svegliassero, li scossi. E allora provai il trauma più orribile della mia vita. Non volevano svegliarsi, non importa quello che facevo. Salvo che per il fatto che respiravano, avrebbero potuto essere morti. Ricordo di aver picchiato il petto di mio padre e di avergli conficcato le unghie nelle braccia.

“Fui certa, allora, di ciò che avevo semiintuito da qualche tempo: la maggior parte della gente non era realmente viva, ma erano soltanto macchine più piccole in una macchina più grande. Non potevano capirti. Non potevano aiutarti. Se lo schema aveva previsto che dormissero, dormivano, e non potevi farci niente.

“Talvolta penso che perfino senza il ringhio di avvertimento di Gigolò e il rumore dei passi che si affrettavano attraverso il bagno mi sarei precipitata di corsa fuori dall’appartamento piuttosto che rimanere un momento di più con quei due cadaveri viventi che mi avevano messo al mondo.”

La sua voce si stava facendo via via più acuta.

— Sfrecciai giù per le scale, fuori della porta d’ingresso, finendo tra le braccia di altre due persone che mi stavano aspettando laggiù. Tu li conosci, Carr: la signorina Hackman e il signor Wilson. Ma c’era qualcosa con cui non avevano fatto i conti. Gigolò era corso giù per le scale con me e con un furibondo miagolio schizzò fra le mie gambe balzando loro addosso, dando quasi l’impressione di volare nel buio! Questo deve averli scossi parecchio, poiché balzarono indietro e io riuscii a sfrecciare tra loro e a fuggir via lungo la strada. Feci parecchi isolati di corsa, svoltando angoli e tagliando attraverso i prati prima che osassi fermarmi. In effetti mi fermai soltanto perché non ce la facevo più a correre. Ma bastò. Li avevo seminati.

“Ma cosa dovevo fare? Ero là, in mezzo alla strada, con soltanto la camicia da notte addosso. Faceva freddo. Le finestre occhieggiavano intorno a me. I lampioni sussurravano. Le ombre sembravano accarezzarmi vogliose. E c’era sempre qualcuno che attraversava la strada girando un angolo a due isolati di distanza… Pensai alla mia amica più intima, una ragazza che comunque era più vicina a me delle altre, che si chiamava Margaret e studiava all’accademia. Qualche volta ero uscita con lei e con il suo ragazzo. Margaret mi avrebbe accolto, mi dissi, e certamente Margaret sarebbe stata viva.

“Viveva in un edificio bifamiliare a pochi isolati soltanto dal nostro appartamento. Tenendomi lontana quanto più potevo dalla luce dei lampioni, mi affrettai a raggiungere il suo indirizzo.

“La finestra della sua camera da letto era aperta. Gettai alcuni ciottoli contro di essa, ma non successe nulla. Non mi piaceva suonare il campanello nel cuore della notte. Alla fine, arrampicandomi sulla veranda, riuscii a passare da questa alla sua finestra e a calarmi dentro la stanza. Margaret era addormentata.

“Fino a quel momento avevo cercato di convincermi che mio padre e mia madre erano stati drogati, come parte di un piano per rapirmi. Ma qui la speranza finì giacché, vedi, non mi riuscì di svegliare Margaret più di quanto non mi fosse riuscito con i miei genitori.

“Prelevai alcuni suoi indumenti e con essi mi rivestii, tornai ad arrampicarmi fuori della finestra e girai per le strade fino all’alba.

“Quando spuntò il sole feci ritorno a casa, ma usando ogni cautela, guardandomi intorno, e questa fu una fortuna poiché, seduto in un’auto parcheggiata a non più di mezzo isolato dalla nostra porta, c’era il signor Wilson. Andai allora all’accademia, e qui vidi la signorina Hackman in cima alla scala. Andai al parco e lì, dove il mio ometto dalla pelle scura era solito aspettarmi, c’era Dris.

“È tutto. Da allora sono vissuta come sai.”

Jane si afflosciò sul letto, respirando affannosamente e continuando ad aggrovigliare le dita.

— Ma io non lo so — obbiettò Carr.

— Sai abbastanza. Ho rubato per mangiare. Ho rubato altre cose. Vuoi che ti descriva i miei taccheggi nei negozi? Taccheggi per necessità. Taccheggi per divertimento. E taccheggi giusto per evitare d’impazzire. Ho rubato anche nei posti dove vado a dormire. Ricordi quella casa con le finestre sbarrate dalle assi dove ti ho condotto la prima notte? A volte ho dormito là. Mi sono fatta una specie di appartamento al secondo piano. E poi ho un secondo edificio più a sud, qualcosa di simile a un vecchio castello progettato da qualche milionario pazzo, con torrette di cemento e giardini sprofondati tra le erbacce, e iscrizioni teosofiche e ornamenti in ferro battuto d’ispirazione mistica, il tutto abbandonato a metà costruzione e recintato con fil di ferro arrugginito. E a volte ho dormito tra gli scaffali della biblioteca o in altri posti del genere. Ridotta a un paria, a una derelitta nella macchina della vita. Oh, Carr, non riesci a immaginare… sì, forse adesso puoi… quanto mi sentissi terribilmente sola.

Carr annuì. — Tuttavia c’era almeno una persona — disse lentamente. — L’ometto dalla pelle scura.

— Sì. C’era Fred. Capitò che c’incontrassimo di nuovo.

Suppongo che abbiate vissuto insieme — le chiese Carr con voce sommessa.

Lei lo guardò. — No. Non l’abbiamo fatto. Mi aiutava a trovare i posti dove vivere e c’incontravamo qua e là. Mi ha insegnato a giocare a scacchi, abbiamo giocato per ore e ore. Ma non ho mai vissuto con lui.

Carr esitò. — Ma certamente deve aver cercato di far l’amore con te — insisté. — So quello che mi hai detto di lui, ma dopo che tu sei fuggita di casa eravate voi due soli, insieme come paria, derelitti…

Jane guardò il pavimento. — Hai ragione — ammise a disagio. — Ha cercato di fare all’amore con me.

— E tu l’hai contraccambiato?

— No.

— Non arrabbiarti, Jane, ma viste le circostanze la cosa mi sembra strana. Dopotutto, potevate avervi soltanto fra voi due.

Lei se ne uscì in una risata infelice.

— Oh l’avrei anche contraccambiato — replicò — salvo per una cosa… qualcosa che ho scoperto su di lui. Non mi piace parlarne ma suppongo che sia meglio. Poche settimane dopo che ero fuggita di casa, c’incontrammo di nuovo. Adesso conoscevamo entrambi la nostra posizione e c’eravamo dati appuntamento in un altro parco. Arrivai senza che lui si accorgesse di me, e lo trovai che stringeva fra le braccia una ragazzina. Lei non pareva conscia della sua presenza. Se ne stava là, in piedi, rossa in viso per il gran correre, gli occhi sfavillanti rivolti ai suoi compagni di gioco, sul punto di precipitarsi a raggiungerli, e lui era seduto sulla panchina dietro di lei, e le teneva le braccia strette intorno, accarezzandola teneramente, ma con un’espressione negli occhi come se non fosse altro che un pezzo di legno. Legno sacro forse, ma pur sempre legno. — Jane tirò un profondo sospiro. — Un’altra volta l’ho osservato sulla scala esterna d’un appartamento, di notte. C’era una giovane donna accanto a lui, una ragazza vestita in maniera piuttosto appariscente. Avrei dovuto incontrarmi con lui, ma ero arrivata in ritardo. Non mi vide. L’osservai dall’ombra. Aveva una mano sul suo seno. Un attimo dopo lei entrò e lui la seguì. Ma durante tutto quel tempo non aveva mai guardato una sola volta il suo viso, e la sua mano aveva continuato lentamente a muoversi…

“Dopo di ciò non riuscii più a sopportare che mi toccasse. Malgrado la sua gentilezza, la sua cortesia, la comprensione, c’era una parte di lui che voleva approfittare della macchina della vita per la sua privata, gelida soddisfazione, approfittare di quegli sventurati meccanismi morti soltanto perché lui era consapevole e loro no, approfittarsi nella medesima maniera in cui gli ‘altri’ se ne approfittano. L’hai visto nei loro occhi Carr, in quelli della signorina Hackman, di Dris, del signor Wilson, quel desiderio di degradare, di giocare agli dèi (ai diavoli, piuttosto) con le povere marionette della terra. Be’, c’era una piccola parte di Fred che era come loro. — Esitò. — Perfino allora avrei potuto cedere, se non mi avesse avvicinato in maniera così colpevole.”

— Aspetta. Quella bambina nel parco… era consapevole di lui?

— Penso di sì. Un poco, comunque. Come lo sono gli animali. Non aveva paura. Era soltanto sconcertata dapprima. Poi è parso che la ragazzina provasse una strana estasi convulsa. Ma non era qualcosa di suo. Era quella di Fred che si rifletteva in lei. E non era semplicemente un’estasi fisica pervertita che può essere compresa, pur se aborrita, ma una cosa mentale, una cruda perversione della mente, sì. La perversione del potere…

— E la ragazza dell’appartamento. Cosa mi dici di lei?

— Pareva inconsapevole di venir… amata. Amata fisicamente da qualcuno. Ma aveva sul volto un’espressione malignamente estatica, come se stesse sognando una qualche abissale malvagità.

— Uhm… un tipo simpatico!

— Cerca di capire — proseguì lei in fretta. — Il resto di lui era proprio a posto: la più cameratesca sensibilità, gli ideali più nobili. Credo che avesse perfino la donchisciottesca idea di non essere degno di me fino a quando non mi avesse in qualche modo messo in salvo, riportandomi alla mia esistenza sicura.

— Ma è impossibile — replicò Carr fissando Jane scoraggiato. — Una volta che sei uscito dallo schema… — (mentre pronunciava queste parole, sentì nascere dentro di sé la nostalgia di un uomo vivo per un mondo un tempo pieno di significato, adesso privo di significato per sempre) — …come potresti tornare indietro?

— Oh, ma si può fare — ribatté prontamente Jane. — Tu eri rientrato nello schema, consapevole ma parte di esso, dal momento in cui ti ho dato quelle polverine fino a quando sei scappato dalla festa. È si può fare anche senza droghe. Si nasce con un senso del ritmo della vita così come lo vuole la macchina. S’impara a percepirlo. Si fa e si dice automaticamente quello che si suppone tu debba dire. Si può…

Il telefono squillò. Per un attimo rimasero seduti completamente immobili. Carr guardò Jane. Poi allungò lentamente la mano e sollevò il ricevitore dalla forcella. Mentre lo faceva, la familiarità di quel gesto prese possesso di lui, attirandolo di nuovo. Senza che lui se ne rendesse conto, verso lo schema della sua vecchia vita.

— Sei tu Carr?

— Sì.

— Sono Tom.

— Ciao, Tom.

— Senti, hai niente in programma per dopodomani sera?

— Be’… no. — Carr trattenne il fiato per la sorpresa. Soltanto adesso si rendeva conto di aver risposto automaticamente. Stai parlando a una macchina ricordò a se stesso: una macchina per la quale le date e le ragazze e le parole e tutto il resto erano soltanto una funzione meccanica.

— Oh, magnifico. Che ne dici di venire a ballare con noi tre?

— Cosa vuoi dire? — (Ancora una volta, con grande stupore di Carr, le risposte gli uscivano di bocca quasi senza la sua volontà).

— Sai, quell’amica di Midge.

— L’amica di Midge?

— Ma certo che lo sai, te ne ho parlato almeno una mezza dozzina di volte.

— Sì, mi ricordo — disse Carr.

— Insomma, vieni? — (D’un tratto quella voce che gli arrivava attraverso il telefono parve la stessa cosa del fruscio d’un disco, dello scoppiettio d’un motore…). Carr esitò: — Non… non lo so. — (Come avrebbe dovuto rispondere? si chiese).

— Oh per l’amor di Dio! — (ancora una volta lo scoppiettio di un motore).

Carr esitò ancora, dolorosamente. Poi: — Va bene. D’accordo — disse. (Questa era la risposta che sembrava più giusta).

— Non mi sembri molto entusiasta. — (Era stata la risposta giusta!)

— No. Va benissimo. Verrò.

— Magnifico. Verremo a prenderti alle sette.

Perplesso, Carr corrugò la fronte mentre metteva giù il telefono.

— Vedi — gli disse Jane. — Adesso fai parte dello schema, ci sei rientrato in pieno, e le risposte ti sono venute naturali. A proposito, hai preso appuntamento con me.

Carr girò di scatto la testa. — Che cosa?

Jane annuì. — Proprio così. La ragazza di Tom, Midge, è quella Margaret di cui ti ho parlato. Il che fa di me l’amica di Midge. È così che sono venuta a sapere dell’Agenzia Generale di Collocamento, ed è per questo che sono corsa là dentro quando stavo cercando d’ingannare la signorina Hackman. Sarei andata alla scrivania di Tom, soltanto che si è dato il caso che fossi tu quello che non era impegnato con un candidato e così, venendo da te, avrei potuto far credere alla signorina Hackman che ero nello schema. Ma poi è risultato che tu non facevi parte dello schema e mi hai aiutato lo stesso.

Carr la guardò perplesso. Una grande quiete li avvolgeva.

— Vorrei che potessimo rispettare quell’appuntamento che hai preso — disse ancora Jane. — E vorrei che potessimo ritornare alla nostra vita, adesso che il nostro incontro fa parte dello schema.

— Perché non possiamo? — le chiese Carr d’un tratto. Si sporse in avanti e le prese una mano. — Hai detto che è possibile sviluppare un sesto senso per lo schema, vivere secondo lo schema anche se si è consci.

— Ti stai dimenticando gli altri — gli ricordò lei. — Loro conoscono il mio posto nello schema. Spero di no, ma potrebbero aver indovinato il tuo. Ci stanno sorvegliando. Se io tornassi indietro, lo saprebbero subito. E allora mi ucciderebbero, giacché niente li soddisferà mai, fino a quando…

In quell’istante udirono un rumore di passi sulle scale.

Carr fece piombare la stanza nel buio. Jane gli si avvicinò e rimasero stretti l’uno all’altra in silenzio. La lampadina bruciata fuori nel corridoio non era stata sostituita.

I passi si fecero più vicini. Una fioca luce in movimento cominciò a filtrare attraverso le fessure.

È spaventevole trovarsi in una casa abbandonata. Anche se all’esterno vi fosse stata una foresta, essa avrebbe comunque fatto aleggiare la promessa di altre vite che le mura della casa abbandonata tagliavano fuori.

Ma trovarsi in quella casa e sentire un rumore di passi alieni, e sapere che fuori di essa si stendeva una città abbandonata, nella quale uomini e donne potevano essere niente più che statue di cera, in quanto all’aiuto che avrebbero potuto darvi, e sapere che al di là della città abbandonata si stendeva un mondo ugualmente abbandonato, e un universo abbandonato…

I passi si arrestarono fuori della porta. Vi fu un sommesso bussare. Le mani di Carr si strinsero su quelle di Jane. Una pausa. I colpi vennero ripetuti, più forti. Un’altra pausa. Altri colpi, più forti ancora. Una pausa più lunga. Poi un debole raschiare, che durò per qualche secondo. Infine, un breve frusciare.

Quindi i passi e il bagliore luminoso si allontanarono. Lungo il corridoio. Giù per le scale. Silenzio.

Carr e Jane barcollarono. Il loro respiro usciva a rantoli. Carr andò alla finestra. Tirò anche le tende, così da formare una seconda barriera dietro alle tapparelle. Poi accese un fiammifero tenendolo all’interno delle mani chiuse a coppa. Il fiammifero avvampò rosso, poi giallo.

Infilato sotto la porta c’era un foglio di carta piegato in due. Carr lo raccolse. Accese un altro fiammifero. Lessero le poche parole scribacchiate in fretta:


Mio rabbioso Passeggero,

se vi è possibile, incontriamoci domani sera alle sette davanti alla Biblioteca Pubblica. Portate Jane, se sapete dove si trova. Ho fatto una scoperta molto importante.

Il Vostro Folle Autista

Загрузка...