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Capitò a Carr Mackay, in un momento di noia profonda, di vedere per la prima volta la ragazza spaventata. Gli uffici dell’Agenzia Generale di Collocamento sembravano una prigione, il tempo una parete invalicabile, la vita una camicia di forza, l’aria stessa un cemento invisibile a lenta presa. Perfino il pensiero di Marcia non riusciva a infondere un po’ di colore al suo umore grigio.

Aveva appena concluso il colloquio con un candidato. Il cestino vuoto di fil di ferro che aveva sulla scrivania significava che per un po’ non avrebbe avuto niente da fare.

Gli altri intervistatori erano ancora indaffarati, ognuno con la propria fetta di disoccupati in cerca di lavoro che, come un lento fiume, s’insinuavano nel raccordo anulare di Chicago, convergendo sull’Agenzia Generale di Collocamento, per poi andarsene di nuovo per la propria strada, senza una mèta, come tante formiche che stessero affluendo dentro e fuori da un buco, altrettanto indifesi come se cercassero di sfuggire alla rotazione d’un tacco gigantesco.

A Carr pareva che qualunque altra cosa fosse più interessante della gente. Ma un’occhiata al grande orologio gli disse che erano soltanto le quindici e trenta, e la prospettiva di un’ora e mezzo vuota gli pareva ancora peggiore di una piena di gente, non importava quanto stupida e priva di vita fosse.

E fu proprio allora che la ragazza spaventata entrò nella sala d’attesa. Si sedette, senza guardarsi intorno, su una delle panche — di legno e con lo schienale alto — più simili ai banchi d’una chiesa.

Carr l’osservò attraverso il massiccio pannello di vetro che rendeva ogni cosa, lì nella sala d’attesa, silenziosa e lievemente irreale. Era soltanto una ragazza con un giubbetto di lana. Il tipo universitario, un po’ ricercato, i capelli scuri che le ricadevano disordinatamente sulle spalle. E nervosa, anzi, spaventata. Una ragazza comune, a ogni modo. Non aveva niente di molto interessante, o di grazioso.

Eppure… era come se Carr fosse rimasto seduto per ore davanti a un sipario con la certezza che, ormai, non si sarebbe mai più sollevato, quando d’un tratto qualcosa (chissà cosa… un trepestio di piedi nel pozzo dell’orchestra, un lieve smorzarsi della luce, la sensazione che un attore stesse sbirciando attraverso uno dei fori appositamente ricavati nel pesante tessuto) gli dette l’impressione che, forse, non sarebbe stato tanto doloroso aspettare ancora un po’.

— Ahi, i miei piedi!

Carr si guardò intorno. I lineamenti della signorina Zabel erano distorti nella simulazione d’un intenso dolore mentre raccoglieva le schede registrate dalla sua scrivania.

— Vi fanno male i piedi? — le chiese, solidarizzando.

La donna annuì. Il suo ruvido e ingovernabile ciuffo di capelli si agitò deciso. — Siete fortunato voi — dichiarò. — Potete starvene seduto a una scrivania.

— Può essere altrettanto penoso.

Lei lo fissò scettica e si allontanò ancheggiando.

Lo sguardo di Carr tornò con un guizzo alla ragazza spaventata. C’era stato un cambiamento. Qualunque cosa avesse fatto prima, ora non lo faceva più. Non si mordeva più le labbra, non si torceva le dita. Sedeva del tutto immobile, guardando diritto davanti a sé, le braccia aderenti ai fianchi.

Un’altra donna era entrata nella sala d’attesa. Una bionda piuttosto in carne, bella alla maniera delle bionde raffigurate sui manifesti, con un’acconciatura tanto perfetta da sbalordire. Eppure, il vestito confezionato su misura la faceva sembrare mascolina. Aveva una bocca crudele e c’era qualcosa di strano nei suoi occhi. Parecchie categorie lavorative balzarono alla mente di Carr: impiegata alla ricezione, modella (forse un po’ troppo massiccia però), addetta agli acquisti, investigatrice privata. Si era fermata subito all’interno della porta d’ingresso, guardandosi intorno. Vide la ragazza spaventata. Si diresse subito verso di lei.

Il telefono sulla scrivania di Carr si mise a ronzare.

Mentre prendeva il ricevitore, Carr notò che la bionda esuberante si era fermata davanti alla ragazza spaventata e aveva abbassato lo sguardo su di lei. Gli sembrò che la ragazza spaventata fingesse in modo piuttosto patetico d’ignorarla.

— Sei tu Carr — disse la voce all’apparecchio.

Provò un’ondata di piacere. Era strano l’effetto che poteva fare il semplice suono della voce della donna desiderata, quando tutti i pensieri su di lei l’avevano lasciato freddo.

— Oh, ciao Marcia, tesoro — si affrettò a rispondere.

— Caro, Keaton mi ha fornito qualche altro particolare sul nuovo affare che ha in mente. Credo che sia proprio un’idea brillante. È già pronto a procedere.

— Dal poco che mi hai detto, mi è sembrato piuttosto abile — rispose cauto Carr. La sua prima ondata di calore si era un po’ smorzata. Mentre si frugava nella mente cercando il modo migliore di accomiatarsi da Marcia, il suo sguardo tornò al piccolo dramma che si stava svolgendo dall’altro lato della parete di vetro. La bionda si era seduta accanto alla ragazza spaventata e le aveva preso la mano. Sembrava che gliela stesse accarezzando. La ragazza spaventata continuava a guardare diritto davanti a sé: disperatamente, pensò Carr.

— E così, naturalmente, ho parlato di te a Keaton. Tesoro, è molto interessato. Vuol proprio vederti questa settimana. Significa un vero lavoro per te, Carr.

Carr provò un vago senso di costernazione che non gli era nuovo. — Ma Marcia…

Quella voce fluente e fiduciosa lo interruppe. — Ne riparleremo stasera. È davvero una splendida possibilità. Ciao tesoro.

Sentì un clic. Mise giù l’apparecchio e si preparò a sentirsi depresso oltre che annoiato. Dio, se soltanto Marcia avesse smesso quei suoi tentativi di far di lui un successo (un lavoro per un procacciatore di lavori, che risate) quando un rumore di passi agitati gli fece alzare lo sguardo.

La ragazza spaventata si stava avvicinando alla sua scrivania.

La bionda abbondante l’aveva seguita fino alla porta della parete di vetro, si era fermata lì e continuava a tenerle gli occhi addosso.

La ragazza spaventata prese posto sulla sedia dei candidati.

Si girò a metà verso Carr, ma non lo guardò negli occhi. Si strinse il giubbetto di lana intorno alla gola con un gesto che parve a Carr comicamente drammatico, come se stesse per dire: “Sono mezzo congelata”, oppure “Non m’impiccheranno… vero?”, o “Tesoro, le tue mani mi fanno paura”, o anche soltanto: “Mio Dio, il gas!”

In quel preciso istante, Carr provò la sensazione di “È cominciato”. Anche se non aveva la più pallida idea di cosa fosse cominciato. L’immenso sipario non si era sollevato d’un solo centimetro, ma qualcuno era corso fuori lo stesso. Un’altra parte della sua mente stava pensando che quella, era solo una candidata un po’ strana (ma quanti di loro non lo erano?) e che lui avrebbe fatto meglio a darsi da fare con lei.

Rivolto alla ragazza, arcuò le labbra in un sorriso: — Mi sembra di non essere ancora in possesso del vostro modulo, signorina…

La ragazza spaventata non rispose.

Carr volle metterla più a suo agio e proseguì: — Non che abbia importanza. Possiamo discutere della faccenda mentre aspettiamo che l’impiegato lo porti.

La ragazza continuava a non guardarlo.

— Suppongo che abbiate già riempito il modulo con la richiesta e che vi abbiano mandata da me — aggiunse, un po’ drastico.

Poi vide che la ragazza tremava e fu conscio d’un silenzio che non aveva niente a che fare con i normali rumori. Gli giungevano ancora agli orecchi il rat-ta-ta-tat delle macchine per scrivere, il brusio delle conversazioni della coppie intervistatore-candidato agli altri tavoli, il clic delle lastre dal cubicolo chiuso dalla tenda in cui qualcuno veniva sottoposto alla prova della vista: tutti i rumori consueti dell’Agenzia Generale di Collocamento. E al di là di questi, l’incessante borbottio di Chicago che aumentava e calava scandito dal passaggio dei treni della metropolitana.

Ma l’altro silenzio continuava. Perfino il rimbombante ticchettio del grande orologio sulla parete, che scandiva i minuti e a volte faceva trasalire Carr, non l’interrompeva.

Era come se tutti quei rumori, l’intero ufficio, Chicago, ogni cosa, fossero diventati un puro fondale inanimato per quella ragazza dal volto di gesso, insaccata nel giubbetto, le braccia rinserrate intorno a sé, le mani strette ai gomiti appuntiti, che lo fissava inorridita.

Per qualche incredibile ragione pareva aver paura di lui.

Si era fatta piccola piccola sulla sedia, con gli occhi cerchiati di bianco fissi su di lui. Mentre seguiva con lo guardo i movimenti della ragazza, Carr si avvide che un altro brivido la stava attraversando. Si umettò il labbro superiore con la punta della lingua. Poi disse, con voce fievole e terrorizzata: — D’accordo, mi avete preso, ma non tiratela per le lunghe. Non giocate con me. Fatela finita.

Carr controllò l’impulso di esibire una smorfia d’incredulità. Se ne uscì in una risatina e replicò: — So quello che provate. Entrare in una grande agenzia di collocamento sembra un tuffo orrendo. Ma non v’incateneremo a un cannone — proseguì in un improvvisato tentativo d’umorismo — né vi manderemo a Buenos Aires. Questo, per adesso è ancora un paese libero.

La ragazza non reagì. Carr si guardò intorno, sempre più inquieto. Quell’innaturale silenzio gli stava rodendo i nervi: una sensazione di stordimento che gli faceva accapponare la pelle come se stesse per venirgli l’influenza. Divagò con la mente, alla ricerca d’un motivo per quel suo cambiamento d’umore. Sapeva che doveva essercene uno, ma era talmente onnicomprensivo che non riusciva a identificarlo. I nomi importanti, sulle mappe, erano sempre i più difficili da trovare.

La bionda in carne era sempre sulla soglia. Il suo atteggiamento sottolineava che era lei la padrona di quel posto, o di qualunque altro dove fosse entrata. I suoi occhi parevano più bianchi di quanto avrebbero dovuto essere, e non del tutto a fuoco, anche se ciò non diminuiva, ma piuttosto intensificava l’impressione di una famelica e penetrante ostilità.

Carr riportò lo sguardo sulla ragazza spaventata. Continuava a rinserrarsi i gomiti tra le mani, ma adesso si era protesa in avanti e stava studiando il suo viso, come se ogni cosa al mondo fosse dipesa da ciò che vi vedeva.

— Voi siete uno di loro?

Carr la fissò perplesso, corrugando la fronte. — Uno di loro, chi?

— Non lo siete? — ripeté lei sempre con gli occhi puntati sul suo viso.

— Non capisco — fece lui.

— Voi non sapete quello che siete? — gli chiese la ragazza con improvvisa veemenza. — Non sapete se siete o no uno di loro?

— Non so di che cosa stiate parlando — le garantì lui. — E non ho la più pallida idea di che cosa intendiate dire con “loro”.

Lentamente le mani della ragazza si allentarono dalla stretta sui gomiti e le scivolarono in grembo. — No — disse — immagino che non lo siate. Voi non avete quella loro espressione indecente. Ma d’altronde… — Le sue labbra si contrassero — …dev’essere stato un segno del destino che sia venuta qui, in questo preciso momento. E che abbia detto proprio queste parole. Oh, che scherzo pazzesco, pazzesco! — Tremava di nuovo. — O altrimenti voi siete veramente… — Nei suoi occhi si affacciò una domanda importante anche se del tutto incomprensibile.

— Sentite — disse Carr in tono gentile — farete meglio a spiegarmi le cose sin dall’inizio. Per…

— Per favore non adesso — lo implorò la ragazza con voce malferma.

D’un tratto Carr si rese conto che il suo tremito era quello dell’isterismo represso e che la ragazza chiedeva un po’ di tempo per riprendere il controllo di sé.

Carr deviò lo sguardo altrove cercando di analizzare le proprie reazioni. Avrebbe avuto ogni diritto di classificare quella ragazza come appartenente a quella frangia di strambi e balordi inimpiegabili che ingombrano tutti gli uffici di collocamento. Era probabile che la sua domanda, se ne aveva riempita una, fosse stata trattenuta perché la signorina Zabel o qualcuna delle altre ragazze vi aveva notato questa o quella stravaganza. Lui avrebbe dovuto escogitare un modo indolore per porre termine al colloquio e accomiatarsi da lei.

Invece la sua mente stava cercando una motivazione più logica della psicosi che in qualche modo giustificasse quel comportamento, come se fosse convinto che quella motivazione esistesse davvero e che lui dovesse assolutamente scoprirla.

D’un colpo solo la macchia sulla sua mano sinistra, quel modo vagamente intellettuale di contrarre i lineamenti, l’inquieto ingobbirsi delle spalle e le lunghe, irregolari curve con cui i capelli castani vi ricadevano sopra, parvero suggerire mille cose.

In qualche maniera lui era rimasto coinvolto.

Amore? Sarebbe andato bene in un romanzo rosa. Qui era necessaria una spiegazione molto ma molto più plausibile.

Quel senso d’inanimazione tutt’intorno a lui continuava a opprimerlo, anzi, si era fatto più intenso. In qualche punto, durante gli ultimi minuti, aveva superato il confine tra l’ordinario e lo straordinario, era divenuto qualcosa di più dello straordinario. Ma come faceva lui a saperlo quando non c’era un solo iota di prove concrete e aveva soltanto l’intuizione a sostenerlo?

— Chi è quella donna che vi segue? — le chiese a bassa voce. — È una di loro?

Il terrore le riaffiorò sul viso. — Non posso dirvelo. Per favore, non chiedetemelo. E non guardatela. È importante che si convinca che non l’avete vista.

— Ma come potrebbe pensare altrimenti dopo che si è piantata in quel modo accanto a voi?

— Per favore, oh, per favore! — Quasi piangeva. — Non posso dirvi il perché. Solo… è terribilmente importante che ci comportiamo con naturalezza, che diamo l’impressione di far ciò che dovremmo fare, qualunque cosa sia… Possiamo?

Carr la studiò. Sì, vide chiaramente che era proprio sull’orlo d’una crisi isterica. — Sicuro — annuì. Si rilassò sullo schienale della sua poltroncina, le sorrise e alzò un poco la voce: — Che tipo di lavoro pensate sia più consono alle vostre capacità, signorina…?

— Lavoro? Oh sì, è per questo che sono venuta qui, non è vero? — Per un attimo lo fissò, impotente. Poi, in fretta, con le parole che incespicavano le une sulle altre, riprese a parlare: — Vediamo: so suonare il pianoforte… anche se non molto bene. Soprattutto musica classica. L’ho studiata molto però. Un tempo volevo diventare concertista… E ho recitato in una filodrammatica. So leggere i libri molto in fretta. Narrativa, intendo. So districarmi molto bene nelle biblioteche. E me la cavavo discretamente a tennis… — La sua grottesca animazione si raggelò. — Ma non sono affatto queste le cose che volete sapere, non é vero?

Carr scrollò le spalle. — Mi aiuta a formare un quadro. Una volta anch’io recitavo da dilettante all’università. — Mantenne discorsivo e distratto il tono della voce. — Avete già fatto qualche lavoro regolare?

— Una volta leggevo libri per un editore. Soltanto narrativa però. E per un po’ ho lavorato nello studio di un architetto.

— Avete imparato a leggere i progetti? — le domandò.

— I progetti? — La ragazza rabbrividì. — Non molto, temo. Odio i disegni d’ogni genere, a meno che non siano talmente ingarbugliati che io soltanto so che sono disegni. Sì, i disegni sono trappole: disegni, progetti… Una volta che si comincia a vivere secondo un progetto, gli altri sanno come controllarvi, come impadronirsi di voi. — Si sporse in avanti in atteggiamento confidenziale, agganciando con le dita il bordo della scrivania. — Oh, sono brava a giudicare la gente. Devo esserlo, e suppongo che dobbiate esserlo anche voi. — Quell’inesprimibile domanda le riaffiorò nello sguardo. — Davvero non sapete chi siete? — gli chiese con voce sommessa. — Non l’avete ancora scoperto? Dovete essere quasi sui quaranta. Di sicuro, durante tutto questo tempo… Oh, ma dovete saperlo.

— Non ho neppure la più vaga idea di che cosa state parlando — replicò Carr. — Cosa sono io?

La ragazza esitò.

— Ditemelo — la sollecitò lui.

La ragazza scosse la testa. — Se davvero non lo sapete, non sono sicura di dovervelo dire. Fintanto che non lo sapete, siete al sicuro. Relativamente al sicuro, s’intende. Se avessi avuto l’opportunità di non saperlo so quale scelta avrei fatto. Per lo meno, so come sceglierei adesso. Oh, Dio, sì.

Carr cominciava a sentirsi come il protagonista di quella storiella in cui un tizio si vede porgere da una bella donna un biglietto scritto in francese e che nessuno gli traduce. — Per favore smettetela di comportarvi da isterica — esclamò. — Cos’ho io di così importante? Qualcosa che non so sulle mie origini, il mio ambiente… O la mia razza? Le mie tendenze politiche? Il mio tipo psicologico? La mia vita amorosa?

— Ma se non lo sapete — proseguì lei, ignorando le sue domande — e se non ve lo dicessi, allora vi lascerei correre un rischio… così, alla cieca. Non così grosso ma… terribile. E con loro così vicini e forse già insospettiti… Oh, è così difficile decidere.

— Mi stanno assassinando!

Carr si girò di scatto. La signorina Zabel lo gratificò d’uno sguardo angosciato, lasciò cadere la scheda di una domanda d’impiego nel cestino di fil di ferro e si allontanò ancheggiando. Carr scrutò la scheda. Non era la scheda d’una ragazza. Diceva: “Jimmie Kozacs, maschio. Anni 43”.

Fu conscio che la ragazza spaventata stava studiando di nuovo il suo viso come se si vedesse qualcosa che prima le era sfuggita. Questo lo disorientò ancora di più.

— Forse non lo siete stato fino a oggi — disse più a se stessa che a lui. — E questo spiegherebbe la vostra ignoranza. Forse è stata la mia irruzione qua dentro a causarlo. Forse sono stata io a destarvi.

Intrecciò le lunghe dita dai polpastrelli squadrati, torturandosi i palmi… e la sarcastica osservazione di Carr sul fatto che lui era stato destato fin dagli albori della sua vita morì ancora prima di nascere. — Non avrei mai pensato di far questo a qualcuno — continuò la ragazza. — Non avrei mai pensato che avrei potuto causare a qualcuno l’angoscia che lui ha causato a me! Oh, se soltanto ci fosse qualcuno con cui potessi parlare, qualcuno che potesse dirmi cosa devo fare…

La desolante infelicità della sua voce fece breccia in Carr. — Cos’è questa faccenda? Per favore, ditemelo.

La ragazza lo fissò, scossa. — Adesso? — Descrisse con lo sguardo un mezzo cerchio intorno alla stanza, lasciandolo poi vagare verso la parete di vetro. — No, non qui. Non posso. — Le dita della mano destra si arricciavano come se stesse suonando un frenetico arpeggio. D’un tratto affondarono nella tasca del giubbetto e ne uscirono stringendo un mozzicone di matita tutto rosicchiato. La ragazza strappò un foglio dal blocco d’appunti di Carr e si mise a scribacchiare in fretta.

Mentre Carr la guardava dubbioso, un’ampia zona di tessuto grigio si parò davanti alla sua vista: era Tom Elvested che si era avvicinato a loro dalla scrivania accanto. La ragazza rivolse a Tom una rapida, strana occhiata, poi continuò a scribacchiare. Tom l’ignorò.

— Senti Carr — cominciò in tono amabile — Midge e io abbiamo un appuntamento stasera. Ha un’amica che credo ti piacerebbe. Uno splendore, un sacco di cervello, ma un po’ timida e riservata. Vorremmo che tu venissi con noi.

— Mi spiace ma non posso, ho già un appuntamento — rispose Carr, irritato. L’infastidiva il fatto che Tom discutesse di faccende personali davanti a un candidato.

— Non farti l’idea che ti stia chiedendo un servizio sociale — proseguì Tom un po’ stizzito. — Quella ragazza è bella da morire ed è molto più il tuo tipo di… S’interruppe.

— Di Marcia stavi per dire? — gli chiese Carr. — In ogni caso, è proprio con Marcia che ho un appuntamento.

Tom fissò Carr per un lungo istante. — D’accordo — disse poi allontanandosi. — Mi spiace che tu non possa venire.

La ragazza spaventata stava ancora scribacchiando: il raschiare della matita pareva a Carr l’unico vero suono dell’intero ufficio. Gettò un’occhiata guardinga lungo la corsia. La bionda in carne dagli occhi strani era ancora sulla soglia, ma si era fatta sgarbatamente da parte per lasciar passare un uomo basso e grasso in blue-jeans che si stava guardando intorno incerto.

L’uomo basso e grasso s’avviò verso la signorina Zabel. Il ciuffo di capelli in cima alla testa della signorina Zabel si sollevò ballonzolando dalla macchina per scrivere mentre lei gli diceva qualcosa. L’incertezza dell’uomo svanì. Le rivolse un: — Capito pupa — e puntò verso la scrivania di Carr.

La ragazza spaventata lo vide arrivare, spinse da parte carta e matita in un unico impulso affrettato e si alzò in piedi.

— Sedetevi — le intimò Carr. — Quel tizio può aspettare. A proposito, conoscete Tom Elvested? — Lei ignorò la domanda e raggiunse in fretta la corsia. Carr la seguì. — Voglio parlarvi, davvero — insisté.

— No — alitò lei, scostandosi.

— Ma non abbiamo ancora concluso niente — obiettò lui.

D’improvviso, la ragazza sorrise come la pubblicità d’un dentifricio. — Grazie per essermi stato così d’aiuto — dichiarò ad alta voce. — Rifletterò su quanto mi avete detto, anche se non credo che quel lavoro sia adatto a me. — Gli tese la mano. Lui la prese automaticamente. Era gelata.

— Non mi seguite — gli bisbigliò in fretta. — E se v’importa anche soltanto un poco di me e della mia sicurezza, non fate niente, qualunque cosa accada.

— Ma non conosco neppure il vostro nome… — La sua voce si affievolì. La ragazza si stava allontanando a grandi passi lungo la corsia. La bionda in carne le bloccava completamente la strada. La ragazza non si spostò d’un centimetro. Poi, mentre stavano per scontrarsi, la bionda alzò una mano e appioppò alla ragazza uno schiaffo bruciante sulla guancia.

Carr sussultò, fece un passo avanti, si bloccò.

La bionda si fece da parte con un sorriso sardonico.

La ragazza barcollò, ondeggiò per un passo o due, poi continuò a camminare senza voltare la testa.

Nessuno disse niente, nessuno fece niente, nessuno balzò su dalla sedia, nessuno si limitò anche soltanto a sollevare lo sguardo, magari per una rapida sbirciata, anche se tutti là dentro dovevano aver sentito lo schiaffo anche se non l’avevano visto. Ma, pensò Carr, con l’universale riluttanza della classe media a immischiarsi in un qualunque guaio salvo non esservi costretti, fingevano di non essersene accorti.

Carr tornò alla propria scrivania. Sentiva di avere il volto accalorato e la mente in subbuglio. L’ufficio intorno a lui pareva fuori tono, torbidamente sinistro, un po’ come la scena di un incubo: la penombra del centro cittadino che premeva contro le alte finestre un po’ velate dallo sporco, le luci nebbiose sulle scrivanie lucide, le frasi senza senso sospese nell’aria.

L’uomo basso e grasso in blue-jeans aveva già preso il posto della ragazza, ma per il momento Carr lo ignorò. Non tornò a sedersi. Il foglietto su cui la ragazza aveva scribacchiato attirò la sua attenzione. Lo prese e lesse.


State attento alla bionda strabica, al giovane senza una mano e all’uomo più vecchio apparentemente affabile. Ma l’uomo piccolo con la pelle scura e gli occhiali è vostro amico.


Carr si accigliò grottescamente La bionda dagli occhi strabici… Doveva essere quella bionda in carne che l’aveva sorvegliata. Ma in quanto agli altri tre? L’uomo piccolo con la pelle scura e gli occhiali è vostro amico… Pareva una sciarada.

— Grazie, credo di sì — disse in tono casuale l’uomo basso e grasso prendendo qualcosa nell’aria.

Carr fece per girare il foglietto per vedere se la ragazza aveva scribacchiato qualcosa anche sull’altro lato, quando…

— No, ho da accendere — disse ancora l’uomo basso e grasso.

Carr lo guardò e dimenticò ogni altra cosa. L’uomo basso e grasso aveva acceso un fiammifero e lo teneva racchiuso nella coppa formata dalle mani a circa sei centimetri dalle labbra curiosamente contratte. Sorrise grato al di sopra delle mani chiuse a coppa verso la poltroncina vuota di Carr. Poi con una mano scosse il fiammifero per spegnerlo e spostò l’altra verso le labbra dove si arrestò un attimo per poi spostarla verso l’esterno, a una trentina di centimetri dal viso, con l’indice e il medio tesi come quelli d’un prete benedicente. Dopo un breve intervallo la mano tornò ad avvicinarsi alle sue labbra e venne ripetuta l’inspirazione sibilante, e l’uomo basso e grasso buttò indietro la testa ed esalò attraverso le narici serrate.

Era ovvio che l’uomo stava fumando una sigaretta.

Soltanto che non c’era nessuna sigaretta.

Carr avrebbe voluto scoppiare a ridere: c’era qualcosa di tremendamente buffo in quei movimenti così realistici! Ricordò le pantomime durante il corso di recitazione all’università. Si fingeva di guidare una macchina o di mangiare o di scrivere una lettera senza nessun materiale di scena, mimando i movimenti. In quel corso, l’uomo basso e grasso si sarebbe guadagnato un 10 e lode.

— Sì esatto — disse l’uomo rivolgendosi alla poltroncina vuota di Carr mentre agitava le dita sopra il portacenere rivestito di un’appiccicosa plastica marrone.

D’un tratto, Carr perse ogni desiderio di ridere. Era ovvio, nel modo in cui qualunque cosa del genere poteva essere ovvia, che quell’uomo non era un attore.

— Sì, l’ho fatto per circa otto mesi. Ci sono arrivato passando dalla catena di montaggio delle saldature — continuò l’uomo basso e grasso fra una tirata immaginaria e l’altra. — Stavo per fare il mio secondo test quando io e mia moglie abbiamo deciso di trasferirci qui per star lontani da sua madre.

Carr si sentì afferrare da una profonda inquietudine. Esitò, poi si piegò lentamente in avanti dal punto in cui si trovava, fino a quando il suo viso fu a una trentina di centimetri soltanto da quello dell’uomo basso e grasso.

L’uomo non reagì, non parve vederlo per niente e continuò a parlare alla poltroncina vuota, guardando attraverso lui come se fosse trasparente.

— Oh è un lavoro sporco, non c’è dubbio. Ho avuto la mia porzione di problemi con la pelle. Ma posso resistere.

— Smettetela — gli ingiunse Carr.

— No, l’ho passato dopo essere stato là tre mesi. — L’uomo era amichevolmente enfatico. — Stavo per diventare ispettore di ruolo. Avrei ricevuto la nomina ufficiale con le relative marche dei contributi.

Carr rabbrividì. — Basta — scandì con voce ben chiara. — Smettetela.

— Certo, ogni genere di cose. Magnetismo circolare e longitudinale. Parti di macchine, forgiature, saldature, centinature…

— Basta — ripeté Carr afferrandolo saldamente per le spalle.

Quello che accadde poi fece desiderare a Carr di non averlo fatto. Il volto dell’uomo basso e grasso s’imporporò a chiazze, come quello di un bambino arrabbiato. Un’intensa pulsazione si trasmise alle mani di Carr. E dalle labbra dell’uomo uscì un crescente borbottio senza senso.

Carr balzò all’indietro. Si sentì debole e vile, impotente come un neonato. Si allontanò fino a quando non si trovò dietro a Tom Elvested che era impegnatissimo con un candidato.

Riuscì a malapena ad alzare la voce fino a un sussurro.

— Tom, ho un uomo che si comporta in modo strano. Vuoi aiutarmi?

Carr vide sull’altro lato della stanza un uomo dai grandi baffi camminare con passo spigliato. Gli corse accanto, continuando a fissare con apprensione l’uomo basso e grasso, il quale stava ancora seduto accanto alla sua scrivania col volto tutto arrossato.

— Dottor Wexler — farfugliò — ho una specie di balordo tra le mani, e credo stia per avere una crisi. Volete…

Ma il dottor Wexler proseguì senza rallentare e scomparve dietro la tenda nera del cubicolo per i test della vista. Nell’istante in cui Carr guardava i due lembi della tenda nera ricongiungersi dietro la schiena del dottore, un improvviso spasimo d’estremo terrore lo afferrò, come se qualcosa di gigantesco e ostile fosse in bilico dietro di lui… Non osò sollevare la testa, né alzare lo sguardo: non fece una sola mossa.

Era come il brivido momentaneo che aveva avvertito quando nessuno aveva reagito allo schiaffo. Soltanto, assai più intenso.

I suoi sentimenti erano un po’ come quelli di un uomo al museo delle statue di cera che parli a una guida e scopra di essersi rivolto a una delle statue.

I suoi pensieri paralizzati si sbloccarono d’un tratto e fulmineamente afferrarono l’analogia, affrontandola morbosamente.

Se tutto il mondo fosse stato un museo di figure di cera? In movimento, naturalmente, come tanti meccanismi d’orologio, ma del tutto meccanici, senza una mente o uno scopo?

E se lui, una statua di cera come tutte le altre, si fosse d’un tratto animato e avesse abbandonato il suo posto lasciando che lo spettacolo andasse avanti senza di lui perché era solo un grande meccanismo del quale non gli importava, o che addirittura neppure sapeva se lui fosse presente o no.

Ciò avrebbe spiegato quell’uomo basso e grasso che stava facendo la sua parte in un’intervista all’agenzia di collocamento: una sorta di giocattolo meccanico che continuava a funzionare lo stesso anche senza il suo partner. E avrebbe anche spiegato perché Tom e il dottor Wexler l’avevano ignorato.

Sì… se tutto questo fosse stato vero.

Se i confini del mondo fossero stati più vicini a voi della mente che pensavate si trovasse dietro la faccia alla quale vi rivolgevate?

E se tutte le parole e le frasi che la gente diceva, e che sembravano tanto ricche di significato, fossero state soltanto qualcosa di registrato su una specie di disco fonografico un milione di anni prima?

E se foste stato completamente solo?

Per un istante ancora la catena dei suoi pensieri (era stata questione soltanto di pochi momenti) lo tenne paralizzato. Poi si riebbe con un sussulto.

La vita rifluì nell’ufficio. La gente si muoveva e parlava. Carr quasi scoppiò in una fragorosa risata per quel suo assurdo spasimo di terrore. Com’era stato idiota ad allarmarsi perché Tom, che senza dubbio era stizzito nei suoi confronti a causa della loro recente conversazione, aveva temporaneamente ignorato una domanda borbottata che forse non aveva neppure sentito! O perché la stessa cosa gli era successa con il dottor Wexler, la cui sordità e le costanti preoccupazioni erano note a tutti! E com’era stato sciocco da parte sua perdere il controllo soltanto perché si era trovato per le mani un candidato che era un po’ psicotico!

Si raddrizzò e tornò alla propria scrivania, cauto ma fiducioso.

L’uomo basso e grasso stava ancora farfugliando all’aria ma il suo volo era ritornato del colore originario. Carr lo ignorò e abbassò gli occhi sulla scheda che la signorina Zabel gli aveva portato qualche minuto prima.

— Jimmie Kozacs. Età 43 anni.

L’uomo pareva all’incirca di quell’età.

Un po’ più in basso sulla scheda Carr lesse altre parole: — Ispettore al Magnetismo. — Se ricordava bene, i compiti del lavoro in questione concordavano con le cose che l’uomo aveva detto. L’uomo a questo punto si alzò. Di nuovo raccolse qualcosa nell’aria. — Così, tutto quello che devo fare è mostrargli questo al cancello? — commentò con voce grave. — Grazie molte, ehm… — Gettò un’occhiata alla targhetta col nome sulla scrivania di Carr. — …signor Mackay. Ah, state pure comodo. Be’… grazie.

L’uomo strinse con mano vigorosa il niente, si girò e si allontanò. Carr lo seguì con lo sguardo mentre usciva. Un sorriso che era per metà divertito, ma nervoso, e per metà di sollievo gli aleggiò sulle labbra.

La signorina Zabel arrivò ondeggiando con un mucchio di cartelle d’archivio.

— Giuro che le farò a pezzi e le donerò alla ricerca medica — gemette, rivolta a Carr.

Carr ridacchiò: la sua sensazione di normalità era stata ripristinata.

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