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Carr fece i gradini bordati di ottone a tre per volta, attraversò l’atrio e varcò con una spinta la porta rotante, cosa che lo faceva sempre sentire come uno scoiattolo in gabbia, e si unì alla folla che sciamava verso il Michigan Boulevard.

L’illuminazione stradale cominciava a integrare la luce crepuscolare imprigionata fra le mura degli edifici come in tanti canyon. Gli strilloni urlavano. Le fermate degli autobus e le isole pedonali di dubbia salvezza erano affollate come le scale che conducevano alle lunghe banchine dei treni della metropolitana. Dalle ampie porte dei garage multipiano le automobili stavano lentamente uscendo a scaglioni insinuandosi nel denso traffico. Altre macchine erano bersaglio di raffiche di clacson quando si fermavano un attimo per far salire altri passeggeri. Solitari pedoni sfrecciavano tra i paraurti in un modo che avrebbe fatto sussultare chiunque in una città meno babelica di Chicago.

A Carr pareva sempre meraviglioso potersi smarrire nel ritmo delle ore di punta fuggendo dall’Agenzia Generale di Collocamento, e ritrovarsi dove gli individui erano individui e non soltanto un assortimento di capacità di lavoro, livelli di salario e referenze scritte. Naturalmente, Marcia avrebbe ridato fiato a quell’angosciosa questione del lavoro, applicandola direttamente a lui… ma non per il prossimo paio d’ore, grazie a Dio!

Carr decise che ciò che non andava in lui doveva essere il fatto che era portato a considerare la gente soltanto come postulanti dell’Agenzia Generale di Collocamento. Doveva essere quella la spiegazione del suo attacco di nervi di quel pomeriggio. Aveva pensato talmente a lungo alla gente come a mero materiale umano grezzo, come a qualcosa che si accompagnava ai moduli delle domande e che sarebbe stato assai più comodo se fossero stati spediti inscatolati… gli era stato inculcato quell’atteggiamento per tanto di quel tempo, un noioso mese dopo l’altro, che adesso la gente si stava vendicando di lui comportandosi in modo rigido nei suoi confronti come se lui non esistesse.

Carr ridacchiò. La psicosi dell’uomo basso e grasso era insolita. Aveva letto di casi in cui i pazzi si comportavano in quello stesso modo più e più volte, con la più grande insensatezza, arrivando perfino a complicati intermezzi drammatici completi di parole e gesti. Ma ci sarebbe stato da pensare che simili intermezzi si sarebbero focalizzati intorno a qualche situazione dalle caratteristiche ben più tragiche d’una semplice domanda di lavoro. Comunque, se ci pensavate bene, quale situazione aveva maggiori potenzialità tragiche del tentativo di trovare un posto di lavoro?

Carr giunse a Michigan Boulevard. La parete di spazio vuoto sul lato opposto alla muraglia degli edifici che costeggiavano il lato su cui era lui, gli risollevò lo spirito. Una frangia d’alberi inquieti accennava alla presenza del lago, appena più oltre. L’Istituto d’Arte tracciava un disegno classico contro il cielo plumbeo. Qui l’aria pareva trattenere ancora una traccia della frescura della pioggia di quel mattino. Carr cominciò a pensare a Marcia, quando girò verso nord con passo rapido e spigliato, ma dopo un po’ la sua attenzione venne deviata verso un omettino che camminava a poca distanza davanti a lui, con passo ugualmente rapido. Le gambe di Carr erano considerevolmente più lunghe, ma l’ometto aveva un caratteristico modo di saltellare a ogni passo. I suoi movimenti davano l’impressione di qualcosa di elusivo; procedeva costantemente a zig zag, cercando i varchi tra la folla. I suoi capelli scuri erano lunghi e scarmigliati.

Carr provò uno di quegli impeti di curiosità destati a volte da una figura sconosciuta. Fu tentato di accelerare il passo in modo da poter dare un’occhiata al volto dello sconosciuto. In quell’istante, l’ometto si girò di scatto. Carr si fermò. L’ometto lo scrutò attraverso gli occhiali dalle lenti spesse cerchiate di corno. Poi, quella che pareva un’espressione d’estremo orrore attraversò il volto dello sconosciuto. Per un attimo si rannicchiò, come completamente paralizzato. Poi, con uno scatto veloce, si girò e sfrecciò via, superando la gente quasi a passo di danza, correndo da un lato all’altro per scomparire infine alla vista dietro all’angolo successivo, come una marionetta strappata fuori dal palcoscenico.

Mancò poco che Carr scoppiasse in una risata incontrollata. La ragazza spaventata aveva scritto: Ma l’uomo piccolo con la pelle scura e gli occhiali è vostro amico. Certamente non si comportava così!

Qualcuno urtò Carr da dietro, e lui schizzò in avanti: una reazione nervosa, l’intenzione semitardiva d’inseguire l’ometto dalla pelle scura. Ma dopo aver fatto di corsa una dozzina di passi, capì che si stava rendendo ridicolo e che in ogni caso non avrebbe potuto riguadagnare il vantaggio iniziale dell’altro.

Era come se il regolatore automatico di una macchina temporaneamente guasta avesse ricominciato a funzionare. Riprese la sua precedente andatura, non tanto rapida da richiamare l’attenzione. Era rientrato nel ritmo delle ore di punta. Guardò verso l’incrocio successivo. L’ometto scuro non era visibile da nessuna parte. Da come se l’era filata, a quest’ora avrebbe potuto benissimo trovarsi a tre isolati di distanza. Carr sorrise. Gli venne in mente che non aveva nessuna ragione per credere che quello fosse l’ometto dalla pelle scura della ragazza spaventata. Dopotutto dovevano esserci migliaia, milioni (pensiero folgorante!) al mondo di ometti scuri con gli occhiali.

Ma Carr scoprì di non potersi dimenticare tanto facilmente di quell’individuo ridendoci sopra. Gli aveva risvegliato lo stesso stato d’animo che la ragazza spaventata aveva evocato in lui quel pomeriggio, una sorta di eccitazione inquieta e frustrata. Nella sua mente, Carr continuava a vedere il volto della ragazza spaventata.

Se la raffigurava come una studentessa universitaria, di quelle pronte a saltare le lezioni per sedersi sul bordo d’una fontana mettendosi a discutere molto seriamente con qualche giovanotto sul significato dell’arte. Con qualche macchia d’inchiostro sulle guance e sul naso. Il ritratto le andava a pennello: bastava rievocare quella vivida e scioccante ingenuità quando si era chiesta se l’aveva “ridestato”.

Eppure, perfino quella domanda poteva incidere più in profondità di quanto lui poteva immaginarsi. Lui stava riconoscendo in se stesso una sensazione, sì, di “non destato”: una persona che aveva schivato la vita, non trovandosi mai a proprio agio con qualunque lavoro, o qualunque donna salvo Marcia, ricordò in fretta. Aveva sempre provato, in realtà, quella sensazione d’una esistenza enormemente più ricca e più viva, appena più in là della sua portata.

Se era per questo, la maggior parte della gente non viveva forse la propria vita senza mai veramente “destarsi”, apatici come vermi, meccanici come insetti, i cui pensieri venivano alimentati a cucchiaiate dai rotocalchi e dalla radio? Non avrebbero potuto dei robot recitare altrettanto bene quella tanto sopravvalutata faccenda del vivere?

Certamente i fatti di quel pomeriggio erano stati d’un genere tale da turbare la sua immaginazione in maniera del tutto particolare. Così sui due piedi non riusciva a pensare a una sola soluzione soddisfacente per le azioni della ragazza spaventata: follia, nevrosi, oppure qualche pericolo concreto? O forse soltanto uno scherzo?

No, quella bionda strabica aveva avuto un ruolo innegabile, e il suo atteggiamento nei confronti della ragazza spaventata lasciava intendere una morbosa tirannia spirituale. Carr s’imporporò ricordando lo schiaffo.

E poi quegli incontri con l’uomo basso e grasso e con l’ometto dalla pelle scura erano arrivati così a puntino… l’ultimo, poi, proprio come predetto. Carr provava l’inquietante convinzione di essersi in qualche modo imbattuto in una vasta ragnatela d’ombre.

Aveva raggiunto il ponte della Michigan Avenue. All’imbrunire il Chicago River era uno scuro pavimento opaco. Gli parve quasi di toccare con mano la sottile spolveratura di nebbia che rivestiva le increspature dell’acqua. Notò una vecchia chiatta nera a motore che si stava avvicinando al ponte. Un piccolo scafo dall’aspetto goffo, con una cabina lunga e bassa e una tozza ciminiera.

Ma fu l’uomo sulla chiatta a colpirlo di più. La sua statura era enorme, la corporatura massiccia. Il suo volto aveva una mandibola prominente, enorme, aveva occhi da lottatore profondamente infossati e sopra di essi s’innalzava un’alta fronte bianca. I suoi indumenti erano neri, di tela grezza, eppure Carr immaginò che intorno a lui aleggiasse un’aura di potenza intellettuale. Nella mano destra, a mo’ di picca, reggeva un rampino dall’aspetto cattivo, in cima a una grossa asta lunga quasi il doppio di lui.

Quando la chiatta fu più vicina al ponte, l’uomo gigantesco alzò lentamente la testa e puntò su Carr uno sguardo così intenso, così penetrante e scrutatore, che Carr quasi si ritrasse di scatto dalla ringhiera.

L’uomo continuò a fissare Carr, il suo volto era un ovale bianco quasi quadrato sullo sfondo nero degli indumenti, mentre la chiatta proseguiva il suo percorso sotto il ponte.

Durante tutta la strada fino a casa, sopra il grande ponte ventoso, fra i luccicanti piloni bianchi e giallo-grigi del Wriley Building e della Tribune Tower, e poi attraverso le strade buie e allegre del vicino North Side, e infine salendo quegli stessi gradini della vecchia casa di arenaria nella quale aveva una stanza in affitto, Carr continuò nel suo sforzo di afferrare i contorni della ragnatela nella quale sembrava essere rimasto impigliato. Non ebbe alcun successo, e in quanto al ragno non ce n’era neppure l’ombra. Quale possibile legame poteva esserci tra una ragazza spaventata, un balordo ispettore al magnetismo, uno sconosciuto che si eclissava deliberatamente alla vostra vista e forse anche un battelliere dalle dimensioni gargantuesche?

L’atrio era immerso nella penombra e sapeva di stantio. Carr cercò a tastoni la sua cassetta delle lettere, ma non c’era posta. Salì in fretta le scale dalla balaustra decorata, una reliquia dei giorni opulenti del lontano 1890. Su per la scala l’oscurità s’infittiva. Una finestrella di vetro colorato, dominato dal rosso e dal viola, forniva l’unico vago bagliore.

Proprio mentre arrivava alla curva della scala, parve a Carr di vedere se stesso venirgli incontro nella fitta penombra.

L’illusione durò un attimo. Poi riconobbe nella figura il suo riflesso nel grande specchio offuscato, rigato dal tempo e chiazzato, che occupava la maggior parte della parete sul pianerottolo. Gli era già capitato altre volte.

Ma rimase là ugualmente, immobile a fissare quell’immagine avvolta nel buio: un uomo alto, di corporatura esile, i capelli biondi, i lineamenti minuti e regolari. Un’esperienza banale aveva assunto un nuovo significato causando una cristallizzazione delle emozioni e del pensiero.

Là c’era… Carr Mackay. E tutt’intorno a lui si stendeva un universo sconosciuto. E cosa significava o contava Carr Mackay? Qual era l’autentico significato della routine, di quel ritmo tenebroso che lo sospingeva sempre più in fretta attraverso la vita, a gran velocità verso una tomba che si trovava da qualche parte? Aveva un qualche significato (vale a dire, qualche significato che un uomo potesse accettare o sopportare) specialmente quando qualunque interruzione del ritmo, come gli eventi di quel pomeriggio, poteva far sembrare tutto così morto e privo di scopo, un’interminabile marcia e contromarcia di marionette?

Carr oltrepassò il riflesso alla cieca, di corsa, proseguendo su per le scale.

Nel corridoio di sopra faceva ancora più buio. La lampadina si era bruciata e non era stata sostituita. Carr avanzò lungo il corridoio a tentoni e aprì la porta della sua stanza.

Era un locale ampio e comodo, dall’alto soffitto, con il vecchio, sontuoso rivestimento di legno che innumerevoli strati di pittura da pochi soldi non erano riusciti a offuscare del tutto; c’era un vecchio letto d’ottone con aste e pomelli, quasi una fantasiosa voliera. Cominciando subito a cambiarsi, Carr cercò di far sì che quel luogo lo ghermisse e lo cullasse con la suggestione di cose familiari e della sua vita con Marcia e i suoi, facendogli dimenticare il Carr Mackay smarrito laggiù nello specchio. In un angolo c’erano le sue mazze da golf, i libri sulla vela, l’astuccio con gettoni e mazzi di carte da poker sulla mensola del caminetto, la scatola dei gemelli per la camicia col programma del teatro accanto, e la morbida spazzola di tipo militare per capelli che Marcia gli aveva regalato. Ma quella sera tutto questo gli parve un assortimento di oggetti arbitrari e inutili come i reperti d’una antica tomba egizia, oggetti posti là dentro per accompagnare il loro proprietario nel lungo e faticoso viaggio verso l’oltretomba.

Erano ancor meno vivi dei due polverosi libri d’argomento metafisico che aveva comperato quand’era ancora studente all’università e che non era mai arrivato a leggere per più d’un quarto, oppure delle piccole maschere fatte di cartone e di gesso raffiguranti la commedia e la tragedia, consegnate quindici anni prima a tutti i membri della filodrammatica dell’università, o della scatola degli scacchi da tempo mai più aperta, o della fiaschetta d’argento ormai scurita.

Carr appese il suo vestito marrone a un appendiabiti, lo mise nell’armadio e abbassò istintivamente la mano per prendere il vestito blu ancora nell’involto della lavanderia a secco.

Là, nella penombra, gli parve di scorgere un’altra volta i viso della ragazza spaventata. La mano che reggeva l’appendiabiti appesantito rimase sospesa a metà strada all’asta dell’armadio. Riusciva a distinguere gli occhi seri, dall’espressione d’una preda braccata, i lineamenti fini, le labbra nervose.

Lei aveva la chiave, la parola d’ordine che dava accesso a quel mondo nascosto. Lei conosceva la risposta alla domanda che quel Mackay avvoltolato nel buio aveva posto.

Quelle labbra immaginate si dischiusero nervose, come se stessero per parlare. Esalando rabbiosamente il fiato che aveva trattenuto Carr balzò indietro con uno scatto. Cosa mai gli era venuto in mente? Soltanto nei libri più caramellosi e immaturi gli uomini di 39 anni s’innamoravano di studentesse universitarie vivaci, misteriose e umorali. Oppure si lasciavano invischiare in affascinanti e sinistri intrighi che esistevano soltanto nei cervelli esaltati di ragazze come quelle.

S’infilò l’abito blu, poi cominciò a trasferire nelle sue tasche ciò che si trovava in quello marrone. Ritrovò il biglietto, scritto a matita, che la ragazza spaventata aveva scribacchiato. Doveva esserselo cacciato in tasca quando l’uomo basso e grasso aveva cominciato a comportarsi stranamente. Lo girò e vide che non aveva letto tutto.


Se volete incontrarmi di nuovo, malgrado i pericoli, sarò accanto alla coda del leone vicino alle cinque sorelle, stasera alle otto.


Le labbra gli si contrassero in un sorriso forzato e incredulo, poi lui proruppe in una risata. Questo liquidava la faccenda! Se non dimostrava che quella ragazza aveva succhiato il latte dal Prigioniero di Zenda ed era stata svezzata col Graustark, allora avrebbe proprio voluto sapere come… La coda del leone e le cinque sorelle! Era probabile che portasse il rubino del Rajà in un sacchetto legato al collo e scrivesse lettere d’amore con una penna di cigno nero. In breve, adorava una mescolanza di melodramma e d’automistificazione che era passata di moda con le crinoline. Qui stava la chiave del suo comportamento grottesco, e quella ragazza poteva smetterla subito di perseguitare la sua immaginazione.

Non c’era più nessun dubbio che Marcia fosse la donna giusta per lui, anche se a volte si mostrava un po’ troppo smaniosa di cambiare la sua vita. Era capace, attraente, matura, appagata. Dirigente d’una importante casa editrice. Competente sia negli affari sia nel piacere. Il suo tipo. Appassionata di vela e di golf come lui, astuta quando giocava a poker, frequentava i teatri e le feste giuste, conosceva persone importanti. Lui e Marcia avrebbero ben presto raggiunto un soddisfacente accordo reciproco, forse si sarebbero perfino sposati. Quale concorrenza poteva mai rappresentare quella ragazza così chiaramente disadattata?

“Ma” emerse una voce silenziosa dalla sua coscienza “là nell’ufficio non avevi forse deciso che il legame fra te e quella ragazza spaventata non aveva niente a che fare con l’amore? Non stai forse cercando di evitare il problema, trasferendolo su un piano emotivo del tutto diverso?”

Corse in bagno sfregandosi il mento. A Marcia piaceva che lui fosse ben curato, e la barba gli pareva un po’ troppo lunga. Si guardò allo specchio per aver conferma del suo sospetto, e ancora una volta vide un diverso Carr Mackay.

Quello laggiù sulle scale gli era parso smarrito. Questo, inquadrato in quella cornice bianca da sala chirurgica, pareva intrappolato. Un piccolo Mackay legnoso e ordinato, che procedeva arrancando attraverso la vita senza chiedere cosa significassero i differenti cartelli indicatori, che ghermiva sempre i piaceri indesiderati, che continuava a vendere a se stesso questa, quella e quell’altra cosa: il cliente Jekyll e il venditore Hyde. Uno stupido Mackay che si atteneva sempre alle consuetudini stabilite, un manichino.

Sì, avrebbe dovuto radersi. Ma, da come si sentiva, quanto prima lui e Marcia avessero cominciato a bere tanto meglio sarebbe stato. Per questa volta si sarebbe tenuta la barba lunga.

Mentre prendeva questa decisione, divenne conscio d’un senso di colpa del tutto sproporzionato.

Ma chiunque, una volta o l’altra, finiva sempre per scoprirsi ad attribuire un’importanza grottesca a qualche azione banale. Come quella di mettere o non mettere un piede su una crepa nel marciapiede.

Probabilmente aveva letto troppi annunci nel Five o’Clock Shadow.

Diménticatene.

Si affrettò a infilarsi il resto degli indumenti, si avviò verso la porta, si fermò accanto alla scrivania, aprì il cassetto in alto, fissò per un attimo le tre bottigliette piatte di whisky annidate nel suo interno. Poi si affrettò a chiudere il cassetto e uscì in corridoio! Scese le scale distogliendo gli occhi dallo specchio, attraversò rapidamente l’atrio sempre in penombra e sbucò in strada.

Era un sollievo sapere che tra pochi minuti sarebbe stato con Marcia. Ma otto isolati bui sono otto isolati bui, e se si fanno a piedi ci vuole un po’ di tempo, non importa quanto sia rapido il vostro passo. Tempo sufficiente a far perdere ogni vostra determinazione e sicurezza. Tempo sufficiente perché ciò che è consueto e normale diventi insolito e raggelante. Tempo sufficiente a far perdere ogni contorno preciso agli schemi in base ai quali siete finora vissuti. Tempo, sì, per allontanarvi dalle scritte al neon e dalle luci, dalla musica e dalle voci della televisione, cominciando a riflettere sull’universo e rendendosi conto che è un luogo di mistificazioni e di morte, senza più sentimenti di quanti possa averne un tritacarne per la vita che cola attraverso di esso.

Gli edifici su entrambi i lati divennero le mura d’una pista nera, e gli occasionali passanti, automi avvolti nell’ombra.

Carr divenne conscio del tenebroso ritmo dell’esistenza; come di qualcosa d’implacabile che torchiava i nervi e lo trascinava come i fili d’una marionetta, cercando di riavvolgerlo in qualche altro schema dal quale si era staccato. Una mescolanza di rumori e di passi affrettati, del ruggire dei motori, di stridii d’auto, di eliche rombanti, della risacca, della rotazione dei pianeti, di stelle sfreccianti e di qualcos’altro ancora.

Soltanto un umore, si disse, ma un umore molto intenso. Ma questo non voleva già dire abbastanza? L’essenza d’un umore non era forse l’incapacità di qualcuno a combatterlo? E più si era intelligenti, più si era pronti a vedere attraverso tutti gli imbrogli e le razionalizzazioni, per ritornare alla gelida, aspra, insondabile realtà dell’umore stesso.

Trovarsi con Marcia l’avrebbe rimesso in sesto, si disse, mentre le buie facciate gli strisciavano accanto una dopo l’altra scomparendo alle sue spalle. Per lo meno, lei non avrebbe mai potuto diventare un’estranea. C’era troppo fra loro due. Una volta con lei, lui sarebbe tornato di colpo alla normalità.

Ma si era dimenticato del suo viso. Era sempre facile dimenticarsi momentaneamente d’un viso, non importa quanto familiare fosse. Come un nome, o un luogo dove avete cacciato qualcosa per tenerlo al sicuro. E più cercate di ricordarvelo, più i dettagli precisi vi eludono.

Carr ci provò. Cento volti balenarono e si dissolsero nella sua mente, qualcuno richiamava ossessivamente alla memoria Marcia, qualcuno era grottescamente dissimile. Ragazze che aveva conosciuto all’università, candidati al collocamento di mesi addietro ai quali non aveva più pensato da allora, fotografie di riviste, volti intravisti per un attimo in una strada affollata, altri senza alcuna etichetta d’origine.

La luce d’una finestra al pianterreno filtrò sul volto d’una ragazza dall’impermeabile azzurro scampanato proprio nell’istante in cui gli passò accanto. Il cuore gli batté forte mentre proseguiva. Era stato quasi sul punto di afferrarla e di esclamare: “Marcia!” E non era per niente un tipo alla Marcia…

Carr accelerò il passo. Il grande complesso di appartamenti in cui Marcia viveva comparve un po’ per volta alla sua vista, divenne minacciosamente alto.

Carr si affrettò lungo il vialetto piastrellato fiancheggiato da arbusti. L’atrio era una lunga sala inutile, arredata in quello che avrebbe voluto essere uno stile spagnolo, con parecchio legno scolpito e cuoio rosso. Carr si fermò al banco. L’impiegato era in fondo al cubicolo, intento a parlare con qualcuno al telefono. Carr aspettò, ma l’impiegato pareva deciso a prolungare la conversazione. Carr si schiarì la gola. L’impiegato sbadigliò e fletté languidamente il braccio con cui reggeva il ricevitore, come per richiamare l’attenzione sull’anello col sigillo e i gemelli d’oro.

L’ascensore automatico era in attesa, lo sportello si aprì sulla cabina buia. Carr non si attardò ulteriormente. Entrò e premette il pulsante del settimo piano. Non accadde nulla. Dopo aver premuto altre due volte il pulsante, Carr decise che avrebbe fatto meglio a informare l’impiegato che l’ascensore era guasto.

Ma proprio allora lo sportello si chiuse, la luce si accese e la cabina cominciò a salire. Era una cabina molto piccola. Pannelli vermigli, infissi d’ottone, un tappeto d’un rosso più scuro. Una targhetta diceva che poteva trasportare fino a 680 chilogrammi. Il vermiglio era più scuro là dove i passeggeri si erano appoggiati e i punti consumati mostravano dov’erano stati appoggiati i pacchi sulla ringhiera d’ottone. Pacchi o altre cose cacciate là dentro a forza.

La cabina si arrestò al settimo piano. La porta si aprì. Un uomo grasso che indossava un pesante cappotto tolse il dito dal pulsante esterno ed entrò senza aspettare. Carr uscì schiacciandosi contro il suo pancione, si girò non appena ebbe superato il portello e sbottò: — Scusi tanto! — Ma lo sportello si stava già chiudendo, e da quello zotico grassone non gli giunse alcuna risposta.

Carr s’incamminò lungo il corridoio ricoperto da un tappeto rosso. Giunto davanti alla porta di Marcia esitò. Avrebbe potuto non piacerle che lui entrasse in quel modo senza farsi annunciare. Ma non poteva starsene eternamente ad aspettare i comodi di quell’impiegato sonnolento.

Sentì, lontano alle sue spalle, che la cabina dell’ascensore si fermava al pianterreno.

E notò anche che la porta dell’appartamento, davanti a lui, era socchiusa.

La spinse, aprendola di qualche altro centimetro.

— Marcia! — chiamò. — Marcia… — La voce gli uscì rauca.

Entrò nel soggiorno. La lampada a stelo con l’abat-jour ricamata, mostrava pareti d’un grigio perla opaco, uno scaffale per i libri, un divano azzurro superimbottito con un cappotto e una sciarpa di seta gialla buttati sopra di esso, e un esile, arricciolato fil di fumo che esalava da una sigaretta, chissà da dove.

Marcia non sarebbe andata via così, lasciando la porta d’ingresso socchiusa.

La porta della camera da letto era aperta. Carr la raggiunse, i suoi passi non facevano nessun rumore sul folto tappeto. Si fermò.

Marcia era seduta su uno sgabello imbottito davanti a un grande tavolo da toilette. Su una sedia, al suo fianco, era disteso un abito di seta grigia. Marcia non indossava assolutamente niente. Una sigaretta schiacciata esalava le sue volute di fumo in un minuscolo portacenere d’argento. Si stava dando la lacca alle unghie.

Questo era tutto. Ma a Carr pareva d’essere entrato per sbaglio in una di quelle vetrine d’un grande magazzino allestita realisticamente. Quasi si aspettava di vedere i volti dei passanti sbirciare attraverso l’ampia finestra, a sette piani da terra.

Una moderna stanza da letto in grigio fumo e rosa. Un manichino seduto davanti alla toilette, in atto di truccarsi. Forse anche un cartello, con una scritta a svolazzi: “Mettete in evidenza i vostri Rosa con il Grigio!”.

Rimase lì come uno stupido, a un passo dalla porta, senza dire niente, senza fare un solo movimento.

Nello specchio, gli occhi di lei parvero incontrare i suoi. Non poteva credere che lei fosse inconsapevole della sua presenza. Non aveva mai saputo che potesse essere così sfacciatamente immodesta.

Marcia continuò a darsi la lacca alle unghie.

Poteva essere arrabbiata con lui perché era salito senza preannunciarsi con una telefonata. Ma non era da Marcia mostrare in quello strano modo il suo dispiacere… e se stessa.

Oppure sì? Stava forse cercando deliberatamente di stuzzicarlo?

Carr fissò il suo volto nello specchio. Era proprio quello che aveva dimenticato. C’erano quelle labbra ferme, la fronte fresca e liscia incorniciata dai capelli rossi, le fugaci caratteristiche della sua espressione: non quelle a cui era più abituato, ma senz’altro le sue.

Eppure quel riconoscimento non comportava quella sensazione di assoluta certezza che avrebbe dovuto. Mancava qualcosa: la grande sensazione della realtà dietro quel viso, ciò che avrebbe dovuto animarla.

Marcia terminò di laccarsi le unghie e protese le dita in fuori per farle asciugare.

Un’acuta ondata d’inquietudine percorse Carr. Quello era un nonsenso, si disse. Avrebbe dovuto muoversi o parlare.

Marcia si sedette ancora più diritta, spingendo all’indietro le spalle. Un pallido sorriso di ammirazione e di autocompiacimento le aleggiò sulle labbra. Con i polpastrelli delle dita, sempre facendo attenzione alla lacca, si accarezzò delicatamente i seni sollevandoli verso l’alto in un atto torpido e sognante.

I polpastrelli si chiusero sulle areole e pizzicarono i piccoli capezzoli. Gli parve di vederli irrigidirsi.

Si sentì irrigidire anche lui.

Aveva la gola arida e le gambe intorpidite. E nel fissare Marcia, così nuda e invitante, così erotica, fece istintivamente un passo avanti. Lei non aveva nessun diritto di tentarlo così…

E poi, tutt’a un tratto, sentì di nuovo la terribile sensazione che aveva avuto quel pomeriggio. Lo fece arrestare di botto.

E se Marcia non fosse stata veramente viva, non consapevoimente viva, ma avesse fatto parte anche lei di una danza di atomi senza cervello, uno spettacolo meccanico che si estendeva al mondo intero salvo lui stesso? Arrivando con qualche minuto d’anticipo, saltando soltanto l’operazione di radersi, lui aveva spezzato il ritmo di quel meccanismo. Era per questo che l’impiegato non gli aveva parlato, era per questo che l’ascensore non aveva funzionato quando lui aveva premuto il pulsante la prima volta, era per questo che il grassone l’aveva ignorato, era per questo che Marcia non l’aveva salutato. Nello spettacolo meccanico, non era ancora il momento di quelle brevi scene recitate.

Il telefono color crema squillò. Sollevandolo con attenzione, tenendo le dita rigidamente tese, la figura davanti alla toilette lo tenne all’orecchio per un attimo, poi disse: — Certo. Fatelo salire.

Si esaminò le unghie, le agitò, guardò il suo riflesso nello specchio, allungò la mano verso il negligé grigio, e… il sorriso che rivolse a se stessa nello specchio si fece malizioso (vi fu anche una fuggevole strizzatina d’occhi di complicità) e un po’ crudele. Ritrasse la mano, l’incrociò sopra l’altra appoggiata sulle ginocchia e rimase seduta là, eretta e compita, “segnando il tempo”. Ma il suo sorriso continuò a danzare.

Attraverso la porta aperta, Carr poté udire il ronzio della cabina che saliva.

La cabina si arrestò. Vi fu lo scatto morbido dello sportello automatico che si apriva. Carr aspettò d’udire un rumore di passi. Non ve ne furono.

Quello era il suo ascensore, pensò con un brivido: l’ascensore con cui lui avrebbe dovuto salire.

D’un tratto Marcia si voltò. — Tesoro — disse, alzandosi in fretta.

Carr sentì i capelli rizzarglisi in testa. Sentì che non stava guardando lui, ma qualcosa proprio dietro a lui. Stava guardando lui che stava entrando dalla porta del soggiorno. E parve godersi in silenzio la sorpresa che la sua nudità gli avrebbe dato.

Poi si rese conto che lei lo stava effettivamente guardando, e che quello era il viso di Marcia viva, vitale e pieno di consapevolezza, proprio come lui lo ricordava, e che qualunque altra cosa era il frutto della sua sciocca immaginazione, e perché diavolo si era tanto stupito che lei non l’avesse notato prima, quand’era arrivato fin là in maniera tanto furtiva?

Quell’impeto di sollievo gli fece d’improvviso tremare le ginocchia.

Tese le braccia. — Marcia!

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