13

Da dietro le turrite, nere muraglie dei depositi, dei montacarichi, dei ponti e delle gru che s’innalzavano verso occidente, il sole calante proiettava giganteschi spruzzi d’un rosso cupo infuocato che inondavano l’immensità del cielo sopra il fiume Chicago. Bordava di sangue le immani spalle dei grattacieli che si affollavano intorno al ponte della Michigan Avenue come una mandria di grigi mammuth in sosta accanto al fiume per la notte. Sfavillava sulle finestre simili a occhi multisfaccettati che guardavano a ovest ma lasciavano nel buio quelle rivolte a oriente: le piccole, malignamente intelligenti finestre-occhi che esprimevano i duri pensieri alieni guizzanti nei labirinti di tutte le grandi città sin dai tempi di Ur, Alessandria e Roma. Gli sprazzi trasformavano le piastrelle bianche della Wrigley Tower in un delicato rosa salmone e le finiture dorate del palazzo della Carbon and Carbide in un rame rosato.

Molto più in basso il bagliore vermiglio si rifletteva sulle acque del fiume toccando con il suo colore sanguigno una nera chiatta a motore; destava deboli e incerti bagliori purpurei sull’asfalto e sul cemento della strada che costeggiava il fiume e del gigantesco ponte che l’attraversava, ma penetrava appena gli oscuri rettangoli sottostanti: le finestre che si affacciavano sul ponte dal di sotto, sulla strada al di sotto della strada: quel sottomondo lastricato di ciottoli e di cemento, percorso da camion rombanti e affollato da macchine parcheggiate, impastato dalla polvere del carbone e da ogni altro tipo di sudiciume, disseminato anch’esso d’ammiccanti insegne al neon, là, sotto l’estremità settentrionale del distretto del raccordo anulare di Chicago.

La stessa luce metteva in risalto il colore dei vestiti, smarrendosi in quelli più scuri, del torrente di figure che si muovevano come tante formiche stanche lungo il ponte superiore, la cavalcata irregolare e senza scopo di minuscole figure rese ancora più piccole e ancora più senza scopo dagli enormi edifici che incombevano su di esse.

Carr e Jane si muovevano alla deriva nel cuore di quella folla; intorno a loro le spalle e i gomiti mulinavano, voci senza senso turbinavano sulle più intense correnti sonore che s’innalzavano dai camion e dalle automobili. Talvolta quella fiumana faceva fugacemente volteggiare nel loro raggio visivo un ombrello o una valigetta. Vennero trasportati attraverso il ponte fin dentro il lungo canyon più oltre, passando davanti alla nera sommità delle gradinate situate a intervalli, che conducevano giù fino alle strade del livello più basso. Evitarono di guardare i volti delle figure intorno a loro, malgrado Carr non riuscisse a fare a meno di osservare certe stranezze, ad esempio un autobus fumante con la folla che si accalcava tutt’intorno; la figura d’un uomo-sandwich che stava facendo la pubblicità a qualcosa; e il profilo d’una donna che teneva al guinzaglio un cane nero, sgraziato.

Finalmente si trovarono davanti al buio promontorio della Biblioteca Pubblica. Qui, girarono il volto l’uno verso l’altra, come avrebbero potuto fare due tuffatori prima di saltare dal trampolino.

Si strinsero ancora di più l’uno all’altra, sempre tenendosi a braccetto, la mano stretta nella mano. Poi tornarono a guardare davanti a sé e attraversarono la strada. Qui la folla, accresciuta dagli affluenti diretti al sottopassaggio pedonale dell’Illinois Central, era ancora più fitta. La figura della donna con lo strano cane nero era subito davanti a loro. Avevano fatto all’incirca una dozzina di passi quando un varco si spalancò casualmente nella massa dei corpi consentendo loro di guardare in un corridoio piuttosto lungo di marciapiede vuoto. Carr sentì la mano di Jane allentarsi nella sua per poi stringersi di quel temporaneo passaggio rivolto verso di loro, c’era l’ometto dalla pelle scura con gli occhiali.

Li vide ed esibì un fantastico sorriso. Cedendo a un impulso più profondo della prudenza, sollevò la mano in un teatrale gesto di saluto.

Ma poi il suo sguardo deviò su qualcosa di più vicino. L’ometto arretrò. Le sue spesse lenti lampeggiarono quando tirò indietro di scatto la testa. Si batté le mani sul petto, le braccia rigide contro le costole, come per proteggersi il cuore. Poi, mentre il corridoio che il caso aveva creato cominciava rapidamente a rinchiudersi, guardò di nuovo Carr e Jane con un’intensità angosciata, carica di paura.

Poi, proprio mentre il corridoio davanti a loro si chiudeva del tutto, lanciò un grido inarticolato, fece un balzo come fosse una marionetta e corse via.

Nel medesimo istante altre tre figure si staccarono dalla folla che si stava interponendo e si lanciarono al suo inseguimento. Due erano uomini. La terza era la donna con il cane.

Senza una parola, Carr e Jane si misero a loro volta a seguirli con passo sempre più veloce, fino a quando non cominciarono a correre anche loro. Sopra le teste della gente e nei varchi che qua e là si aprivano, Carr poté cogliere scampoli della caccia: l’ometto dalla pelle scura che correva a zig zag abbassandosi alla ricerca di nuove brecce tra la folla, compiendo ogni pochi passi uno di quei balzi incredibili con i tre inseguitori lanciati alle sue calcagna.

La folla non reagì. Nessuno girò la testa a guardare, nessuno si fece da parte di scatto, non si levò nessun grido, nessuno sporse la testa dalla finestra. Perfino le figure intorno alle quali gli inseguitori e l’inseguito sfrecciavano schivandole ed evitando di farle cadere per pochi centimetri, neppure queste mossero un singolo capello, ma continuarono a sorridere con identica soavità, a chiacchierare con uguale vivacità e a sbirciare con la stessa circospezione le donne giovani e belle, come se niente avesse turbato la grazia di quel pomeriggio.

Carr accelerò la sua corsa. Per un attimo poté vedere che l’ometto ce la faceva, stava perfino guadagnando terreno. Avevano ormai oltrepassato la biblioteca ed erano arrivati all’isolato successivo.

Poi vide il signor Wilson che faceva gesti frenetici alla signorina Hackman. Questa rallentò e si fermò, e l’addensarsi della folla impedì a Carr di continuare a vederla. Un attimo più tardi, una forma che compiva lunghi balzi senza nessuna fatica scattò in avanti: una forma lupina nera come il carbone, che però conservava ancora qualcosa di felino.

L’ometto dalla pelle scura guardò indietro ancora una volta, e schizzò fuori dalla folla come un burattino a molla. Poi fece qualche altro passo e, sempre freneticamente correndo, si precipitò dentro un negozio di abbigliamento maschile.

La forma nera era alle sue calcagna.

Un secondo, due, tre… poi dal negozio cominciarono a uscire urla acute di terrore e di agonia, tali da spezzare il cuore.

Carr fu investito da un’ondata di nausea. Qui, e il pensiero lo colse con un involontario sprazzo di lucidità, c’era l’allegoria dell’intera storia dell’universo: quelle grida che annunciavano la morte, l’orrore e la sofferenza, un assassino in libertà nella casa della vita, una crudeltà felina nel cuore del cosmo, la distruzione che avvicinava un fiammifero alla miccia della Terra, e gli uomini-macchina che se ne andavano per i fatti loro, preordinati, con la mente vuota, gli occhi ciechi, le orecchie sorde.

Le urla cessarono.

Dris, la signorina Hackman e il signor Wilson raggiunsero il negozio e si affrettarono a entrare.

La signorina Hackman uscì un attimo dopo. Trascinava i piedi, lo sguardo fisso sul marciapiede, il colorito terreo. Carr e Jane videro il suo stomaco rientrare in preda a un’improvvisa convulsione e le spalle che si sporgevano in avanti.

La forma nera uscì dal negozio e si sfregò affettuosamente contro di lei, e adesso Carr la riconobbe. Era un ghepardo nero. La signorina Hackman distolse gli occhi dall’animale, lasciando penzolare la mano verso di esso. Il ghepardo insisté con le sue effusioni. La donna si allontanò verso l’angolo successivo, nella direzione opposta a quella in cui si trovavano Carr e Jane. Si teneva sempre una mano davanti alla bocca. Il ghepardo nero la seguì strofinando il muso sulle sue gambe.

Alcune macchie rosse comparvero sulle sue calze.

Jane e Carr cominciarono ad arretrare.

Il signor Wilson uscì dal negozio. Si guardò intorno. Vide la signorina Hackman e si affrettò a seguirla.

Carr e Jane continuarono ad arretrare. Passarono davanti a una serie di vetrine dalle cornici cromate, riattraversarono la strada e rifecero il percorso lungo la biblioteca. La folla sul marciapiede, un minuto prima fittissima, adesso si era diradata in maniera inquietante.

Il signor Wilson raggiunse la signorina Hackman. Questa si fermò. Pareva che il signor Wilson le stesse facendo delle rimostranze, e lei annuiva miserevolmente.

— Al prossimo angolo taglieremo per arrivare al raccordo anulare — bisbigliò Carr. Jane annuì.

Si voltarono e s’incamminarono rapidamente lungo il muro vuoto di pietra grezza che correva sotto le finestre rientranti della biblioteca. Avevano quasi raggiunto l’angolo quando un autobus si fermò lì accanto e una folla di marinai si riversò fuori, con le gambe che scattavano rapide come grandi forbici azzurre. Carr era rimasto un po’ indietro. Proprio mentre Jane stava girando l’angolo, i marinai li separarono. Prima di aprirsi la strada fra loro, Carr rivolse un’ultima occhiata alle sue spalle.

Driscoll Aimes era a meno di dieci metri dietro di lui e veniva avanti con passo veloce. Vide Carr nel medesimo istante in cui Carr vide lui. Per un attimo rimase immobile come inchiodato a terra. Poi si precipitò impetuosamente in avanti.

Carr si girò e attraversò di corsa la strada puntando dritto verso il Michigan Boulevard, pregando che Jane continuasse ad andare avanti, evitando così di venir notata.

I manichini dagli occhi brillanti, le labbra imbronciate, nei negozi di abbigliamento, erano più vivi della gente intorno a lui che continuamente aggirava e schivava.

Si guardò alle spalle: aveva guadagnato terreno su Driscoll Aimes, anche se questi stava correndo. E (grazie a Dio!) Jane non era in vista.

Carr si precipitò giù per la scala di ferro nella penombra del livello sottostante. Gli scalini rimbombarono sotto i suoi piedi.

Giunto in basso, continuò a correre nella stessa direzione. Qui il marciapiede era a circa un metro e mezzo dalla strada acciottolata, al livello della sommità delle macchine parcheggiate fianco a fianco in una fila continua. Agli incroci Carr discese i gradini per risalirli sul lato opposto. A due isolati di distanza le finestre rettangolari del tramonto gli indicarono il lungofiume.

Alla fine dell’ultimo isolato Carr lanciò un’altra occhiata alle sue spalle.

Dris non era in vista ma, balzando sopra i tettucci delle automobili parcheggiate, come se il loro metallo dipinto fosse una superficie più congeniale per le sue zampe, nei confronti del cemento del marciapiede, stava arrivando il ghepardo nero.

Carr ricordò le urla che erano uscite dal negozio di abbigliamento.

Si tuffò giù per gli ultimi gradini, passò sfrecciando davanti a un camion che rovesciava terriccio nella sua corsa sobbalzante e balzò verso il lungofiume. Riusciva a sentire dietro di sé un ritmico zampettare.

Sbucò fuori alla luce crepuscolare del lungofiume.

Senza frenare la corsa, l’attraversò e si tuffò verso l’acqua oleosa.

Intravide pali neri che gli passavano accanto. La sua testa subì un colpo fortissimo. Fu travolto da un’ondata di dolore.

Era conscio del gelo dell’acqua, del peso dei suoi indumenti, della luce che sbiadiva. Del nulla.

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