Era l’alba quando Carewe lasciò il commissariato di polizia. Obbedendo alle istruzioni di McKelvey, prese una pallottola pubblica per Three Springs, poi andò a fare spese. Sicuro che il prefetto lo avesse messo sotto il controllo di un rintracciatore elettronico, usò il creditodisco per comperare cibo. Non appena ebbe convinto McKelvey di essere tornato alla sua vita di tutti i giorni, si, lanciò nella parte seria degli acquisti, la parte per cui era necessario usare denaro in contanti.
Nel Nordamerica, le armi da fuoco non erano in vendita al pubblico da più di un secolo, perché la società bastarda non aveva bisogno di armi da fuoco, ma Carewe non intendeva certo affrontare Barenboim nella roccaforte del laboratorio senza l’ausilio di qualche arma. Passeggiò senza meta per un po’, e alla fine scoprì un negozio di articoli per camping. Comperò un coltello a scatto, un’accetta molto leggera e uno zaino, poi prese un taxi e tornò a casa. Pagò di nuovo col creditodisco, per non insospettire McKelvey.
La bolla era esattamente come l’aveva lasciata, invasa da un silenzio deprimente. Non c’ era nessun messaggio registrato ad attenderlo. Fece una colazione leggera, poi infilò coltello e accetta nello zaino. Ripensandoci, aggiunse qualche stecca di cioccolato e il binocolo. Era metà mattina, e Drumheller si trovava ad appena due ore di pallottola in direzione nord, oltre quello che un tempo era il confine canadese. Aveva tutto il tempo di soddisfare il bisogno di sonno. Si sdraiò su un divano, si costrinse a rilassarsi, chiedendosi se non fosse troppo ottimistica la speranza di addormentarsi quando il suo cervello era pieno di…
A svegliarlo fu il sole del pomeriggio che gli batteva in faccia. Scosso da leggeri brividi, raggiunse il comunicatore e chiese il numero dell’ufficio servizi civici di Drumheller. Dopo di che, chiamò il supervisore dell’ufficio sviluppo industriale. Dopo qualche secondo, si materializzò la faccia di un attivo giovane e grassoccio.
— Sono Will Carewe, supervisore ai costi della Farma Corporation — disse, secco. — Voi chi siete, prego?
— Spinetti. — Il giovane parve irritato dal tono di Carewe.
— Be’, ho brutte notizie per voi, signor Spinetti. Una delle macchine che voi dovreste supervisionare ci ha inviato una stima assolutamente ridicola del valore della nostra proprietà di Drumheller. Il mio principale comincia a perdere la pazienza per faccende del genere, e mi ha ordinato di…
— Un attimo — lo interruppe Spinetti, rabbuiandosi. — Perché non chiarite le cose prima di aggredirmi? Conosco perfettamente i programmi delle mie macchine, e so che la Farma non ha nessuna proprietà in questa zona.
— Devo proprio entrare nei particolari? — Carewe sospirò, fingendosi irritato. — Il mio principale è il signor Hy Barenboim. Questo non vi dice niente?
— Oh! — Gli occhi di Spinetti espressero preoccupazione. — Il laboratorio chimico al chilometro dodici.
— Chilometro tredici, mi sembra.
— Chilometro dodici della radiale tre — sibilò Spinetti. — Volete venire a misurare i chilometri di persona?
— Che non succedano mai più incidenti simili — disse Carewe, e chiuse la comunicazione. Sperava di non aver sconvolto troppo la digestione di Spinetti.
Prese lo zaino, sali sulla pallottola e partì verso nord.
Un sole parzialmente occultato dalle nuvole stava calando all’orizzonte quando Carewe arrivò a Drumheller. Contando i chilometri, si allontanò dal centro sulla radiale tre. Adesso che era giunto il momento, la prospettiva di dare l’assalto a un laboratorio presumibilmente pieno di guardie era più spaventosa di quanto non avesse immaginato. La certezza di aver scoperto dove si trovasse Athene cominciava già a svanire, ed era quasi scomparsa quando lui fermò la pallottola sulla strada. Si era lasciato alle spalle le luci tenui della città da diversi minuti. Lungo il chilometro dodici si trovavano soltanto due edifici, che sullo sfondo dell’erba onnipresente sembravano finti, messi lì per una ripresa cinematografica. Uno era senz’altro un magazzino, e l’altro una struttura lunga, a più piani, appollaiata in cima a una collina. Un sentiero in terra battuta congiungeva la strada al cancello che si apriva nella parete di metallo che circondava l’edificio, Carewe cercò con gli occhi segni di attività, ma il laboratorio, tinto di rosso dal sole al tramonto, sembrava abbandonato da secoli, quasi a testimoniare l’antica presenza di una civiltà scomparsa.
Procedette ancora un po’ lungo la strada, fino a trovarsi al di fuori della visuale di un eventuale osservatore sulla collina, e spense il motore della pallottola. Ignorando le occhiate curiose che gli lanciavano i passeggeri dei veicoli in transito, restò seduto tranquillamente, inattesa che il cielo si oscurasse, che svanisse il rosa corallo delle scie di condensazione. Quando s’incamminò su per la collina, l’aria era fresca e tirava una brezza leggera. Giunto più vicino al laboratorio si sentì rassicurato scoprendo che usciva luce dalle finestre ai piani superiori; però si accorse anche che il percorso offriva una copertura scarsissima. Poteva solo sperare che Barenboim non avesse preso la precauzione di disporre sensori di calore o analizzatori agli infrarossi.
La sensazione di essere completamente esposto durò finché non giunse sotto il muro perimetrale, alto più di tre metri. Studiandolo da vicino, scoprì che si trattava di una lega metallica assolutamente liscia, che non offriva il minimo appiglio. Carewe provò a fare un salto, per assicurarsi che non gli fosse possibile raggiungere la cima con le dita, poi s’incamminò lungo la base del muro, girò attorno all’edificio e finalmente raggiunse il cancello. Il muro era liscio, impossibile da scalare per tutta la sua estensione, e il cancello, ovviamente chiuso, appariva altrettanto scoraggiante. Disperato, lasciò vagare lo sguardo sull’erba, illuminata a tratti dalle luci che uscivano dalle finestre. Will Carewe, guastatore dilettante, si era fermato davanti al primo semplicissimo ostacolo, una parete composta di fogli metallici che con ogni probabilità sarebbe riuscito a bucare con un comune apriscatole…
Spinto dall’ispirazione, tolse l’accetta dallo zaino e raggiunse il lato del muro più lontano dalla strada. Poi sferrò un colpo vicino all’angolo, e l’accetta penetrò nel metallo grigio, facendo pochissimo rumore. Aspettò cinque minuti, ma dall’interno non giunsero segni di vita: allora si rimise all’opera, cercando di calibrare i colpi. In pochi minuti aveva ritagliato nel metallo una V capovolta, alta un metro, che riuscì a piegare fino a terra. Dietro c’era una cavità grande abbastanza da contenere i pali di sostegno, e più avanti un altro foglio di metallo. Il foglio interno gli procurò maggiori difficoltà, perché non aveva molto spazio per muoversi; ma procedendo con calma, concedendosi soste frequenti, riuscì a ritagliare un’ altra apertura. Spinse in avanti di qualche centimetro la punta di metallo e guardò. Aveva davanti una spianata di cemento,poco illuminata, chiusa a un lato da una parete del laboratorio. A quanto sembrava, nessuno si era accorto di lui.
S’infilò il coltello alla cintura, e attraversò il muro tenendo in mano l’accetta. Il metallo che aveva ritagliato ritornò a posto da solo, rendendo meno visibili le tracce del suo passaggio. Carewe lo stava sistemando per bene, quando un fascio di luce improvvisa proiettò ombre sul muro. Si voltò di scatto sollevando l’accetta, e intravvide i fanali di un’auto che doveva essere entrata dal cancello. La luce forte dei fari, riflessa e incanalata nel poco spazio tra il laboratorio e il muro esterno, sembrava riempire l’intero universo. Impossibile che l’autista non l’avesse visto, eppure il veicolo proseguì la corsa, sparendo dietro l’angolo più lontano del laboratorio.
Voleva dire che non si erano accorti di lui? Oppure che l’autista possedeva riflessi tanto pronti da fingere di non averlo visto? Carewe infilò l’accetta nella calzamaglia, all’altezza della vita, e corse alla parete più vicina dell’edificio. Si attaccò a una grondaia e si arrampicò, usando doti istintive potenziate dalla paura. Il tetto del laboratorio era piatto e sporgente, Mentre Carewe si tirava su, l’accetta si sfilò dalla calzamaglia e cadde a terra, rimbombando forte sul cemento. Carewe si appiattì sul tetto; poi si accorse che il tetto era a terrazze, che aveva raggiunto quella più bassa, e che le finestre del primo piano del laboratorio si affacciavano lì. Corse ad acquattarsi in un angolo, tenendo la testa appena al di sotto dei davanzali delle finestre. Trascorsero cinque, dieci minuti, prima che lui ammettesse che non avevano ancora scoperto la sua presenza. Sentì tornare l’ottimismo che lo aveva spinto a lanciarsi nell’impresa, e si guardò attorno.
Da dove si trovava, poteva vedere la distesa d’erba oltre il muro di recinzione: una prateria grigia che svaniva verso nord, immersa nella quiete più totale. Da quel lato, nessun pericolo. Della fila di finestre sopra la sua testa, una sola era illuminata. Strisciò fino ad arrivarvi sotto, si alzò in piedi con cautela e diede un’occhiata all’interno. La stanza era piccola. Conteneva soltanto una sedia e una brandirla su cui era sdraiata una donna. Teneva la schiena voltata alla finestra, ma Carewe riconobbe immediatamente la curva languida dell’anca: con gli occhi, col cervello, con ogni molecola del suo corpo.
Athene!
Bussò istintivamente sul vetro, e subito ne fu terrorizzato. Poteva esserci qualcun altro in un angolo della stanza che lui non riusciva a vedere. Athene sollevò leggermente la testa, tornò immobile. Carewe aspettò per qualche terribile secondo, poi bussò di nuovo e restò a osservare la reazione di Athene. Lei sollevò la testa, si sedette, e si voltò verso di lui. Sbarrò gli occhi per la sorpresa, poi corse alla finestra, premendo le dita contro il vetro. Le sue labbra si mossero in silenzio. Carewe esultò: una volta che Athene fosse uscita dalla stanza, potevano attraversare il muro di recinzione e sbucare all’aperto in pochi secondi.
Tirò fuori il coltello e picchiò sul vetro col manico. Il rumore del colpo fu fortissimo, l’impatto gli fece tremare il polso, ma il vetro non si ruppe. Ritentò, e questa volta il coltello per poco non gli sfuggì dalle dita intorpidite. Athene si coprì la bocca con una mano che tremava, e i suoi occhi corsero alla porta della stanza. Sconcertato dalla resistenza del vetro, Carewe mise via il coltello e cercò automaticamente l’accetta; poi si ricordò che era caduta a terra. Fece un cenno vago ad Athene, corse all’orlo del tetto e sporse le gambe in fuori. I suoi piedi non riuscirono a trovare la grondaia, ma non c’era tempo per precauzioni eccessive. Si lanciò nel vuoto, cercando di non perdere l’equilibrio. Atterrò in piedi e si mise subito a cercare l’accetta. La grondaia che aveva scalato si trovava a meno di un metro da lui, ma dell’accetta non c’era traccia. Imprecando, allargò il raggio di ricerca.
— È qui, Willy. — La voce era fredda, divertita, come solo la voce di un immortale di duecento anni poteva essere.
Carewe si alzò in piedi, col fiato mozzo, e si costrinse a guardare.
La figura dignitosa, elegante, di Hy Barenboim sembrava fuori luogo sullo sfondo dello squallido muro di recinzione. I suoi occhi lo scrutavano con estrema attenzione. In mano aveva una torcia elettrica, e da come la stringeva non c’era dubbio che si trattasse di un’arma.
— Ciao — disse Carewe. — Avevo la sensazione che ti avrei incontrato.
— Una sensazione reciproca, ragazzo mio. — Barenboim agitò la torcia. — Entriamo.
— Aspetta un attimo. Saltando giù mi sono fatto male. — Carewe finse una smorfia di dolore, infilò la mano sotto la tunica. Le sue dita si strinsero sul manico del coltello.
— Dovresti avere tanto cervello da non buttarti in queste pagliacciate da eroe — disse Barenboim, annoiato. — Muoviti.
— Perché non mi uccidi qui? O è un posto troppo conosciuto? — Carewe tolse il coltello dalla cintura e lo strinse in mano.
— Il luogo esatto della tua scomparsa è un particolare di scarsa importanza — disse freddamente Barenboim. Accese la torcia e diresse il raggio luminoso sulla faccia di Carewe.
— I miei occhi — gemette Carewe. Scostò la testa di lato, e nello stesso tempo tirò fuori il coltello. Barenboim boccheggiò. Carewe, sfruttando quella che probabilmente era la sua unica possibilità, lanciò il coltello con tutta la forza di cui era capace. Il manico del coltello centrò Barenboim in piena gola. L’immortale andò a sbattere contro il muro, senza perdere la presa sulla torcia. Carewe gli fu addosso prima che l’altro potesse puntare il raggio laser. Afferrò il polso destro di Barenboim, gli fece cadere di mano la torcia, lo colpì al ventre gonfio col pugno: una volta, due, tre volte…
Tornò in sé quando si accorse che doveva tenere in piedi Barenboim per continuare a colpirlo. Lo lasciò crollare sul cemento e si tirò indietro. Improvvisamente capì che aveva fatto del suo meglio per uccidere Barenboim. Vedendo il coltello che lo centrava dalla parte sbagliata, aveva reagito con delusione selvaggia e rabbia. Pensò vagamente che avrebbe dovuto sentirsi più meravigliato, ma le sue capacità d’introspezione sembravano svanite nel lungo cammino fra Nouvelle Anvers, Idaho Falls e Drumheller.
S’inginocchiò accanto a Barenboim, prese la torcialaser, poi gli frugò in tasca e s’impossessò di tutte le chiavi che riuscì a trovare. Corse all’ingresso del laboratorio. Una macchina, quella su cui doveva essere arrivato Barenboim, era parcheggiata sul cemento. Il cancello era aperto. Arrivato alla porta del laboratorio, scoprì che era chiusa, il che lasciava pensare che, a parte Athene, dentro non ci fosse nessun altro. Provò diverse chiavi, finché la porta non si aprì. L’atrio era deserto ma si fermò, esitante: l’idea che Barenboim non avesse con sé nessuno era semplicemente un’ipotesi.
Carewe esaminò la torcia, che era ancora accesa. Tirando all’indietro il cursore la luce si spegneva, e spingendolo avanti si riaccendeva. Puntò la torcia sul pavimento e spinse il cursore un po’ più avanti, Il cursore gli resistette un attimo, poi il pavimento esplose in un’eruzione di lava incandescente. Stringendo la torcia con la massima precauzione, corse all’interno dell’edificio. Ormai non temeva più di incontrare eventuali avversari. C’erano scalinate su entrambi i lati dell’atrio, e gli sembrò più probabile che fosse quella sulla destra a guidarlo da Athene. La divorò di corsa, si lanciò in un corridoio che faceva il giro di tutto l’edificio. In fondo al corridoio, ne trovò un altro, più corto, su cui si aprivano sei porte. Stimata mentalmente la posizione di Athene, si lanciò su una delle porte. Era chiusa, ma lui avvertì la presenza della moglie dall’altra parte.
— Athene — urlò.
— Will! — La voce di lei era fioca. — Oh, Will, sei davvero tu?
— Puoi scommetterci — le gridò. Alla quarta chiave, la porta si aprì, e lei si precipitò tra le sue braccia.
— Calma, calma, calma — sussurrò Carewe, cercando di quietare i tremiti del corpo di Athene con la forza che aveva scoperto in sé.
— Will. — Improvvisamente lei si staccò. — Dobbiamo andarcene da qui. Tu non sai di cosa sono capaci quei due. — Gli occhi di Athene si fermarono sulla sua faccia. Lui si sentì stringere la gola quando vide che la palpebra sinistra di sua moglie era quasi chiusa: un segno di stanchezza che conosceva benissimo.
— Sono perfettamente d’accordo. Andiamo. — Le prese la mano e fuggirono. A Carewe sembrava di essere spinto da un vento fortissimo. Non sentiva quasi i piedi toccare il pavimento. Scesero le scale e uscirono all’aperto. — Prendiamo l’auto di Barenboim — disse lui.
Saltarono a bordo e chiusero le portiere. Carewe ebbe un momento di panico quando scoprì di non riuscire a trovare la chiave d’avviamento, ma alla fine la trovò. La turbina si accese immediatamente. Senza perdere tempo ad accendere i fari, si lanciò ad arco nel cortile e schizzò fuori dal cancello come un missile. Fra le tenebre oltre il cancello si mosse qualcosa di grosso. Carewe ebbe un attimo per capire che si trattava di un’altra macchina, poi ci fu un impatto tremendo. Per un secondo, la loro auto volò in aria, e lui provò l’assurda speranza di riuscire a scavalcare l’altra macchina. Athene urlò. L’universo si capovolse. La voce di sua moglie svanì nell’esplosione dell’auto che precipitava sul fianco della collina.
I palloni pneumatici, espulsi di colpo dal cruscotto dalla forza delle bombole di gas, salvarono la vita a Carewe. Ma quando si trovò intrappolato sotto di loro, quando alzò gli occhi e incontrò la faccia rosea, trionfante, di Manny Pleeth, lui desiderò di essere morto.