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Mentre Carr si protendeva a baciarla, Marcia arretrò, con un movimentò flessuoso, sottraendosi alle mani che le aveva appoggiato alle spalle e gli ispezionò il viso.

— Hai un bell’aspetto — gli disse. — Su, prepàraci qualcosa da bere mentre m’infilo un vestito.

Si allontanò un po’ rigida, chiudendosi alle spalle la porta della camera da letto. Carr trovò in cucina una bottiglia di rye. Prima d’ogni altra cosa, ingollò subito un bicchierino. Quella piccola esperienza l’aveva scosso. Era stato come quel momento della sua infanzia, quando tutto gli era parso stranamente vivido ma allo stesso tempo irreale. Soltanto che… adesso era stato peggio. Gesso su una lavagna nera. L’impressione di trovarsi fuori e di osservare attraverso una finestra gli adulti che leggevano i giornali in un soggiorno, di notte.

Mise un contenitore di ghiaccio nel lavello per staccare i cubetti, rintracciò il ginger ale per sé. Marcia, naturalmente, avrebbe aggiunto acqua, ma non troppa.

Aveva pensato di parlarle dell’esperienza da lui vissuta in termini scherzosi. Ripensandoci, decise di non farlo. Per lo meno non subito. Talvolta Marcia non era interessata alle faccende soggettive. Lo era di più in quelle pratiche. La gente, i soldi, le ultime novità… cose del genere insomma. Posti di lavoro.

Carr corrugò la fronte, infelice, ricordando la sua telefonata.

Impiegò un sacco di tempo a preparare i drink, ma la porta della camera da letto era ancora chiusa quando li portò fuori. Si sedette reggendoli in mano senza assaggiare il suo! Era un po’ come aspettare nell’anticamera d’un ufficio.

Quando Marcia entrò, balzò in piedi sorridendo. — Senti, andiamo alla festa dei Pendleton venerdì? Dovrebbe essere interessante.

Marcia annuì. — Sì. Ed è là che incontrerai Keaton Fisher.

Carr cercò di non sentire quella frase.

Marcia assaggiò il suo drink. Si era infilata uno slip nero, ma niente reggiseno.

— Va tutto bene? — le chiese lui.

— Certo — rispose Marcia. — Carr quest’idea di Keaton…

— Senti Marcia — cominciò a spostarsi così da venirsi a trovare in piedi davanti a lei — questo pomeriggio mi è capitata la cosa più strana della mia vita.

— …è straordinaria — concluse Marcia.

Carr rinunciò. — Be’, di che cosa si tratta esattamente? — chiese, accennando a sedersi accanto a lei. Ma Marcia si girò verso di lui cosicché dovette prender posto all’altra estremità del divano, mantenendo tra loro una distanza da discussione d’affari.

— Tanto per cominciare, tutto questo è confidenziale — cominciò lei. — Keaton mi ha chiesto di non dirlo a nessuno. Dovrai fingere di sentirlo da lui di prima mano venerdì sera. — Fece una pausa. — È un servizio di consulenza editoriale.

— Cosa sarebbe?

— Si prendono contatti con riviste d’ogni genere, quotidiani, giornali specializzati e così via, che siano in cattive acque, si analizzano le loro difficoltà, si conducono indagini sui lettori e sugli inserzionisti, si rimodella la loro politica e si modernizzano i metodi, gli si iniettano nuove idee… in breve, gli si vendono i consigli che li rimetteranno in piedi.

Carr cercò di dar l’impressione di rifletterci su profondamente. Marcia continuò senza fermarsi: — Keaton ha preparato i suoi piani. Li ha elaborati con molta cura. Ha individuato alcuni potenziali primi clienti: pubblicazioni mal gestite che, è convinto, sarà facile migliorare. In questo modo ti farai una reputazione fin dall’inizio. Una volta che la vendita di quelle prime pubblicazioni comincerà a salire vedrai come cominceranno a fioccare le richieste di sempre nuovi clienti! Anche se dovrai perderci un po’ di soldi per riuscirci, ne sarà valsa la pena.

Carr corrugò la fronte. — Non so — disse scandendo le parole. — Chi pubblica riviste e giornali ha le proprie idee. Non ripongono molta fiducia nel giudizio degli estranei.

Marcia sorrise con un’ombra di compatimento appena accennata. — La maggior parte dei direttori sanno che non possono avere una redazione all’altezza di Life o del Post, semplicemente perché non sono in grado di pagare la somma necessaria. Ma possono avere un servizio di consulenza editoriale altrettanto buono, poiché dozzine di altri editori contribuiranno a sostenere le spese.

Carr scrollò le spalle. — Se fossimo così in gamba come Life o il Post, perché non dovremmo lanciare una rivista tutta nostra?

Questa volta Marcia non sorrise, anche se questa volta l’accenno al compatimento era, se possibile, ancora più marcato. — Di nuovo obiezioni. Sempre obiezioni. Adesso mi dirai che i tuoi interessi non vanno in quella direzione. O che non è il momento giusto per tentare nuove imprese.

— Oh — replicò lui — posso capire come tutto questo vada bene per Keaton Fisher. Ma io dove entro in scena?

— È ovvio. Keaton non sa maneggiare la gente mentre tu sei un esperto. Non si tratterà d’un servizio puramente editoriale. Tu ti occuperai anche di rimodellare le abitudini dell’ufficio e del personale redazionale.

— Capisco — annuì Carr lentamente. — Be’, devo rifletterci. Ehi, che ne diresti di un altro drink?

Marcia tirò indietro il suo bicchiere.

— Ma cosa c’è di male se voglio rifletterci? Non lo vedrò fino a venerdì, hai detto.

— Cosa c’è che non va? — Marcia si rizzò sul divano. — Semplicemente, non è affatto questione di rifletterci. Non vorrai paragonare il tuo attuale lavoro con la proposta di Keaton.

Carr le lanciò una rapida occhiata, poi guardò altrove. — Insomma, Marcia, non è che mi piaccia molto l’idea di questo servizio di consulenza.

Marcia gli sorrise quasi per incoraggiarlo. — No?

Carr si succhiò il labbro. — Oh, sembra ancora troppo impastato del vecchio raggiro. La vecchia storia di tagliare su misura le parole, tagliarle di nuovo, rattopparle, pulirle e stirarle, farle passare attraverso il setaccio più e più volte. Troppo indiretto. Non saremmo neppure noi a curare la materia prima. Cureremmo i redattori, gli venderemmo il loro stesso prodotto. — Si affrettò a proseguire: — No, se devo lasciare l’Agenzia Generale di Collocamento, voglio che questo avvenga per qualcosa di più legittimo, di più creativo.

Marcia si lasciò andare contro lo schienale. Carr non riuscì a ricordare un altro momento in cui gli fosse parsa così gelida e padrona di se stessa. Eppure sapeva che Marcia in realtà si stava esibendo, tentandolo in maniera deliberata.

— Bene — gli disse lei. — Perché non lo fai?

— Che cosa?

— Qualcosa di creativo. Eri un buon attore all’università, almeno così mi hai detto. Naturalmente potrebbe essere un po’ tardi per questo, anche se non si può mai dire. Ma c’è sempre la possibilità di scrivere, di dipingere: modi di ogni genere per esibire la tua personalità davanti al mondo.

— Oh Marcia! — Per un attimo, perse quasi il controllo di sé. Poi, con uno sforzo, soffocò la calda voracità che lo tormentava.

— Senti, Marcia: la cosa importante è che ci piacciamo e che ce la passiamo bene insieme. È tutto quello che conta veramente, no? — Si accostò di più a lei, osservò l’alzarsi e l’abbassarsi del suo seno mentre respirava.

Marcia non reagì.

— Non lo è? — chiese Carr un istante dopo. — Senti, Marcia: mi piacciono più d’ogni altra cosa i momenti che passiamo insieme. Le feste, gli spettacoli, lo yacht club, tutto. I tuoi amici sono meravigliosi. I Pendleton e i Mandeville sono gente splendida. Domenica scorsa sul lago è stato magnifico. C’era una sorta di fascino in ogni momento, come c’è sempre quando ci sei tu. — Fece scivolare la mano lungo la sommità del divano, dietro le sue spalle. — È divertente, non capisci? Il miglior divertimento al mondo.

— Non si può partecipare ai piaceri di gente come i Pendleton e i Mandeville senza affiancarsi anche alle loro imprese. A lungo andare non puoi dominare le dolcezze della vita senza dominare anche la gente e gli eventi.

— Perché no? — chiese lui con simulata leggerezza. — Dopotutto, pago con i miei soldi.

— Come una comparsa, sì — ammise lei senza rancore. Carr le era giunto abbastanza vicino da sentire il profumo dei suoi capelli. — Ma questa non è affatto la stessa cosa. Non vedi che devi arrivare ai soldi, quelli veri? Diamine, con tutte le tue capacità…

— No, non lo vedo — replicò lui. — Tutto quello che riesco a vedere sei tu. E ti amo troppo. — Sorridendo la strinse rapidamente fra le braccia e l’attirò a sé. Lei non resistette; si limitò ad assottigliare le labbra e a guardarlo dritto negli occhi. — No — disse — no.

— Per favore, piccola!

Carr l’agguantò. Con avida durezza le accarezzò la pelle rosea. I baci si abbatterono roventi sulla sua gola, le spalle. Sentì la morbidezza serica della sua pelle, le sue curve dolci e cedevoli che gli riempivano il palmo delle mani…

Ma Marcia si tirò indietro di scatto e si alzò in piedi con un unico movimento. Un po’ del suo drink si rovesciò sul divano, formando una piccola pozzanghera.

— È questo allora — disse lui. — Mi tenti. Mi incanti. Pensi che, se ti desidero tanto, tu potrai controllarmi… che farò tutto quello che mi dici.

— E se dovessi farlo per mettere un po’ d’acciaio nella tua spina dorsale? — ribatté lei. — Perché non dovrei farlo?

Carr pensò che mai, prima di quel momento, Marcia gli era parsa così regale e desiderabile. Allo stesso tempo vide, come in un lampo fulmineo, come sarebbe passata la serata da quell’istante in avanti. Prima lui le avrebbe chiesto perdono. Poi, per farle piacere, avrebbe finto di provare un grande interesse per il servizio di consulenza editoriale di Keaton Fisher. Man mano che la serata fosse trascorsa, con i drink e il luccichio ipnotico del ristorante e del night club, avrebbe cominciato a provare un vero interesse. E lei sarebbe diventata amorosamente calda e desiderabile quando l’avesse riaccompagnata a casa, e l’avrebbe lasciato entrare concedendogli la sua piccola ricompensa per aver ballato alla sua musica.

Come una marionetta. Come una dannata marionetta appesa ai suoi fili. Be’, per una volta non l’avrebbe fatto. Per una volta avrebbe rotto lo schema, non importava quanto gli sarebbe costato. C’erano altri posti in cui poteva andare quella sera. Lei non era tutta la sua vita, non proprio.

Era arretrato a un paio di passi da lei. Marcia terminò il suo drink e disse, sorridendo. — Vado a prendere la mia borsa.

La guardò avviarsi verso la camera da letto. Deglutì a fatica. Sì, c’erano altri posti. Doveva dimostrarlo.

Quando Marcia fu scomparsa alla sua vista, Carr si girò in fretta e — la porta era ancora socchiusa — uscì rapidamente e in silenzio dalla stanza, avviandosi lungo il corridoio.

Sì, continuò a dirsi, altri posti.

A pochi passi dall’ascensore, aprì la porta che dava sulle scale. Scese in fretta la grigia spirale quadrata. Sempre più in fretta, più in fretta…

Divenne conscio che una sensazione di libertà, perfino di eccitazione, sovrastava quel suo stato d’animo di dolorosa disperazione giacché aveva appena capito qual era l’altro posto. Aveva appena afferrato il significato di una frase che aveva letto senza capirla un’ora prima: “…la coda del leone vicino alle cinque sorelle…”.


Poca gente passeggia sul lato est del Michigan Boulevard dopo il tramonto. In quei momenti l’Istituto d’Arte sembra morto del tutto, con i fari delle auto e i bagliori colorati dell’altro lato, quello indaffarato, che si rincorrono sulle pietre scure come le torce di tanti archeologi. I due maestosi leoni di bronzo potrebbero benissimo custodire i portali di quel monumento dell’antichità romana. Altri si chiedono, però, se lo scultore Keynes non avesse già previsto che la coda del leone più a meridione, adeguatamente orizzontale, sarebbe stata mantenuta lucida dal casuale appoggiarsi dei gomiti degli studenti d’arte e degli oziosi, e adesso da quelli della ragazza spaventata.

La ragazza seguì con lo sguardo Carr che saliva i gradini, senza la minima reazione che mostrasse d’averlo riconosciuto. Lui avrebbe potuto far parte d’un sogno che stava facendo. Un vento terribilmente gelido stava soffiando dal lago e la ragazza si era abbottonata il giubbetto fino al collo. Ora non pareva spaventata ma molto sola, come se non avesse nessun posto al mondo dove andare e stesse aspettando qualcuno che non sarebbe mai arrivato. Carr si fermò a una mezza dozzina di passi di distanza.

Lei sorrise e lo salutò. — Salve.

Carr le si avvicinò. Le prime parole che gli uscirono di bocca lo colsero di sorpresa: — Ho incontrato il vostro ometto scuro con gli occhiali. È scappato via.

— Sì? — esclamò la ragazza. — Mi spiace. È davvero vostro amico… potenzialmente. Ma è un tipo estremamente sensibile, indefinibile. Avrebbe dovuto incontrarmi qui… — Gettò un’occhiata verso un pannello su cui cifre digitalizzate indicavano l’ora per attirare l’attenzione su una gigantesca bottiglia di birra.

— Ha paura di me? — chiese Carr.

La ragazza scrollò le spalle. I fari di un’automobile di passaggio si rifletterono per un attimo nei suoi occhi grigi, con una sciabolata di luce. In quel momento gli parvero enigmatici come quelli di una sfinge. — Avevo la vaga idea di presentarvi — aggiunse. — Ma adesso non ne sono più così sicura. Su nessuno di noi… — Abbassò la voce. Il vento le soffiò alcuni capelli, che le ricadevano fino alle spalle, contro la guancia. — Non avevo mai veramente creduto che sareste venuto. Lasciare dei biglietti come ho fatto con voi è soltanto un modo stupido, da parte mia, di tentare il destino. Voi non avreste dovuto esser costretto a indovinare. Come avete fatto a sapere che era il leone meridionale? Non credo che abbiate lanciato una sola occhiata a quello settentrionale.

Carr scoppiò a ridere. — La Fontana dei Grandi Laghi di Taft è una mia ossessione. Cerco sempre di capire, dal modo in cui le vasche sorrette dalle cinque sorelle si riversano le une sulle altre, quale lago corrisponda a ogni singola sorella. E naturalmente la fontana è più vicina al leone meridionale.

— Siete venuto fin qui a piedi? — chiese la ragazza.

— Sì. E adesso ho una domanda da farvi. Chi sono quelle persone dalle quali mi avete detto di stare in guardia? Quella bionda prosperosa, ad esempio. Perché avete permesso che vi schiaffeggiasse senza reagire? Che razza di ascendente ha su di voi?

— Non voglio parlare di loro. — La sua voce suonò priva d’emozioni, piatta. — È qualcosa di orribilmente osceno e non voglio pensarci.

— Stanno dando la caccia anche all’ometto scuro con gli occhiali?

— Ho detto che non voglio parlarne. È qualcosa per cui voi non potete far niente. Se insisterete a parlarne, allora non voglio più restare con voi.

Carr aspettò, in silenzio. Una raffica più gelida delle altre investì i gradini e la ragazza si strinse ancor più le braccia intorno al corpo.

— D’accordo — acconsentì Carr. — Che ne direste se andassimo a bere un bicchierino da qualche parte?

— Se mi lascerete scegliere il posto.

Queste ultime parole gli fecero pensare a Marcia. Si affrettò a prendere a braccetto la ragazza e le disse: — Guidatemi voi.

Mentre scendevano i gradini lui le chiese: — Come vi chiamate?

— Jane.

— Jane che cosa?

La ragazza scosse la testa.

— Il mio nome è Carry con due erre.

Erano a un mezzo isolato dall’Istituto d’Arte quando Carr le chiese: — E il vostro amico?

— Non credo che ci siano molte possibilità che arrivi, ormai.

Proseguirono verso nord. Il vento, il buio e l’ampio marciapiede vuoto parevano strani e desolati, così vicini al boulevard con le sue automobili rombanti e la sua frangia di gente e luci sull’altro lato.

Il braccio di Jane accentuò un poco la sua stretta su quello di Carr. — Questo sì che è divertente — disse. — Voglio dire… avere un appuntamento.

— Non pensavo che avreste avuto dei problemi — lui replicò.

Erano sul lato opposto rispetto alla Biblioteca Pubblica. Jane gli fece attraversare il boulevard. Parve a Carr che quel senso di desolazione li avesse seguiti perché mentre passavano davanti alla massiccia facciata scura della biblioteca incontrarono soltanto due persone: un ragazzo che veniva avanti di corsa, cupo in volto, e un vecchio dal berretto a scacchi e un logoro soprabito che strascicava i piedi.

Socchiusero le palpebre per proteggersi dal pulviscolo soffiato dal vento. Un foglio di giornale sbatté sui loro volti. Carr lo strappò via e il foglio venne risucchiato in alto dal vento. Si guardarono e scoppiarono a ridere. Carr le afferrò una mano e fece per attraversare la trasversale successiva che passava sotto la sopraelevata.

Sentì un violento strattone e Jane che gridava: — Attento!

Carr balzò fuori dalla traiettoria di un’automobile scura che si stava precipitando veloce verso di lui a fari spenti.

— Dovreste stare più attento — commentò la ragazza. — Non possono vederci, sapete.

— È vero — disse Carr. — Qui la strada è terribilmente buia.

Camminarono per un breve tratto. All’improvviso Jane svoltò in un vicolo acciottolato sul quale si aprivano numerose uscite antincendio. Qualche passo ancora, e Carr fu sorpreso di vedere l’ingresso di una piccola taverna. Una breve gradinata conduceva a una porta sprofondata nel sottosuolo.

Il posto era fiocamente illuminato e quasi vuoto. Nessuno degli scomparti era occupato. Al banco c’erano due uomini che stavano contemplando due boccali mezzo vuoti. Fra le ombre s’intravedevano alcuni vecchi manifesti pubblicitari affumicati e alcune oleografie, tra cui una grande riproduzione dell’Ultima resistenza di Custer.

— Cosa prendete? — le chiese Carr dirigendosi al banco.

— Aspettate un minuto — replicò la ragazza guidandolo invece verso l’ultimo séparé, schiacciato a ridosso della porta a ventola della cucina la quale, a quanto pareva, era chiusa, poiché la finestrella rotonda sull’anta era buia. Né i due avventori né il barista alzarono gli occhi quando passarono. Il barista era un uomo grasso e solenne, intento a schiumare pensosamente un boccale di birra.

Jane fissò Carr attraverso il tavolino tutto macchiato. Il colore le era riaffluito sulle guance e lei stava sorridendo, come se ciò che stavano facendo fosse meraviglioso. Carr si scoprì a pensare ai suoi giorni all’università, quando c’erano le fiaschette tascabili e le spider, gli assegni che arrivavano da casa, le lezioni da marinare.

— È strano — disse Carr. — Sono passato per questo vicolo cento volte e non mi sono mai accorto di questo posto.

— Le città sono fatte così — rispose la ragazza. — Si pensa di conoscerle, quando tutto quello che si conosce sono soltanto le strade che l’attraversano. Si pensa che le rosticcerie e le tavole calde, le lavanderie Pulisci e Smacchia, le Pompe Funebri Reagan e la donna che se ne sta sempre a spolverare al primo piano siano tutto lo spettacolo. Un giorno si gira un angolo dalla parte sbagliata, e dopo una dozzina di passi si scopre qualcosa che non si è mai visto prima.

Cominciamo perfino a parlare della vita, pensò Carr.

Uno dei due bevitori di birra infilò un paio di nichelini nella fessura del juke-box. Ne sgorgò un preludio di note basse che turbinarono nell’aria. Carr guardò in direzione del banco. — Mi chiedo se c’è un cameriere — disse. — Forse in questo momento non servono ai tavoli.

— Che importa? — disse lei. — Balliamo.

— Non credo che sia permesso — obiettò Carr. — Dovrebbero avere un’altra licenza.

— Su venite — lo sollecitò lei. Carr scrollò le spalle e la seguì.

Non c’era molto spazio ma bastava. Con quella che a Carr parve una squisita cortesia, i due bevitori di birra non prestarono loro la minima attenzione, anche se uno dei due si mise a battere il tempo col bicchiere contro il palmo della mano.

Jane ballava male, ma dopo un po’ migliorò. Con una certa solennità si mossero descrivendo un breve cerchio. Lei era sottile: Carr poteva sentire le costole attraverso il giubbetto. Lei non disse niente fin quasi alla conclusione del brano musicale.

Poi, con voce soffocata: — È passato così tanto tempo da quando ho ballato con qualcuno.

— Non con il vostro uomo con gli occhiali, vero? — le chiese lui in fretta.

Jane scosse la testa. — È troppo nervoso, sempre così serio. Non riesce a distendere i nervi. Neppure finge di farlo.

Iniziò il secondo disco. Dopo un po’ l’espressione della ragazza si schiarì. Appoggiò la guancia contro la sua spalla. — Ho una teoria sulla vita — disse con voce sognante.

Sì, pensò Carr, è proprio come ai vecchi tempi. Scacciò dalla mente un fugace sospetto che lei si stesse burlando di lui… molto teneramente, ma sempre burlandosi di lui. Come una bambina solenne, dagli occhi spalancati, che racconta una storia a un adulto.

— Penso che la vita abbia un ritmo — cominciò, soffermandosi di tanto in tanto a tempo con la musica, con le frasi che andavano e venivano come sospinte dalla marea. — Continua a cambiare a seconda dell’ora del giorno e dell’anno ma in realtà è sempre lo stesso. La gente lo sente senza riconoscerlo: governa le loro vite.

Un’altra coppia entrò nel locale e andò a occupare uno dei séparé sul davanti. Il barista si asciugò le mani sul grembiule, spinse il portello del bancone e si avvicinò a loro.

— Mi piace la vostra teoria Jane — dichiarò Carr. — Mi piace andare alla deriva a prendere le cose così come vengono. C’è qualcuno che non vuole che io lo faccia, che vorrebbe vedermi lottare contro la corrente, costruire una barca, magari un incrociatore pesante che richieda pesanti responsabilità. Io preferisco seguire il ritmo.

— Oh, ma voi non seguite il ritmo — esclamò Jane. — Noi ce ne siamo staccati.

— Davvero?

— Oh, sì.

— Era questo che intendevate questo pomeriggio quando vi siete chiesta se mi ero “destato”?

— Forse.

La musica cessò. Carr affondò la mano in tasca alla ricerca di altri nichelini da infilare nel juke-box, ma la ragazza scosse la testa. Tornarono a scivolare nel loro séparé.

Squillò un telefono. Il grasso barista mise giù con at tenzione il vassoio con i drink che aveva preparato per l’altra coppia e andò nella parte anteriore del locale per rispondere.

— Siete sicura di non voler ballare ancora un po’? — chiese Carr.

— No. Lasciamo che le cose ci accadano così come vengono.

— Una buona idea — ammise Carr — sempre che non la si spinga troppo in là. Per esempio, eravamo venuti qui per bere qualcosa.

— Sì, è vero — annuì Jane. Un’espressione piuttosto birichina le affiorò nello sguardo. Lanciò un’occhiata verso i due drink appoggiati sul banco del bar. — Quelli sembrano buoni — commentò.

Carr annuì a sua volta. — Mi chiedo cosa si debba fare per averli — osservò, irritato.

— Avvicinarsi e prenderli. Lui la fissò. — Seriamente?

— Perché no? Siamo arrivati qui per primi. Così impareranno. — I suoi occhi erano ancora vivaci.

Carr la guardò sogghignando. — D’accordo — disse alzandosi d’un tratto. — Lo farò.

Con sua viva sorpresa, lei non lo fermò. Ancora di più, non ci furono proteste quando ghermì, con mossa ardita, i due bicchieri e li portò da Jane.

Lei applaudì in silenzio.

Carr s’inchinò e depositò i drink sul tavolino con un ampio gesto. Si misero a sorseggiarli.

La ragazza sorrise. — È un’altra delle mie teorie sulla vita. Puoi cavartela con qualunque cosa se vuoi davvero farlo. A causa del ritmo gli altri non possono fermarci. Non importa cosa succede, devono continuare a ballare. Sono incastrati. Possono interferire con noi soltanto se capita che l’interferenza rientri nel ritmo. Altrimenti siamo al sicuro.

Ed è piuttosto vero, rifletté Carr. La maggior parte della gente, lui compreso, percorrevano il cammino dell’esistenza in preda alla paura e ad un tremore più o meno controllato, convinti che, se avessero fatto la minima mossa per imporre se stessi, qualcuno gli sarebbe saltato addosso. Immaginavano che chiunque altro li stesse osservando, aspettando il primo errore da essi commesso. Ma in effetti gli altri erano spaventati quanto voi o anche di più. E preferivano che foste voi a compiere errori e passi falsi, poiché ciò sarebbe servito ad allentare le preoccupazioni che li assillavano. Sì, decisamente c’era un ritmo nella vita, o quanto meno un contrappunto di timidezze opposte. A esempio, quel barista che era di nuovo indaffarato con i bicchieri e le bottiglie. Non aveva neppure guardato nella loro direzione. — Probabilmente provava imbarazzo per aver trascurato di servirli, ed era più sollevato che infastidito dal gesto di Carr.

— Non mi credete neppure adesso? — insisté la ragazza. — È possibile farla franca. Ve lo dimostrerò di nuovo.

Quando aveva incontrato Jane per la prima volta, Carr aveva nutrito il vago sospetto che fosse una specie di taccheggiatrice o una delinquente di piccola stazza; adesso, il sospetto tornò a balenargli nella mente ma soltanto per spegnersi un istante dopo.

— Siete una ragazza parecchio singolare — le disse. — Che cosa vi ha fatto diventare così? Chi… — S’interruppe quando la vide accigliarsi. — Be’, c’è però una domanda che posso farvi — proseguì. — Cos’è che vi ha fatto trasalire in quel modo quando vi siete seduta alla mia scrivania questo pomeriggio? È parso che aveste sentito qualcosa in me che vi ha terrorizzato. Cos’era?

La ragazza scrollò le spalle. — Non lo so. — Ma ancora una volta i suoi occhi erano diventati quelli d’una sfinge. — Forse — disse — era soltanto il fatto che mi ero resa conto che eravate vivo.

— È strano — dichiarò lui con voce grave — perché, sapete, per due volte, oggi, ho provato l’illusione di…

— Non ditelo — lo interruppe lei toccandogli la mano. La ragazza guardò il suo bicchiere per un attimo, sfregò le goccioline di umidità sulla sua superficie, e piegò le mani a coppa intorno a esso con aria stupita. — È bello essere vivi — disse con voce vibrante. — Bello. Naturalmente ancora più meraviglioso sarebbe tornare al vecchio e sicuro schema ed essere ancora vivi. Ma è impossibile.

— E il vecchio e sicuro schema sarebbe… — Carr la sollecitò.

Lei scosse la testa e guardò altrove. Carr lasciò cadere la domanda.

Cominciò ad arrivare altra gente. Carr e Jane terminarono i loro drink discorrendo dei vecchi manifesti pubblicitari e delle oleografie, trovandosi d’accordo sul fatto che comunicavano un’intensa sensazione di nostalgia poiché, a differenza delle genuine creazioni artistiche, morivano dopo pochi anni, diventando corone funebri disseccate, lettere d’amore sbiadite. Nuovi avventori entrarono. Ben presto tutti gli altri séparé furono pieni, e non c’erano molti posti vuoti al banco del bar. Jane cominciò a mostrarsi inquieta. D’un tratto si alzò in piedi e disse: — Andiamo da qualche altra parte.

Carr fece per dire qualcosa ma lei era già sgusciata intorno a una coppia che si stava avvicinando al loro séparé, e si stava avviando a lunghi passi verso la porta d’ingresso. Carr fu colto dalla paura che se ne andasse, proprio come aveva già fatto quel pomeriggio senza che lui la potesse rivedere mai più. Sfilò di scatto dal portafoglio un biglietto da un dollaro e lo lasciò cadere sul tavolo. Con irritante scortesia, i nuovi venuti gli passarono davanti e si sedettero. Ma non c’era tempo per delle battute sarcastiche, Jane stava già salendo i gradini. Carr si voltò e le corse dietro.

Lo stava aspettando fuori. Le afferrò il braccio.

— La gente vi dà sui nervi? — le chiese.

Lei non rispose. Faceva troppo buio per vedere il suo viso. Il marciapiede sotto i loro piedi era irregolare e scivoloso. Le passò un braccio intorno alla vita.

Il vicolo terminò. Emersero in una strada dove l’aria aveva quel bagliore intossicante che il centro delle grandi città sfoggia durante la notte. Come se i lampioni soffiassero fuori nubi di polveri luminose che salivano di tre o quattro piani. Più sopra, muraglie scure che si estendevano verso poche stelle smorte.

Passarono davanti a un negozio di musica. Il passo di Jane rallentò fino a diventare indeciso. Attraverso la porta aperta Carr intravide una distesa di mogano attraversata da strette corsie d’avorio ed ebano. C’erano pianoforti verticali e a coda, spinette. Jane entrò. Il rumore dei suoi passi si spense mentre camminava sul folto tappeto.

Chiunque altro si trovasse nel negozio era lontano dalla loro vista, in fondo al locale, dove una luce diffusa dava fascino agli scaffali colmi d’album di dischi e a una fila di cubicoli. Jane si sedette a un pianoforte: le sue dita sottili si mossero per un po’ sopra i tasti, esplorandoli nervosamente. I tendini tesi, che ricordavano gli artigli, sottolineavano l’espressione del suo viso. Poi la sua schiena s’irrigidì, la sua testa si sollevò, e giunsero gli arpeggi iniziali, freneticamente increspati, del terzo movimento della sonata Chiaro di luna di Beethoven.

Non suonava troppo bene. Di tanto in tanto sbagliava le note e l’insieme generale era troppo aspro. L’impressione era quella d’uno studente di pianoforte che con appassionata decisione fosse riuscito a cimentarsi passabilmente con un pezzo al di là delle sue reali capacità tecniche. Comunque, la ragazza riusciva a estrarne una sorta di stupefazione selvaggia e disperata.

Carr smise di chiedersi come mai non saltasse fuori un commesso a rivolger loro, quanto meno, un’occhiata indagatrice.

Certamente, se l’intenzione del compositore era stata che quello fosse un chiaro di luna, si trattava d’un chiaro di luna che illuminava una tempesta oceanica sormontata da alte colonne d’una luminosità argentea che pioveva giù dagli squarci di nuvole sfilacciate.

Jane aveva stretto le labbra con forza. I suoi occhi parevano cercare freneticamente la nota successiva su un invisibile spartito. Il suo corpo tremava mentre le braccia picchiavano giù dall’articolazione delle spalle. D’un tratto finì. Nel risonante silenzio Carr le chiese con calma: — Questo è più vicino? Al ritmo della vita voglio dire.

Lei fece una piccola smorfia mentre si alzava.

— Ancora troppo piacevole — disse. — Ma c’è un accenno.

Mentre si avviavano verso l’uscita, Carr guardò dietro di sé. — Vi rendete conto che non abbiamo scambiato una sola parola con qualcuno stasera? — disse.

La ragazza gli rivolse un sorriso forzato. — La mia immaginazione non mi spinge a fare cose troppo intelligenti, non è vero? — replicò, e quando lui fece per protestare: — Sì, temo che vi sareste divertito molto di più con Marcia o con l’amica di Midge.

— Avete una bella memoria sapete — esclamò Carr sorpreso. — Non mi sarei mai sognato che voi…

S’interruppe. Lei aveva chinato la testa. Non riuscì a capire se stesse piangendo o ridendo.

— …l’amica di Midge… — La sentì ripetere con voce soffocata.

— Conoscete Tom Elvested? — l’incalzò lui d’un tratto.

La ragazza ignorò la domanda e alzò lo sguardo su di lui, con un sorriso incerto. — Ma dal momento che non avete un appuntamento con nessun altro salvo me — disse — dovrete cercare di godervi al meglio le mie abitudini antisociali. Vediamo, di solito di notte ho l’abitudine di vagare dalle parti della Rush Street, e magari fino a South State, per annusare la notte e l’ora… e osservare le facce morte. Potrei condurvi là, o…

— Andrà bene — disse Carr.

— O…

Camminarono vicini alla cordonatura del marciapiede, sfiorando la folla. Stavano passando davanti all’atrio di un cinema, dall’illuminazione così intensa da far male agli occhi, in cui sembravano turbinare manifesti sensazionali con mulinelli giallo-purpurei che parevano aver intrappolato nelle loro pieghe vorticose un’interminabile folla di bionde dorate, eroi dagli occhi cupi, borse gonfie di denaro e mani disincarnate che ghermivano.

Jane si fermò.

— Oppure potrei portarvi qua dentro — disse.

Obbediente Carr virò verso la biglietteria, ma lei lo trattenne per il braccio e gli passò davanti entrando nell’atrio esterno.

— Ve lo dimostrerò — ribadì la ragazza, mezzo-allegra, mezzo-disperata come la giudicò lui. — Ve l’ho fatto vedere al bar e al negozio di musica, ma…

Carr scrollò le spalle e trattenne il fiato in attesa dell’inevitabile.

Passarono direttamente davanti alla cassa e attraversarono l’ingresso nella corsia centrale.

Carr esalò il respiro trattenuto a lungo e sogghignò. Forse conosce qualcuno qua dentro, pensò.

Altrimenti, chissà? Forse si poteva farla franca quasi con tutto se si era abbastanza sicuri di sé e si sceglievano i momenti giusti.

La sala era piena soltanto per metà, c’erano parecchie file vuote sul fondo. S’infilarono in una di queste, in mezzo all’oscurità ammiccante, e si sedettero. Ben presto il vorticare delle ombre grigie sullo schermo cominciò ad assumere un po’ di senso.

C’erano un uomo e una donna che si stavano sposando, o risposando, dopo un divorzio, era difficile capirlo. Poi lei lo lasciava perché pensava che lui fosse interessato soltanto agli affari. Poi lei tornava da lui ma lui la lasciava perché pensava che lei fosse interessata soltanto alla vita di società. Poi lui tornava, ma si lasciavano tutt’e due di nuovo, simultaneamente.

Tutt’intorno a loro s’innalzava il sommesso respiro e il sonnolento masticare di gomma americana d’una umanità drogata.

Poi l’uomo e la donna si precipitavano entrambi al capezzale del loro figlio morente che durante tutto quel tempo era stato parcheggiato in un’accademia militare. Ma il ragazzo si riprendeva dalla malattia e la donna li lasciava tutt’e due per il loro bene, e poco tempo dopo l’uomo faceva la stessa cosa. Poi il ragazzo li lasciava entrambi.

— Giocate a scacchi? — gli chiese Jane a un tratto.

Carr annuì.

— Venite — lo sollecitò lei. — Conosco un posto. Uscirono in fretta dal quartiere dei cinematografi infilandosi in una zona di silenziosi edifici adibiti a uffici.

Carr osservò: — Suppongo sia dovuto al fatto che non hanno un pubblico a osservarli mentre il film viene girato il motivo per cui a volte gli attori sembrano così indifferenti. Avere un vero pubblico li metterebbe in sintonia.

— Sì — continuò lei rapidamente e a bassa voce. — Un pubblico che vi osservi ogni singolo minuto, aspettando che facciate una mossa falsa… — La mano della ragazza si strinse sul suo braccio mentre alzava gli occhi a fissarlo. — Spero che non dobbiate mai imparare a recitare in quel modo. Voglio dire, quando non è soltanto questione di apparire convincenti a un pubblico che, dopo tutto, non può in effetti farci alcun male, ma là, dove il minimo sbaglio… — S’interruppe.

— Vorreste dire per esempio — aggiunse Carr — come se una persona fosse stata rinchiusa, forse ingiustamente, in un manicomio e fosse riuscita a fuggire.

— No — disse lei brevemente. — Non intendo dire questo.

Infilò l’imboccatura nera e fosca d’una caverna fiancheggiata da vetrine buie che esibivano fiocamente, sulla sinistra, coltelli e altra ferramenta minacciosa e sulla destra, dietro a sbarre sottili, anelli di fidanzamento finemente lavorati. Spingendo una porta laterale accanto a quella girevole chiusa a chiave entrarono in un atrio cupo e squallido, pavimentato con minuscole piastrelle di marmo e circondato dalle pareti grigliate di ferro di vetusti ascensori. Una lancetta rotante che si muoveva a scatti indicava che uno degli ascensori era ancora in funzione, ma Jane si diresse invece verso una delle scale sprofondate nell’ombra.

— Spero non vi dispiaccia — disse. — Sono tredici piani, ma non riesco a sopportare gli ascensori.

Carr sogghignò rassegnato.

Emersero infine in un corridoio dove, su una porta illuminata di vetro smerigliato spiccava la scritta: CAISSA — CLUB SCACCHISTICO.

Dietro quella porta si apriva una lunga stanza. Un’austerità tetra e negligente, file disordinate di tavolini e un pavimento sudicio cosparso di sigarette schiacciate… tutto stava a indicare che quel posto era il quartier generale di una fosca monomania.

Alcuni anziani stavano giocando vicino alla porta, completamente assorti nelle partite. Uno di loro, dalla barba bianca e sporca, stava seguendo in silenzio le mosse, scuotendo di tanto in tanto la testa, oppure indicando, con le dita artritiche, la mossa che avrebbe portato alla vittoria.

Carr e Jane raggiunsero senza far rumore l’estremità opposta della sala accanto alle finestre, trovarono una scatola di pezzi consunti dal lungo uso almeno quanto la scacchiera, che era semi cancellata, e iniziarono una partita.

Ben presto un’eccitazione infuriante, dimenticata da parecchi anni, afferrò Carr nella sua morsa. Era tornato in quel piccolo implacabile universo in cui il significato delle cose si riduceva agli stratagemmi in cui le torri merlate stabiliscono intangibili pareti difensive, gli alfieri sgusciavano astutamente al di là delle irte barricate e i cavalli balzano fuori in improvvisi attacchi sul fianco, come se sbucassero da tortuosi passaggi segreti medievali.

Giocarono tre partite lente e spietate. La ragazza vinse le prime due, ma Carr era troppo intento al gioco per dispiacersene troppo. Non aveva mai visto una donna giocare con tanta asessuata concentrazione. Sedeva sporgendosi in avanti in un modo che metteva in evidenza la sua figura esile, i piedi sul traverso della sedia, le ginocchia congiunte, la testa protesa come quella di un uccello. Con una mano si sorreggeva il gomito. Fra le due dita dell’altra mano si arricciava il fumo della sigaretta. Il suo volto era allo stesso tempo teso e sereno: Carr pensò al millenario busto di Nefertiti, la principessa egiziana morta da decine di secoli, come se Jane si fosse smarrita in una calma prossima all’eternità o alla tomba.

Alla fine lui vinse la terza partita, il suo re riuscì a eliminare in extremis l’ultimo pedone che le era rimasto. Doveva essere molto tardi, era quasi l’alba quando finirono.

La ragazza si lasciò andare contro lo schienale massaggiandosi il viso.

— Non c’è niente come gli scacchi — farfugliò — per distogliere la mente da altre cose. — Lasciò ricadere le mani.

Scesero le scale. Una vecchia inginocchiata stava lavando stancamente il pavimento dell’atrio, la testa china come se lo stesse facendo da sempre.

Giunti in strada si fermarono incerti sulla direzione da prendere. Faceva molto freddo.

— Vorrei accompagnarvi fino a casa — disse Carr.

Le sue, labbra formarono la parola “No” ma non la disse. Invece si voltò a guardarlo e, un attimo dopo: — D’accordo. Ma è una lunga camminata.

Il raccordo anulare era deserto salvo per la gelida oscurità e il vento rabbioso. Camminarono in fretta. Non si dissero molto. Il braccio di lui era stretto a quello di lei. Attraversarono il fiume sopra il ponte Michigan, là dove il vento si precipitava come in un canale spalancato. Attraccata forse un isolato più avanti lungo il fiume, c’era una massa nera che a Carr parve la chiatta a motore che aveva visto quella sera sul presto. Adesso pareva una barca funebre, a forma di bara, costruita per trasportare feretri: un simbolo della fine.

La vaga idea che Carr aveva avuto di diventare amico di quella ragazza, di risolvere il mistero della sua esistenza, di aiutarla a prendere un vero controllo sulla sua vita si spense nella gelida marea della notte. No, era Marcia la sua ragazza, in qualche modo avrebbe ricucito le cose con lei. Quella era soltanto… una notte bizzarra.

Come se avesse percepito i suoi pensieri, Jane si strinse ancora di più a lui.

Svoltarono in una strada dove alcune grandi case si nascondevano dietro allo spazio nero e agli alberi. Attraversarono un’altra strada, passando davanti a un lampione di stile arcaico con uno dei pannelli di vetro rotto, così da proiettare curiose lance luminose. Poi gli alberi si racchiusero di nuovo intorno a loro come muraglie e divenne ancora più buio.

La ragazza si fermò davanti a un alto cancello di ferro semiaperto tra due alti pilastri.

Tutt’a un tratto Carr vide l’immagine che la sua mente aveva cercato a tentoni per tutta la notte. Andava a pennello a Jane, con i suoi vestiti in disordine, i suoi modi di fare decisi, quasi imperiosi. Era la figlia d’un uomo molto ricco, troppo protetta, nevropatica, futilmente ribelle, tiranneggiata e tirannica con parenti e servitori. Il tutto mescolato, in maniera irrimediabilmente futile, così come soltanto il denaro può consentire.

— È stato così bello — disse la ragazza con voce soffocata, senza guardarlo. — Così bello fingere. — I suoi singhiozzi quasi inaudibili (se tali erano) si spensero.

Sempre senza guardarlo gli strinse la mano, restando dritta vicino a lui, premendo contro di lui il fianco, come per trovare il coraggio di lasciarlo entrare. Carr si girò verso di lei, l’abbracciò, e quando la ragazza sollevò il viso la baciò sulle labbra.

Lei si abbandonò a quel bacio e Carr si rese conto che stava reagendo fisicamente. Il desiderio che Marcia gli aveva acceso la sera prima ritornò in lui con inaspettata violenza. Jane fece un blando tentativo di staccarsi da lui e Carr spostò rapidamente la mano sul fondo della schiena di lei premendola a sé, mentre con l’altra mano faceva ricadere quella di lei, accarezzandole la nuca senza interrompere il bacio.

Allora lei si tirò indietro, con una sorta di allegro rantolo, e lo gratificò d’uno sguardo quasi comico come se stesse per rivolgergli una domanda sbalordita. Lui annuì mesto e abbassò lo sguardo, diede in una scrollatina di spalle come per dire: “Non avevo progettato che accadesse”.

— Oh signore — disse la ragazza, con una costernazione ancora venata di comicità. — Senti Carr, fa troppo freddo qua fuori, e semplicemente non posso chiederti di salire, ma non posso lasciarti così. — Un’espressione maliziosa le affiorò nello sguardo, e le tornò un po’ dell’allegria di prima mentre gli afferrava una mano. — Ma prima cerchiamo un po’ d’ombra.

E mentre lei lo trascinava attraverso il cancello, dietro uno dei grandi pilastri, gli disse in fretta, in tono avido: — Quando avevo dodici anni, un mio cugino era venuto ad abitare con noi ed eravamo diventati grandi amici. Lui usciva per i suoi primi appuntamenti e, come puoi immaginare, avevo cominciato a interessarmi moltissimo alle sue esperienze erotiche, ai suoi progressi amatori insomma. Quand’era via per un appuntamento, io rimanevo sveglia e poi sgusciavo nella sua stanza per sentire com’era andata, se aveva fatto oppure no centro e come. Adesso, aspetta un momento…

L’aveva fatto arretrare oltre il pilastro, dietro una macchia d’arbusti. Frugò nella borsetta, poi sibilò tra i denti: — Dannazione! — Alzò lo sguardo. Carr vide qualcosa di pallido scivolare tra gli arbusti, gli occhi di lei si allargarono. Proprio quello che cercavo! — esclamò con un sorriso mentre, con fare impudente, gli sfilava il fazzoletto dal taschino della giacca, stringendone l’angolo fra il mignolo e l’anulare, per poi stringerlo a pugno nella mano.

Riprese a parlare: — Quando non aveva fatto centro, la qual cosa accadeva molto spesso, e ne soffriva perché era tutto “arrapato” come si esprimeva lui, mi aveva insegnato come dovevo fare per metterlo a posto, dargli una mano, potresti dire.

Carr scelse quel momento per cominciare a sbottonarle la parte alta del giubbetto e la blusa sottostante. Sentì la chiusura lampo dei calzoni che gli veniva abbassata, e le punte fredde del suo indice, pollice e medio che strisciavano fino alla radice del suo pene, girandogli intorno con competenza, talvolta accarezzandolo, talvolta andando in profondità, talvolta sfiorandolo come una piuma. Carr rovesciò la mano con cui l’aveva sbottonata e la spinse delicatamente verso il basso, nel caldo spazio fra le sue piccole mammelle che esplorò in entrambe le direzioni fino ai capezzoli sorprendentemente grandi. Il tempo passò mentre erano intenti nella loro attività. Col naso freddo e la bocca ardente si strofinarono reciprocamente il viso. Lui le toccò i capezzoli con la levità d’una piuma e sentì le areole sollevarsi e indurirsi. I polpastrelli delle dita di lei, ancora freddi, si mossero verso il suo glande e ne tirarono indietro completamente il prepuzio teso, così da poterne seguire il solco fino alla base. Le dita di lui guizzarono da un capezzolo all’altro, accarezzando e premendo ciascuno di essi tutt’intorno, mentre l’altra mano s’infilava tardivamente dentro la gonna, passandole sopra il ventre incavato e la pelle sottostante, sorprendentemente rasata. Trovò la sua fessura, la clitoride e l’accarezzò. Lei fece scivolare in basso il prepuzio, poi lo spinse verso l’alto. Il tempo galoppava, altre cose accaddero, la sofferenza era squisita. Lei rantolò, lui eiaculò e lei accolse il suo seme nel fazzoletto, con una risatina. Lui gemette, ma solo un po’.

Passarono alcuni istanti e lei si ritrasse.

— Per favore, non entrare con me — gli bisbigliò. — E per favore, non fermarti a guardare.

Carr sapeva perché. La ragazza non voleva che lui vedesse le luci che si accendevano, imperiose e agitate, che lui udisse, forse, l’inizio d’una filippica fremente e torturante rivoltale a mo’ di accusa. Era la sua ultima briciola di libertà: lasciarlo con l’illusione di essere libera.

Le baciò con trasporto la mano complice, poi con delicatezza la prese fra le braccia. Nel buio, sentì le lacrime sulla guancia fredda di lei inumidire la sua.

Poi lei ruppe l’abbraccio. Carr udì un rumore di passi in corsa lungo il vialetto di ghiaia. Si girò e si allontanò in fretta.

Nel cielo, attraverso i neri profili degli alberi, traluceva il primo pallore dell’alba. L’estasi, o la sua ombra, pulsò e ondeggiò nella notte che si andava rischiarando.

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