8

Come due clandestini ubriachi nella stiva di una nave, ondeggiando un po’ brilli e azzittendosi a vicenda, Carr e Jane salirono una stretta scala. Avanzarono a tentoni attraverso la sezione dei libri in lingua straniera e fecero una ricognizione della rotonda della biblioteca immersa nel buio. Carr s’innamorò subito delle ombre che la decoravano come tanti festoni. Avevano un aspetto caldo e amichevole come lo scotch che aveva gustato. Sentì che avrebbe potuto volare in alto fino ad esse se avesse voluto, avvolgersele intorno piega dopo piega, gozzovigliare nella loro fumosa morbidezza. La luce da fuori, che entrava obliqua dalle finestre diretta verso l’alto, destava luccichii dorati e verdastri dalla superficie a mosaico. Più in basso, gli scaffali e i banchi formavano rettangoli dai bordi confusi. Più Carr guardava, più traeva godimento dalla magica cosmesi del buio.

Erano a metà strada della rotonda quando un raggio di luce cominciò a ballonzolare attraverso l’arco davanti a loro. Carr tirò Jane verso la cabina delle informazioni.

— Cosa succede? — borbottò lei, resistendo. — Cosa fai?

— Il guardiano! — bisbigliò lui allarmato trascinandola con sé.

Lei sbottò, incoscientemente: — Chi se ne frega?

— Sst! — Carr la tirò dentro la cabina facendola rannicchiare accanto a lui.

La luce si fece più vicina. Si udirono i passi d’un paio di piedi calzati di gomma. Il raggio luminoso continuò a oscillare regolarmente da un lato all’altro, infilandosi fra le ombre. Passò anche, come una sciabolata, sopra il loro nascondiglio, come il riflettore d’un nemico sopra una trincea, facendo risaltare la grana del legno del banco di quercia subito sopra la testa di Carr. Per un attimo balzò verso il soffitto, illuminando misticamente il nome dorato di Corneille.

Una voce stridula cominciò a canticchiare a bassa voce: — “Voglio una ragazza proprio come la ragazza che ha sposato il caro vecchio papà…”.

Jane fece per sbirciare sopra il banco, ma Carr riuscì a tirarla giù senza far rumore. Intravide un vecchio, mezzo girato rispetto a loro, con un orologio affibbiato alla cintura.

Ancora una volta il raggio di luce passò sfiorando il loro nascondiglio: poi la luce e i passi cominciarono ad allontanarsi.

— Vuole una ragazza — bisbigliò Jane e ridacchiò.

— Sst!

— Griderò se non la smetti di farmi male al polso.

— Sst! — Tuttavia la lasciò andare. Qualche istante più tardi alzò la testa fino a quando i suoi occhi non emersero al di sopra del livello del banco, ma proprio in quel momento udì Jane che lo scavalcava all’altra estremità della cabina. Abbandonando la prudenza diede una spinta a quella che pensava fosse una porta oscillante, ma invece sbatté contro il solido legno e senza preoccuparsi più di cercare la porta scavalcò a sua volta il banco dietro a Jane.

Seguendola a rapidi passi giù per l’ampia scalinata bianca, avvertì il contagio della temerarietà di lei. Avrebbero potuto essere il principe e la principessa che uscivano di soppiatto da un castello di marmo per qualche scappatella pericolosa.

Poi Carr si rese conto che Jane aveva superato la porta d’ingresso ed era uscita in strada. La seguì e si fermò, affascinato, giacché là fuori, appena oltre il bianco marciapiede, c’era la continuazione più adatta, per quanto anacronistica, della sua fantasia: una lunga e bassa limousine con gli infissi d’argento e l’interno illuminato da una morbida luce.

Poi vide che due coppie ben pasciute con cappelli a cilindro e vivaci copricapi di piume si stavano avvicinando alla macchina con passo solenne e ancheggiante. Sotto la luce dei lampioni i lineamenti di tutti e quattro erano contratti in quell’espressione di asettica e sprezzante astrazione che è la maschera abituale dei membri delle Quattrocento Famiglie. Mentre ancora erano a qualche metro di distanza, uno chauffeur aprì loro la portiera alzando nel contempo l’altra mano al berretto con visiera.

Jane era corsa giù per la gradinata esterna. Adesso, con crescente stupore, Carr la vide avanzare dritta verso i quattro sussiegosi personaggi, cambiando direzione all’ultimissimo momento: quando Jane passò loro accanto, Carr la vide allungare una mano e buttar giù deliberatamente il cappello a cilindro al più vicino. E quel vecchio sciocco che non l’aveva più in testa continuava per la sua strada come se nulla fosse stato.

La constatazione colpì Carr con tutto l’improvviso impatto d’una bevanda fatata che gli avesse spalancato la strada al paese delle meraviglie. Fu come se il suo spirito gli fosse esploso come una fontana fuori del petto. Là, ai suoi piedi e a quelli di Jane, si stendeva la città, un terreno di gioco, uno zoo, un asilo nido, una congrega di sciocchi che camminavano come oche, timorosi di mostrare una qualche reazione perfino a un’offesa. I loro occhi erano rimasti fissi sulla pubblicità, le mani strette al portafoglio, i loro pensieri che si agitavano stupidamente come adoratori del diavolo intorno al monolito delle inibizioni e delle frustrazioni infantili. Era proprio come Jane aveva detto! Potevate fare qualunque cosa! Nessuno poteva fermarvi! Eravate liberi!

Con un grido sollevò le braccia e di corsa, barcollando, attraversò il marciapiede descrivendo un’ampia curva che lo fece incontrare con Jane, cosicché svoltarono l’angolo mano nella mano.

E adesso non erano più il principe e la principessa ma i figli del mago, gli apprendisti dello stregone che avevano rubato i mantelli dell’invisibilità, membri privilegiati di qualche moderno e magico Club del Fuoco Infernale. Sotto i loro piedi alati i marciapiedi filavano via. Le insegne al neon accarezzavano le loro guance con lampeggiamenti color topazio, rubino e zaffiro. I motori e i clacson delle automobili intonavano una musica melodiosa, che accelerava il ritmo nervoso, adatta agli acrobati che si stavano preparando al loro numero principale.

Attraverso il loro cammino l’atrio d’un teatro stava vomitando un’orda ciarliera di spettatori con le fumanti sigarette in bocca, le mani alzate per chiamare i tassi. Oh, la gioia meravigliosa di passare fra loro in corsa, di spingere quelle spalle incipriate, di aggrovigliare fra loro quasi inestricabilmente i soprabiti tenuti sul braccio, tirando cravatte e scialli sotto il bagliore delle batterie di gialli riflettori, saltando su e sghignazzando come scimmie davanti alle facce d’individui troppo composti o sorpresi per avere il coraggio di far capire che vi avevano visti. Lanciandosi poi con una piroetta fuori dell’area della mischia come esperti giocatori di football americano, percorrendo a lunghi passi mezzo isolato vuoto salvo per il finto cieco accucciato per terra, tempestandolo con una manciata di centesimi, tuffandosi poi in mezzo a una banda di sbandati sbucati fuori da un cinematografo rococò del 1925 (la stessa tana che lui e Jane avevano disertato due sere prima per andare a giocare a scacchi), servendoli nella stessa maniera in cui avevano servito i loro più ricchi e altrettanto imbecilli congeneri in fondo all’isolato.

Poi, con un’esibizione di destrezza tanto spericolata da far rizzare i capelli, giocata sulle frazioni di secondo, lanciarsi dal marciapiede e sfrecciare fra un tassi che veniva avanti a tutta velocità e una berlina verde, facendo le boccacce ai conducenti, e quindi quasi scivolare e stendersi sui luccicanti binari d’un tram che procedeva imbufalito come un rinoceronte, riacquistando l’equilibrio con grande abilità per planare fra i paraurti cromati in movimento delle automobili in arrivo più oltre, raggiungendo infine il marciapiede opposto con le orecchie che vi rimbombavano d’un grande urlo come quello che poteva aver accolto Blondin durante la sua prima traversata delle cascate del Niagara su una fune… per rendervi conto che eravate stati voi a lanciare quell’urlo!

Oh, sibilare all’orecchio d’un grassone dal volto soddisfatto di piccolo borghese arricchito: — La Corte Suprema ha appena dichiarato incostituzionali i serials televisivi! — Urlare a un uomo dall’aria solenne con una camicia da undici dollari: — I democratici hanno rizzato una ghigliottina nel Grant Park! — Dire a una ragazza dai modi affettati e gli occhi assonnati, avvolta in un maglione: — Sono un talent scout, vieni con me. — E a un individuo bene abbigliato, con un’aria di superiorità: — Sondaggio Gallup. Approva la politica di Carlo Magno nei confronti dei Sassoni? — E a un impiegato scansafatiche: — Gli spogliarelli sono tornati di moda. — E a un muratore di passaggio con il suo secchio: — Birra gratis per tutti dietro il banco, chiedi di Clancy. — A un allibratore dalla faccia di pesce: — Ecco, prendi il mio portafoglio. — A un intellettuale allampanato con la valigetta e il passo da stenografo di tribunale: — Guarda il cielo. Una muraglia ribollente di catastrofi atomiche, accese da esperimenti poco giudiziosi fatti dagli svedesi, sta avanzando attraverso il Labrador, lungo la strada del grande cerchio, alla velocità di millesettecentonovantasette miglia all’ora.

E infine, ansanti, i fianchi punzecchiati da una deliziosa mancanza di fiato, lasciarsi cadere sul bordo del marciapiede vicino a un incrocio pieno di traffico, con la schiena appoggiata a un bidone metallico per la spazzatura e ridere, ridere, rantolando, l’uno sul viso dell’altro, piegandosi in due dalle irrefrenabili risate, dopo ogni nuova occhiata alla folla frettolosa su quel grande nastro trasportatore chiamato marciapiede, ogni singolo volto troppo compito o accecato dalla noia per guardarvi, e gli altri volti ugualmente legnosi dietro al volante, nell’interminabile colonna di macchine col suo eterno, sussultante avanzare, fermati e rimettiti in moto e quasi vi schiacciano i piedi nel passarvi accanto grugnendo.

Proprio allora risuonò una sirena della polizia e un grande furgone grigio si arrestò borbottando davanti a loro. Senza esitazione Carr agguantò Jane e la fece sedere sul predellino posteriore poi si arrampicò accanto a lei.

La luce del semaforo cambiò e con un balzo il furgone attraversò l’incrocio. Il gemito della sirena crebbe di volume e si fece acuto quando un cellulare svoltò nella loro strada a un isolato alle loro spalle. Si portò tutto a sinistra, a aggirando un’intera colonna di macchine e sbandando s’infilò in uno spazio dietro di loro. Carr e Jane guardarono negli occhi i due poliziotti dalla mascella arrossata. La ragazza fece loro marameo.

Il cellulare si arrestò con una brusca frenata accanto al marciapiede e parecchi poliziotti si riversarono fuori da esso facendo irruzione in un albergo dall’aria squallida.

— Là non ci troveranno — esclamò Carr sbeffeggiante. — Noi siamo di un’altra classe. — Jane gli strinse la mano.

Il furgone passò sotto il cupo baldacchino d’acciaio della sopraelevata. Il motore ringhiò quando affrontò la salita fino al ponte.

— Ho una chiatta privata sul fiume — dichiarò Carr in tono allegro. — Di poche pretese ma intima. E con un battelliere che è un grande intellettuale. Un gigante fisico e mentale. Ci scorterà fino ai porti dell’Inferno e ritorno e parlerà di filosofia con noi per tutto il tragitto.

— Non stanotte — replicò Jane.

Carr le indicò l’estremità sfasciata della barriera zebrata. — È stato il tuo amico a far questo quando è passato — l’informò amabilmente. — Vorrei che fosse qui con noi. — Guardò Jane. — No, in tutta sincerità non lo voglio — si corresse.

— Neppure io — gli disse lei.

I loro volti erano vicini: fece per stringerla fra le braccia ma un improvviso accesso di spirito animalesco lo indusse invece a piantare il palmo delle mani contro il predellino e ad alzarsi in piedi, agitando le braccia. Ricadde indietro nel furgone quando Jane lo tirò giù. — Non sei diventato infrangibile sai — gli disse lei baciandolo e rimettendosi dritta.

Mentre Carr si agitava per sedersi di nuovo accanto a lei, il furgone discese rapidamente il pendio di mattonelle consunte sull’altro lato del ponte, arrestandosi infine con uno stridio di freni. Un tendone verde e bruno si stendeva fin sopra il bordo del marciapiede. Sopra il tendone, su uno sfondo di antiche finestre dipinte di nero, un’insegna ammiccante in neon azzurro proclamava a caratteri cubitali: Goldie’s Casablanca.

— Siamo noi — dichiarò Carr. Saltò giù e sollevò Jane dal predellino mentre il furgone si rimetteva in moto.

All’interno della massiccia porta di vetro sotto il tendone un individuo alto, in frac, con lo sguardo vuoto da ex allenatore di pugilato, stava protestando sottovoce con un grassone che agitava freneticamente un braccio e che lui teneva inchiodato contro il muro con una mano. Jane e Carr passarono accanto ai due e lui sfoderò parecchi biglietti da un dollaro e li tenne stretti fra l’indice ripiegato e il pollice. Discesero una breve rampa di scale, fecero una curva a gomito e si trovarono nel più rumoroso e affollato night club del mondo.

Il bar, che correva lungo la parete alla loro sinistra, era pieno zeppo per una profondità di almeno tre file di persone. Dietro al banco torreggiavano due uomini in giacca bianca dai volti cavallini. Uno stava allungando la mano dietro di sé per prendere una bottiglia, l’altro stava scuotendo energicamente un argenteo cilindro sopra la testa ma quel tintinnio si perdeva nel chiasso generale. Carr pensò che quell’uomo avrebbe potuto benissimo essere intento a eseguire un rito misterioso in onore delle fanciulle moresche del grande affresco murale dietro le sue spalle.

Quelle flessuose figure da harem suggerivano El Greco, ma qualcuno, senza dubbio Goldie, aveva incollato alcune fotografie più grandi del naturale con le effigi di popolari stelle del cinema sopra le teste di quelle figure dai vividi colori. L’effetto era strabiliante.

Tavoli gremiti senza che fra essi si riuscisse a distinguere un passaggio, si stendevano dai piedi della scala fino al bordo d’una piccola pista da ballo leggermente sopraelevata sulla quale, come una sorta di densa zuppa di vegetali rimescolata dal più pigro cuoco della creazione, una compatta massa di coppie abbracciate girava in lente curve.

La musica che accompagnava quell’elefantesco esercizio impercettibile quasi quanto il tintinnio dello shaker per i cocktail, giungeva da qualche parte dietro una falange di spalle nere o nude, alternativamente rivolte verso l’estremità della parete alla loro destra.

Tutti, perfino i ballerini, sembravano parlare quanto più in fretta possibile per farsi uscire le parole di bocca con tutta la forza concessa dai polmoni annebbiati dal tabacco.

Due coppie vennero dritte verso Carr. Lui le scansò con una rotazione improvvisa, urtando un cameriere che stava aggirando l’estremità del banco del bar con un vassoio di cocktail. Il cameriere riuscì a non perdere l’equilibrio mentre gli altri passavano e insieme una nota esplosiva si levava sopra la falange, seguita da un veemente applauso, mentre la gente cominciava a battere i piedi sul tappeto; Carr sostituì due bicchieri di cocktail con due biglietti da un dollaro, mentre il cameriere proseguiva e un’altra coppia s’interponeva fra loro. Reggendo con destrezza i due cocktail con una mano, Carr si rivolse a Jane. Ma lei l’aveva già lasciato e stava avanzando lentamente in mezzo alla calca a qualche tavolo di distanza. Più oltre c’era una porta molto frequentata con la scritta “Cani da ferma” accanto a un altra, ugualmente frequentata, che diceva: “Cani da punta”. Carr sogghignò, si appoggiò a una parete, chiuse gli occhi, mandò giù uno dei cocktail, s’infilò in tasca il bicchiere vuoto e sorseggiò lentamente l’altro.

Quando riaprì gli occhi, i ballerini erano tutti spremuti dentro nicchie e anfratti intorno ai tavoli, fino a quel momento impercettibili nella calca. La falange, disperdendosi, aveva rivelato un uomo volgarmente grasso la cui pancia premeva contro la tastiera d’un minuscolo pianoforte color crema. Un individuo basso dall’aspetto scimmiesco, con lo sparato d’un bianco abbacinante (di sicuro Goldie, finalmente) era in piedi sul bordo della pista da ballo vuota e stava proclamando con una voce alta e rauca la cui totale mancanza d’un genuino entusiasmo avrebbe potuto benissimo suonare a critica ingenerosa: — E adesso, un grosso e bell’applauso alla pollastrella!

Gli zelanti pestatappeti si misero di nuovo al lavoro. Goldie, scendendo dalla piattaforma, li gratificò d’un gelido sorriso di scherno. Le mani del grassone cominciarono a scorrere su e giù lungo la tastiera come due grossi sorci bianchi. E una bionda con addosso un succinto abitino nero salì sulla pista da ballo. Stringeva in una mano qualcosa che avrebbe potuto essere un logoro manicotto.

Ma proprio mentre l’applauso esplodeva, la maggior parte delle persone ai tavoli ripresero a parlottare fra loro.

Carr rabbrividì. Ecco, pensò all’improvviso: il palcoscenico vuoto, il pubblico che non ascolta, il rituale meccanico. Il baccanale ridotto a una festa sbronzatola precalcolata e motivata dal profitto sotto la direzione di un Pan ormai rammollito che da duemila anni faceva la sua replica. L’orribile ritmo d’un progresso senza nessuno scopo. Riusciva quella gente a vedere o a udire? Ad assaporare, a toccare? Traevano almeno un brivido di piacere dalla loro sbronza? Oh, in quali sterili vicoli ciechi la frusta del desiderio di bellezza ha condotto lo spirito quasi morto, se non già morto del tutto, dell’uomo!

La bionda sollevò il braccio e il manicotto si dispiegò mostrando una piccola faccia di legno dipinto che, coprendo la mano della donna a guisa di berretto e rendendola così invisibile, era allo stesso tempo sciocca, spaventata e libidinosa. Due mani in miniatura sbattevano accanto a essa. La bionda cominciò a mugolare al ritmo della musica.

Continuando a gingillarsi con il pianoforte, il grassone lanciò tutt’intorno una rapida occhiata. Con una sorta di rapido cinguettio, quasi una sciocca risatina, confidò al suo pubblico: — E adesso ascolterete la triste storia di quella sfortunatissima creatura, Peter Pupazzo.

Carr terminò il suo secondo drink con una singola sorsata e si guardò intorno cercando Jane, ma non riuscì a vederla.

— Peter era un pupazzo perfetto — intonò con voce discorsiva il grassone, accompagnandosi con un’adeguata cascata di note. Carr si sporse in avanti, corrugando la fronte. Era difficile ascoltare con tutto quel chiacchierio intorno. — Sì, Peter era il miglior Pinocchio di tutti. Era stato scolpito da un pezzo di legno per assomigliare a un essere umano in ogni più minuscolo dettaglio, oh, proprio in ogni più minuscolo dettaglio. Peter aveva tutto quello che ha un uomo… e l’aveva di legno!

Il pupazzo lanciò un’occhiata languida alla bionda. Lei l’ignorò e cominciò ad accennare a un languido passo di danza.

Il grassone si girò verso i tavoli sbattendo le ciglia. — Ma aveva un difetto! — disse quasi strillando. — Voleva essere vivo! — Poi riprendendo il suo pigro cinguettio: — Sì, il nostro Peter voleva essere un uomo. Voleva fare tutto quello che fa un uomo. Voleva fare perfino quelle cose che mai e poi mai pensereste che possano venir fatte da un gentiluomo… e con le sue parti di legno!

Qualche fragorosa risata si levò qua e là tra il cicaleccio generale. Le mani del grassone sfrecciarono velenose lungo la tastiera, destando sognanti toni pastorali. — Poi, in una splendida giornata di primavera, mentre Peter stava vagando attraverso i prati desiderando essere un uomo, gli capitò di vedere una bellissima, semplicemente incredibile, stupenda bionda. Peter rimase scosso giù giù fino al suo nocciolo di legno. Sentì un gonfiore nel suo piccolo e legnoso… — il grassone rivolse un rapido sorriso complice al suo pubblico — …cuore.

Battendo le mani in tutti i modi possibili e immaginabili e spalancando speranzosamente la bocca, il pupazzo stava facendo una corte spietata alla bionda. Lei chiuse gli occhi, sorrise, scosse la testa e continuò a mugolare.

Carr osservò Jane che si stava facendo strada fra i tavoli. Ma si stava allontanando da lui. Cercò di attirare il suo sguardo.

— …e così Peter decise di seguire la bionda fino a casa. — Il grassone produsse l’imitazione d’un rumore di passi con l’ottava superiore. — Pink-pink-pink… fecero i suoi piedini di legno… pink-pink-pink.

Jane raggiunse la piattaforma e, con vivo stupore di Carr, vi salì. Carr accennò a farsi avanti, ma i tavoli gremiti lo ostacolarono.

Inoltre, contrariamente a quanto si aspettava, nessuno pareva incline a badare a Jane. Goldie non era visibile da nessuna parte, il pubblico rumoreggiante non mostrava di essersene accorto, e il grassone e la bionda, a quanto pareva, avevano deciso d’ignorarla almeno per il momento.

La bionda faceva compiere al pupazzo alcuni movimenti trotterellanti, e il grassone stava dicendo: — Peter scoprì che la bionda viveva proprio accanto a una fabbrica di mobili. Peter non amava affatto le fabbriche di mobili poiché una volta aveva evitato per un soffio di diventare parte d’un tavolo stile Sheraton. Lo stridio delle seghe e il picchiare dei martelli… — Eseguì dei trilli acuti e un ritmico pestare d’incudini — …terrorizzavano Peter. Gli pareva che ogni singolo chiodo venisse conficcato dritto nel suo plesso solare di legno, che la sega ululante stesse tagliando via spietatamente le sue piccole preziose parti di legno!

Jane adesso era in piedi accanto alla bionda. Carr riuscì finalmente ad attirare la sua attenzione. Gli parve di leggere sul volto di lei il suo stesso miscuglio di pietà e di ripugnanza per quell’orda rumorosa e senza cervello cieca davanti alla bellezza.

Le fece cenno di venire giù, ma lei si limitò a sorridere. Lentamente slacciò i bottoni dorati del cappotto e lo lasciò cadere sul pavimento.

— Finalmente, vinto il suo terrore, Peter passò di corsa davanti alla fabbrica di mobili e sfrecciò su per il vialetto fino alla casa della bionda… pink-pink-pink-pink!

Con freddi e meccanici movimenti Jane aveva cominciato a sbottonarsi la camicetta bianca.

Arrossendo, Carr cercò di spingersi in avanti facendo nel contempo cenni disperati. Lei non gli badò per niente. Fece per urlarle qualcosa, ma proprio allora si rese conto d’un fatto stranissimo, e la constatazione lo lasciò senza parole.

La folla non reagiva. Chiacchieravano come prima.

Erano ciechi. Erano senza cervello. Non potevano entrare in contatto con niente che fosse al di fuori del loro ritmo meccanico.

Ma era ridicolo.

E che Jane fosse in realtà una ballerina di strip-tease che lavorava al Goldie’s Casablanca… anche questo era ridicolo. O che dovesse essere talmente ubriaca da…

— Peter seguì la bionda su per le scale… trip-trip-trip… e dentro la sua camera da letto. Sentì la linfa scorrergli come impazzita su per le gambe e dentro il suo piccolo legnoso… pancino.

Jane lasciò cadere la camicetta. Rimase solamente in gonna e sottoveste.

Carr si sollevò, premendo un ginocchio contro il tavolo davanti a lui, ondeggiando, la mano sollevata come un vigile ubriaco addetto al traffico che stesse ordinando al mondo intero di fermarsi.

— Poi, con la gola secca come segatura a causa dell’eccitazione, Peter saltò nel letto con la bionda! — Le mani grassocce corsero su e giù per la tastiera, traendone accordi laceranti. — E la bionda guardò Peter e gli disse: “E adesso, omettino di legno?”.

Jane guardò Carr e abbassò le spalline, lasciando cadere la sottoveste.

Carr deglutì. Le lacrime gli bruciavano gli occhi. Il seno di Jane pareva molto più bello di quanto la carne avrebbe dovuto essere.

Ma anche adesso non vi fu nessuna reazione da parte della folla, ma soltanto il fantasma di essa.

Gli improvvisi silenzi, alle feste, sono cosa comune. Prima, tutti parlano. Poi, d’un tratto, le conversazioni si fermano. Vi guardate intorno scioccamente. Pensate vagamente, a seconda della vostra predisposizione mentale, alla matematica delle coincidenze, o a uno spirito invisibile passato di là in quell’istante, oppure a qualche stimolo chimico o fisico come a esempio un debole odore o uno strano suono percepiti a stento, capaci di aver effetto su chiunque ma troppo tenui per essere registrati con chiarezza dalla coscienza di tutti.

Poi, qualcuno scoppia a ridere, e tutti vi rimettete a parlare come prima.

Un attimo di silenzio di quel tipo era piombato sul Goldie’s Casablanca. Perfino le disinvolte frasi del grassone parvero ammosciarsi e sbiadire, come il disco d’un fonografo giunto alla fine. Le sue mani grassocce rallentarono, rimasero come sospese fra un accordo e l’altro. Mentre i gesti e le espressioni pietrificate della gente seduta ai tavoli indicavano tutti parole cristallizzate sul punto di venir pronunciate. E parve a Carr, mentre fissava Jane, che teste e occhi si voltassero verso la piattaforma, ma con estrema lentezza e difficoltà, come se tutta quella gente stesse sognando e si fosse svegliata soltanto a metà dai suoi sogni, oppure come se, morti, provassero un fievole, quasi doloroso incresparsi di vita. Parevano vedere e allo stesso tempo non vedere il seno nudo di Jane, cominciando a dimenticarsene nello stesso istante in cui ne erano diventati consapevoli.

E malgrado sapesse che era ridicolo e che la sua mente era annebbiata dall’alcol, Carr sentì che Jane si stava mostrando a lui soltanto, e che quel pubblico inebetito era soltanto bestiame che si girava a guardare verso una sorta di richiamo provando un breve e pigro barlume di consapevolezza per riprendere subito dopo il loro ruminare e quell’esistenza interiore priva di parole.

Poi tutt’a un tratto la folla ripiombò nel cicaleccio di prima, il grassone a cinguettare ed esibire gli assalti di un pupazzo follemente innamorato mentre Jane correva fra i tavoli, le braccia strette contro i fianchi per sorreggere la sottoveste, il cappotto e la camicetta penzolanti da una mano. Mentre gli si avvicinava, parve a Carr che ogni altra cosa si fondesse in lei, diventando indefinita e non importante.

Non appena ebbe spremuto il corpo per superare la barriera dell’ultimo tavolo, Carr le afferrò la mano. Non dissero niente. Se ne occuparono i loro occhi. Carr l’aiutò ad infilarsi il cappotto. Mentre correvano su per la scala e uscivano dalla porta a vetri, sentirono spegnersi in distanza la recita del grassone, come lo sbuffare d’un motore nero e unto. — E cosa credete che la piccola Alice abbia trovato, quando è salita nella stanza dei bambini? Il suo pupazzo Peter e la bambola francese Riccioli d’Oro in una posizione molto, molto compromettente, oh, sì, molto…

L’appartamento di Carr distava cinque isolati. Le strade erano vuote. Una gelida brezza proveniente dal lago aveva soffiato via il fumo dal cielo e le stelle luccicavano fino in fondo alle trincee formate dagli edifici. L’oscurità che si appiccicava alle pareti di mattoni e assediava i lampioni parve a Carr un composto di eccitazione, di terrore e di desiderio, in un miscuglio che sfidava ogni analisi. Lui e Jane proseguirono di corsa, tenendosi per mano. L’atrio era buio. Carr entrò senza far rumore e salirono le scale in punta di piedi. Giunti nella sua stanza, abbassò le tapparelle e accese la luce. Una Jane offuscata era in piedi accanto alla porta, intenta a togliersi il soprabito. Per un attimo Carr ebbe paura di aver bevuto troppo. Si affrettò verso di lei. Poi Jane gli sorrise, la sua immagine si schiarì e lui capì di non essere troppo ubriaco. Si mise quasi a piangere quando le strinse le braccia al collo.

Com’era strana la cosa. Ciò che lei aveva fatto al Goldie’s Casablanca non era stato esibirsi, ma nascondersi da loro. Aveva assunto una colorazione protettiva. Carr si sentiva sicuro che Jane si era rivelata veramente a lui e a lui soltanto. Ed era questa rivelazione che adesso lo stuzzicava, lo provocava.

Sì era tolta il soprabito e la camicetta. D’un tratto, quasi con innocenza, anche la sottoveste, ultima barriera fra loro, cadde. Quella era la vera Jane. La Jane tentatrice. Deliziosa, rosa con le sue piccole mammelle dai grossi capezzoli, le grandi areole, e avorio nell’area rasata del suo triangolo di Venere. Assaporò prima con le mani quella palpitante carne curvilinea, poi con le labbra avide. Man mano che il desiderio sprizzava caldo dentro di lui, in risposta cresceva anche in lei. Jane gli cedette completamente una liscia porzione di lei dopo l’altra (davvero così liscia!), eppure non fu soltanto un cedere ma anche un prendere. Abbeverandosi a lui come lui si abbeverava a lei. Dapprima con lentezza, sensualmente. Poi con velocità sempre crescente, fino a quando il loro fu il rapido e bruciante palpito dell’apice amoroso, culminante in un’estasi cocente al di là di qualunque cosa avessero entrambi provato finora… per poi diminuire, diminuire proprio come l’onda crestata di schiuma s’infrange e diminuisce, soltanto per rinnovarsi e levarsi in un nuovo picco di beatitudine.


Quando si svegliò, Carr si trovò a constatare di non essersi mai sentito più deliziosamente sobrio durante tutta la sua vita, pur concedendo che la realtà avrebbe potuto cambiare un po’ se avesse fatto un movimento improvviso. Dal punto in cui si trovava poteva vedere Jane allo specchio. Si era buttata addosso una vestaglia e stava preparando un cocktail per loro. Un rubinetto gorgogliò per un attimo. Poi lei tornò indietro e lui si girò, sollevandosi su un gomito.

— Ecco — gli disse lei, porgendogli un bicchiere.

Carr rise. — Non sono sicuro dell’effetto che avrà su di me. La mia mente è in una situazione delicata.

— Solo un pochino — lo sollecitò lei. — Alla nostra salute.

— Alla nostra salute. — Fecero tintinnare i bicchieri. Seguendo l’esempio di Jane, lui vuotò il suo. Jane si sedette sul letto e lo guardò.

— Ciao tesoro — le disse lui.

— Ciao.

— Ti senti bene?

— Meravigliosamente.

— Non c’è niente che ti preoccupa?

— Certamente no. Cosa te lo fa chiedere?

— Non so. Mi sembri triste, in un certo senso.

Lei sorrise dolcemente. — Non è forse giusto che l’amore ti rattristi?

— Suppongo di sì, in un certo senso.

— Ti rende triste perché quando hai amato sei vuoto e la tua guardia è abbassata. E sei un po’ spaventato perché proprio là, davanti a te, c’è colui che ami, così tenero e così facilmente vulnerabile… perché anche la sua guardia è abbassata.

— Ma poi la gioia dovrebbe seguire alla tristezza, prima ancora di aver la possibilità di ricominciare. — Le toccò il braccio, le tirò con delicatezza la vestaglia, ma lei continuò a sorridergli e dopo un po’ lui tolse la mano.

— Sei sicura di non essere preoccupata di niente? — le chiese lui.

— Oh tesoro — e parve a Carr che le lacrime le affiorassero negli occhi facendoli luccicare — questa è la notte più felice della mia vita. Qualunque cosa accada, voglio che tu sappia che ti amo… ti amo nel modo più completo e assoluto.

Lui si sollevò a metà. — Non succederà niente.

— Certo che no. Ma volevo che tu lo sapessi.

— Oh sicuro. — Si sollevò ancora di più così da guardarla. — Ma adesso che hai parlato di ciò che ci accadrà, io… noi…

La sua voce ebbe un tremito, incerta. Gli parve che una nebbia scura avesse invaso la stanza. Si sfregò gli occhi. Quando scostò la mano, la stanza ondeggiava.

— Non sapevo di essere così ubriaco — mormorò. — Non avrei mai creduto che un solo bicchierino in più…

Gettò una rapida occhiata a Jane. Non si era mossa. Pareva ancora sorridere, con molta tenerezza, quasi con pietà. Girò la testa, stranamente pesante, verso il comodino accanto al letto. Con uno sforzo mise a fuoco la confusa chiazza marrone. La superficie del comodino era vuota.

— Le polverine! — disse ed ebbe difficoltà ad articolare le parole. — Le hai sciolte nel mio bicchiere?

Lei non rispose.

— Maledizione a te — farfugliò spingendosi verso l’immagine indistinta di lei. — Devi…

Sentì le mani di Jane sulle spalle che lo spingevano indietro.

— Starai bene. Hai soltanto bisogno di un po’ di sonno. — La sua voce pareva provenire dal soffitto. Cercò di lottare contro di lei, ma non riuscì neppure a sollevare le mani. L’oscurità stava guadagnando rapidamente terreno.

— No, non starò bene — protestò. — Jane… per favore…

— Soltanto un po’ di riposo.

— Non mi dimenticherò di te — gracidò infelice. — Non mi dimen… non…

Jane si era chinata su di lui. Per qualche istante la sua visione si schiarì e scorse il suo volto rigato di lacrime, e il suo collo bianco, la vestaglia aperta e il suo seno. Poi l’oscurità si strinse intorno a lei e si chiuse come il diaframma di una macchina fotografica.

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