— Conosci il modo migliore per mettere qualcuno in imbarazzo?
Gwynne girò la testa sul sedile anteriore della sua pallottola. Alle sue spalle, le luci di una comunità isolata dell’Idaho, smorzate dalla parete di plastica del tubo, sfrecciavano via come una raffica di proiettili traccianti.
— No. — Carewe avrebbe preferito starsene in silenzio, pensare ad Athene; ma adesso che viaggiavano nel tubo a pressione, non c’era nemmeno la necessità di guidare a tenere occupato Gwynne.
— Fai quello che sto facendo io in questo momento.
— Sarebbe? — Carewe studiò la faccia dell’investigatore, che lo fissava con aria intenta.
— Non te ne sei accorto?
— Di cosa? Che mi stai fissando?
— Non fisso te. — Gwynne avvicinò di più la faccia. — Fisso la tua bocca. Se vuoi mettere qualcuno in imbarazzo, guardagli la bocca mentre parla.
— Grazie — disse Carewe, sarcastico. — Sono certo che questa informazione mi sarà sempre più utile, col passare degli anni.
— Ma figurati. Il mio cervello è pieno di nozioni come questa. È uno dei vantaggi di leggere molto.
Carewe fece una smorfia. Tutti continuavano a parlargli di libri, e tutti, o quasi tutti quelli che leggevano, erano freddi. Era così che passavano il tempo? Si appoggiò all’indietro sul sedile, cercò di rilassarsi; mail futuro più immediato era avvolto da tenebre sconvolgenti. Sentì il bisogno di rimettersi a parlare con Gwynne.
— Leggi davvero libri? — gli chiese, con una certa riluttanza.
— Ma certo, Willy. E tu no?
— No. A volte guardo Osman alla tridì — rispose Carewe, sulla difensiva.
— Quel pallone gonfiato! — sbuffò Gwynne. — Non è stato lui a dire che guidare le masse significa essere ciechi alla necessità di seguire?
— Non so.
— Sì, l’ha detto lui — gli assicurò Gwynne. — Come filosofo, fa pietà. Bradley, invece…
— Forse — lo interruppe in fretta Carewe — potresti dirmi chi o cosa era Beau Geste.
Gwynne scosse la testa. — Non leggo molta letteratura. Comunque mi sembra che fosse un nobile inglese coinvolto in uno scandalo familiare e scappato a fare la guerra nel deserto. Credo che fosse andato nella legione straniera francese.
Carewe annuì. L’idea si adattava al commento di Kendy dopo il suo arrivo in Africa. — Che tipo di cose leggi?
— Tutto, più o meno. Storia, biografie, scienza…
Carewe ripensò a quello che gli aveva detto il vecchio Costello. — E quanto ne ricordi?
— Ah — esclamò Gwynne, con enfasi. — Non è questo il punto. Dopo aver letto un libro di qualsiasi argomento, anche se poi te ne dimentichi ogni parola, ti resta sempre un’ignoranza di tipo diverso.
— Come?
— Non è facile spiegarlo. Direi che ti accorgi di quante cose non sai.
Carewe ripiombò nel silenzio. Poteva davvero trattarsi di una ragione d’essere sufficiente per un immortale? Accrescere l’autocoscienza della propria ignoranza, creare un’immagine negativa di conoscenza? Poteva significare una crescita della saggezza? O, forse, anche l’ignoranza di tipo diverso di Gwynne era soggetta all’erosione del tempo? Bunny Costello aveva l’espressione triste, delusa, di chi in vita sua ha visto un sacco di cose ma non è riuscito a trarre vantaggio dalle esperienze.
La pallottola decelerò dolcemente, attraverso una serie di sfinteri e uscì al terminal di Idaho Falls. Una breve sosta mentre il robosmistatore adagiava il veicolo sull’intelaiatura di supporto, poi Gwynne si rimise al volante. Ripartirono verso sud. Il traffico era scarso. Raggiunsero in fretta la periferia dell’antica città, dove fabbriche enormi incombevano su strade desolate. I lampioni proiettavano una luce livida che spazzava muri squallidi e si perdeva in cielo, nascondendo le stelle. Carewe si sentì invadere da un’eccitazione quasi piacevole. Il sapore del pericolo era ancora troppo nuovo ed estraneo perché lui potesse apprezzarlo a fondo, ma per lo meno avrebbe scacciato la sensazione di noia che l’aveva infastidito tutto il giorno. E forse, entro pochi minuti, avrebbe rivisto Athene. Respirò, avvertì improvvisamente l’odore acido del sudore e si voltò a guardare Gwynne.
La fronte dell’investigatore era inondata di sudore. La pallottola si fermò in un vicoletto chiuso. Carewe associava l’idea del sudore a quella della tensione nervosa: ne fu sorpreso e preoccupato.
— Come ti senti, Theodore? — chiese, fingendo indifferenza.
— “Comme ci, comme ça”, più che altro “comme ça.” Nel mio mestiere, questa è roba di tutti i giorni. — Si toccò la fronte umida. — Devo proprio far aggiustare l’impianto di riscaldamento. Sei pronto?
Carewe annuì. — È questo il posto?
— Ci siamo vicini. Da qui in poi, meglio procedere a piedi.
Gwynne aprì il cassettino del cruscotto e ne tolse una piccola torcia elettrica. A Carewe sembrò che l’odore di sudore diventasse sempre più forte. Spalancò la portiera della pallottola e scese, riempiendosi i polmoni dell’aria fresca della sera.
— Credo che la Cuscinetti Antiattrito sia da quella parte.
Gwynne puntò un dito nel vicolo, indicando la zona in cui l’illuminazione moriva fra le tenebre.
Carewe non scorgeva nessuna insegna. Ai suoi occhi, gli edifici erano tutti uguali. — Conosci il posto?
— Ho consultato una mappa prima di partire. — Gwynne attraversò la strada e s’incamminò con cautela verso il rettangolo scuro di una porta. Carewe, che lo seguiva da vicino, si sentiva strano e molto cosciente di sé. D’improvviso, nacque in lui la convinzione assoluta che non ci fosse nessuno nella fabbrica avvolta nel silenzio. Pensò di essere stato trascinato a prendere parte a un gioco ridicolo. Stava per esprimere i suoi dubbi,quando una forma grigia, urlante, balzò dalla porta, scagliandosi direttamente su di loro. Gwynne si spostò di lato, puntò la torcia come per difendersi, poi imprecò quando capì che avevano solo disturbato un gatto. Carewe restò a fissare l’animale in fuga. La parte del suo cervello che pensava notte e giorno, gelosamente, alla sua salvezza, gli stava dicendo che in quella faccenda c’era qualcosa di sbagliato.
— Mai visto uno di questi aggeggi? — Gwynne tirò fuori un piccolo cilindro che all’estremità terminava in una chiave. Alla luce fioca del vicolo, Carewe vide che le dentellature della chiave si muovevano continuamente, come i piedini irrequieti di un bruco. Scosse distrattamente la testa, mentre il suo cervello cercava di scoprire i motivi della sensazione di disagio. Gwynne infilò quella specie di chiave nella serratura di una porticina che faceva parte di un grande cancello. La porta si aprì subito. Ne uscì una zaffata d’aria calda, viziata. Gwynne fece segno a Carewe di entrare in quel labirinto di tenebre.
Carewe esitò. — Non mi sembra un posto molto adatto per rinchiudere qualcuno che si vuole studiare. Le tue informazioni sono buone, Theo?
— Ottime. Ricordati che entriamo dal retro, attraverso i magazzini. Probabilmente gli uffici sull’altro lato saranno più abitabili.
— Ma mi sembra un posto senza vita.
— Paura del buio, Willy? — Gwynne accese la torcia con cautela, la infilò oltre la porta ed entrò. Carewe lo seguì, studiandolo alla luce riflessa dalle fiancate metalliche di quelli che dovevano essere recipienti di immagazzinaggio. Appena arrivato lì, Gwynne era diventato nervoso di colpo, così nervoso che per un attimo il gatto lo aveva terrorizzato. Carewe si fermò a metà di un passo. In quel momento di panico, Gwynne per difendersi aveva puntato automaticamente la torcia sul gatto, quasi si trattasse di un’arma. E quando l’aveva accesa, era stato molto cauto, aveva usato l’attenzione che in genere si riserva a un’arma. Adesso procedeva a piccoli passi, di scatto: come uno che avesse in mano una pistola, non una semplice torcia elettrica.
Carewe s’immobilizzò, lasciò che il detective si allontanasse un po’ da lui. Idee paranoiche? Ormai era fuori dubbio che in Africa avevano tentato di ammazzarlo, ma se anche Gwynne faceva parte del gioco, l’unica conclusione possibile era che…
— Dove sei, Willy? — Gwynne si girò e puntò il fascio di luce nel punto in cui Carewe si trovava un attimo prima.
— Sono qui — rispose Carewe, abbagliato. La luce abbandonò la sua faccia. Abbassò gli occhi e vide che adesso la torcia era puntata sul suo petto. “Sono pazzo” pensò, però si lanciò lo stesso di lato: e, proprio in quel momento, un raggio rosso d’energia scaturì dalla mano di Gwynne.
Sbalordito, accecato, Carewe si mise a correre, le braccia alzate a proteggersi la faccia. Andò a sbattere contro un pilastro e cadde in ginocchio. Le sue mani incontrarono scalini di metallo. Afferrato il corrimano, salì le scale in fretta, attento a non fare rumore. Probabilmente avrebbe raggiunto la passerella che aveva notato prima, guardando i contenitori. Giunto in cima, si sdraiò sul metallo e strizzò freneticamente le palpebre nell’oscurità, mentre le immagini multicolori svanivano dalle sue retine. Quando si fu riabituato al buio, scoprì che l’edificio era immerso nelle tenebre. C’era solo uno strano bagliore rosso sotto di lui. Il bagliore diventò d’un rosso acceso, poi si spense. Carewe capì che si trattava di una macchina colpita dal raggio laser sparato da Gwynne. Il pensiero di cosa gli sarebbe successo se non si fosse buttato di lato in tempo gli inondò la fronte di sudore.
Sotto, apparve una macchia di luce bianca, danzò un attimo fra le pareti di metallo e svanì. Carewe restò immobile, cercando di valutare la situazione. Gwynne era armato, e si trattava di un’arma potentissima; però, per riuscire a colpirlo doveva prima proiettare su di lui il fascio di luce della torcia. Così facendo, gli avrebbe svelato la sua posizione, ma si trattava di uno svantaggio ridicolo. Carewe si sarebbe sentito molto più tranquillo se fosse stato lui ad avere in mano il laser. La luce si accese di nuovo, puntata in un’altra direzione. Carewe si appiattì contro il metallo a scacchi della passerella.
Col trascorrere dei secondi, fu costretto ad ammettere l’inevitabile verità. Se fosse rimasto lì, in attesa che l’altro lo trovasse, sarebbe morto prima del mattino. Respinse diverse volte l’idea di lanciarsi all’attacco di Gwynne, ma l’idea tornava di continuo, con un’insistenza sottile che gli parve quasi più minacciosa del laser. Alla fine alzò la testa dal metallo e scoprì che riusciva vagamente a intravvedere, attraverso il soffitto, il cielo. Si guardò attorno. Dal tetto trasparente emanava un chiarore verdastro, il riflesso della luce dei lampioni, di cui prima non si era accorto perché non si era ancora abituato al buio. Poco per volta distinse le forme vaghe di macchinari e contenitori, uniti dai fantasmi di passerelle, corrimano e tubi a zigzag. Forse nei contenitori c’era qualcosa che poteva servirgli come arma.
Aspettò che sotto si accendesse un’altra volta la luce. Il raggio era più vicino di prima, ma la luminosità riflessa gli servì per guardare nel contenitore che si trovava a pochi centimetri dal suo fianco. Era profondo un paio di metri e pieno fino a metà di quelle che sembravano sfere grosse come un pugno. Quando la torcia di Gwynne si spense, Carewe continuò a vedere le sfere: scintillavano debolmente, come stelle lontane. Per un attimo rimase sconcertato, poi gli tornò in mente qualcosa che gli aveva detto Gwynne: “…Una fabbrichetta di Idaho Falls, la Cuscinetti Antiattrito…”. Cuscinetti. Ma allora si trattava di sfere di metallo!
Leggermente più fiducioso, ma sempre cauto, strisciò verso l’orlo del contenitore. Una sfera grande come un’arancia poteva essere un’arma di tutto rispetto. Afferrò con la sinistra il corrimano e si curvò sul contenitore, finché non arrivò a toccare le sfere fredde. Chiuse le dita attorno a una sfera, ma quella schizzò subito via. Riprovò, cercando di stringere più forte, e la sfera volò via come prima, andando a colpire le altre con una serie di rumori metallici. Immediatamente, sotto di lui si accese la torcia elettrica, illuminando di una luce livida il corrimano.
Carewe capì di aver commesso un errore spaventoso.
Quelle che lui pensava di usare come armi non erano semplici sfere d’acciaio. Il cuscinetto tradizionale era scomparso da decenni. Quelle sfere, composte di molecole polarizzate radialmente, non possedevano praticamente indice di attrito. A meno di non tenerle ferme lateralmente, era impossibile sottoporle a qualsiasi pressione: schizzavano via a razzo. Costituivano un’invenzione superba dal punto di vista tecnologico, ma erano del tutto inutilizzabili come proiettili. E lui non aveva nient’altro a disposizione.
Trattenendo il respiro, Carewe infilò le dita sotto un’altra sfera, le unì a grappolo e le spostò verso l’alto. Quando la mano gli arrivò all’altezza della faccia, fu costretto a bilanciarsi sui due piedi. La sfera schizzò via, come una creatura vivente che volesse riunirsi ai suoi simili, e precipitò nel contenitore. Il raggio scarlatto del laser colpì il corrimano, e la schiena di Carewe fu investita da una pioggia di goccioline di metallo fuso. Lui strinse i denti e ritentò. Questa volta, muovendo continuamente la mano, riuscì a tirare fuori la sfera, proprio mentre Gwynne appariva in cima alle scale. Carewe spostò la mano di lato; poi mugolò di disperazione quando la sfera gli sfuggì dalle dita e si mise a rotolare lungo la passerella.
Colto di sorpresa, Gwynne puntò la torcia sulla sfera che correva verso di lui, accelerando. Carewe si lanciò in avanti. Fu accecato per un attimo dal raggio di luce, poi andò a sbattere contro l’investigatore. Cercò di buttarlo a terra, ma l’altro lottò con tutta la forza della disperazione. Rotolarono lungo la passerella avvinghiati, Carewe si lasciò quasi sommergere dal panico, all’idea che Gwynne avesse ancora in mano la torcia. Si accorse che l’investigatore tentava di puntargli addosso l’arma, e ogni muscolo del suo corpo scattò in un’esplosione di energia incontrollata.
I due uomini precipitarono giù dalla passerella, cadendo in uno dei contenitori. Per un secondo, a Carewe sembrò di essere finito in una pozza d’acqua gelida, finché capì di trovarsi in un contenitore pieno di sfere minuscole. Assolutamente nemiche dell’attrito, le sfere offrivano ancor meno resistenza dell’acqua. Affondò immediatamente. Le sfere gli entrarono in bocca come insetti inferociti. Le sentiva sbattere contro i denti, scendere nello stomaco, lemming metallici spinti dalla gravità a cercare il punto più basso di ogni contenitore in cui si trovassero. Alle sfere non interessava affatto che, in, questo caso, i contenitori fossero i polmoni e lo stomaco di Carewe.
Chiuse la bocca, si alzò in piedi, e la sua faccia emerse all’aria. Vomitò qualche sfera, ma la sua bocca si trovava appena al di sopra della superficie. Un’ altra ondata di insetti metallici gli riempì di nuovo la bocca. Tentare di risputarle avrebbe significato semplicemente ingoiarne altre. Scosso da conati convulsi, respirando a denti serrati, raggiunse il fianco del contenitore. Vicino a lui c’era un corrimano. Lo afferrò, si issò sulla passerella, e cominciò a vomitare. Si ricordò di Gwynne solo quando l’ultima sfera metallica gli fu uscita dallo stomaco. Il detective era notevolmente più basso di Carewe. Non sarebbe mai riuscito a riemergere in superficie. Guardò nel contenitore, ma le sfere erano tornate immobili.
Gwynne era… (cercò il termine) affogato, oppure era ancora vivo sul fondo. Il pensiero di infilare deliberatamente la testa in quel “liquido” metallico lo riempiva di terrore; però era possibile che Gwynne riuscisse a sopravvivere per parecchio tempo grazie all’aria che filtrava tra le sfere, e abbandonarlo lì era impensabile. Stava per rituffarsi nel contenitore, quando si verificò una metamorfosi. La superficie argentea delle sfere s’ illuminò di un bagliore scarlatto che saliva dal basso. Era come se le migliaia di sfere, trasformate in granato, avessero colto il riflesso della luce del sole.
Il bagliore si spense di colpo. Carewe si immobilizzò nell’atto di tuffarsi. Gwynne doveva aver fatto fuoco col laser. Un caso? Al centro del contenitore apparve un altro lampo, che però era localizzato e aveva il colore del metallo incandescente. Carewe sentì un’ondata di calore sfiorargli la faccia, poi le sue narici avvertirono l’odore dell’acciaio bruciato…, e di qualcosa d’altro.
Strisciò via, tossendo, e raggiunse la scala che portava a pianterreno. Arrivato in fondo, si accorse di avere le scarpe piene di sfere che gli rendevano difficile camminare. Si sedette, si tolse le scarpe, scrollò via le sfere che rotolarono lungo le impercettibili pendenze del pavimento, in cerca di libertà. Gwynne era morto! Al posto del milione di domani che, secondo Osman, erano diritto naturale di ogni individuo, l’investigatore non aveva più niente, non era più niente. Non era più un uomo, un investigatore, un nemico. Non esisteva più. Il dolore, lo stupore di un immortale di fronte alla mortalità bloccarono il respiro di Carewe. Scosse la testa, e imprecò amaramente in quelle tenebre impassibili; poi, costringendosi a essere pratico, decise di liberarsi di tutte le sfere che aveva ancora addosso. Gli fu necessario togliersi calzamaglia e tunica e vuotarle sul pavimento. Dopo di che, scoprì altre sfere nascoste sotto la lingua e nelle narici. Sputò e sbuffò, poi si accorse di una sensazione strana agli occhi. Schiacciando con le dita tutt’attorno alle palpebre, altre sfere uscirono dalle orbite, gli scivolarono giù lungo le guance.
Dieci minuti più tardi, dopo essersi rivestito, uscì dalla porta che Gwynne aveva aperto. Raggiunse la pallottola dell’investigatore, e solo allora ricordò di non avere la chiave di avviamento. S’incamminò per quelle strade desolate, cercando di ricordare il percorso che avevano seguito all’arrivo. Gli avvenimenti di quella serata lo avevano come intorpidito, ma alcune conclusioni erano inevitabili.
Il fatto che Athene fosse stata rapita e portata a Idaho Falls era una menzogna, una bugia studiata al solo scopo di farlo allontanare da Three Springs e poi farlo “sparire”. Gwynne era un uomo di Barenboim, quindi il presidente della Farma, dopo aver offerto a Carewe un nuovo tipo d’immortalità, aveva scatenato tutta una serie di attentati alla sua esistenza. Ma perché? Quali moventi poteva mai avere…
Gli venne in mente un’idea nuova, che gli fece tralasciare l’analisi dei possibili moventi di Barenboim. Se Barenboim lo voleva morto, era falsa anche tutta la storia delle macchinazioni di un’azienda concorrente, il che significava che Athene poteva benissimo essere già morta.
E significava anche che, se Athene era ancora viva, Barenboim era l’unico a sapere dove si trovasse.