8

Il sole del mattino lanciava frecce di fuoco sulle palpebre di Carewe. Si alzò, disfatto, con le tempie che gli pulsavano, e raggiunse il minuscolo bagno dello chalet. Svegliandosi, il suo primo impulso era stato quello di rimettersi a dormire; ma Parma gli aveva detto che quel mattino doveva vedere subito il coordinatore della squadra e farsi registrare tra gli effettivi. Aprì la valigia, tirò fuori una scatola delle capsule di ossigeno e acido ascorbico e ne inghiottì una. Lo strato di gelatina che avvolgeva le capsule gliela bloccò nella trachea. Stava per andare a prendere un bicchiere d’acqua, quando vide, con la coda dell’occhio, il quadro di comando.

Le punte dei fili erano scoperte, minacciose. Con una smorfia, Carewe si guardò attorno, scoprì su una sedia il pannello di protezione. I suoi ricordi erano confusi. La sera prima, era rientrato come uno zombie, e solo la pura e semplice fortuna gli aveva impedito di toccare i fili ad alto voltaggio. La sua fronte si coprì di sudore freddo, poi Carewe grugnì davanti alla propria stupidità: senza il pannello, l’interruttore non si poteva abbassare, e non ci sarebbe stato passaggio di corrente.

Però le luci dello chalet erano accese. L’interruttore si era abbassato sul serio.

Stringendo le tempie per calmare le continue pulsazioni, si avvicinò al quadro comandi e ne osservò l’interno. La levetta che impediva all’interruttore di entrare in funzione prima di essere collegato al pannello di sicurezza era piegata di lato, non funzionava. “Qualcuno ha tentato di uccidermi” pensò immediatamente, “ed è tutta colpa di Athene.” Nel giro di un secondo, il buonsenso prese il sopravvento, e lui avvertì l’odio enorme, smisurato, che solo un immortale può provare quando la sua vita si è trovata in pericolo. Il tecnico che gli aveva installato l’impianto elettrico doveva pagarla cara, carissima.

Carewe buttò i vestiti sporchi nell’eliminatore, indossò tunica e calzamaglia nuove. Il mal di testa gli era quasi passato. Uscì. Una luce violenta lo investì da tutte le direzioni, come se il cielo del mattino fosse pieno di soli. L’aria era calda, il profumo di fiori sconosciuti gli riempiva i polmoni. Percorse la breve strada, raggiunse lo spazio circolare deserto a eccezione di due uomini con le uniformi delle Nazioniunì, immobili all’ombra di una tenda. Il camioncino di Parma era ancora parcheggiato davanti al club. Carewe stava per chiedere indicazioni a uno dei due, quando notò le insegne delle Nazioniunì su un altro edificio al lato opposto delle radura.

Dentro, trovò un’impiegata dietro un banco. Alle sue spalle, le cabine familiari di un terminale di computer. Paratie di plastica formavano uffici minuscoli all’interno della cupola.

— Posso esservi utile? — La ragazza era mezzo addormentata e non dimostrava eccessivo interesse.

— Sono del contingente della Farma. Mi chiamo Carewe.

— Sì?

— Voglio vedere il tecnico che ieri ha installato il pannello elettrico nel mio chalet. — Nascose la faccia depilata agli occhi irrequieti della ragazza.

— Volete sporgere lamentele?

— Sì. La sua negligenza criminale per poco non mi ha fatto morire fulminato.

— Mi spiace, ma il tecnico è ripartito stamattina con la prima navicella.

— In questo caso, potete dirmi come si chiama? Voglio fargli rapporto.

— Fare rapporto a chi?

— Non so. A qualcuno che possa fargli passare dei guai.

— Sarà meglio che parliate col signor Kendy, il coordinatore. — La ragazza aveva un tono di rimprovero, come se Carewe stesse infrangendo una legge. Gli fece cenno di seguirla in uno degli uffici, dove lui trovò, seduto a una scrivania, un giovane freddo con folti capelli biondi. Per essere un freddo, Kendy era molto muscoloso. Il suo aspetto roseo indicava una salute perfetta. Gli strinse la mano in modo fermo, amichevole; ascoltò con attenzione la sua storia e prese appunti.

— Non dubitate, andrò a fondo — gli promise. — Ora, signor Carewe, è già alquanto tardi. Siete pronto a cominciare a lavorare per noi?

— È per questo che sono qui. — Quando sorrise, Carewe ebbe l’impressione che le sue labbra fossero morte. — Però, a essere sincero, non so cosa potrei fare esattamente. Sono appena arrivato…

— Non c’è bisogno di scusarsi. È proprio la sindrome di Beau Geste che ci permette di andare avanti, in larga misura.

Kendy ripiegò un foglio e con l’angolo della carta cominciò a picchiettarsi i denti, che erano regolari e bianchissimi.

— Voi lavorate per la Farma, quindi potete aiutarci somministrando il biostatico della vostra ditta. È l’E-dodici, no?

— Ma io sono un contabile.

— La contabilità la tengono a New York — ribatté Kendy, impassibile ma leggermente ironico.

— Lo so, però pensavo…

— E per mandare avanti questo ufficio non mi serve assistenza.

— Non intendevo dire… — Carewe riordinò le idee. — Quando comincia la spedizione?

— È già iniziata. Abbiamo a che fare con un gruppo che si è staccato dall’antica tribù Malawi. Sono molto più resistenti di tanti altri alle nostre magie atmosferiche. — Kendy scrisse il nome di Carewe su un modulo prestampato e glielo porse. — Presentatevi con questo alla cupola magazzino. Vi daranno tutto l’equipaggiamento. L’idea sarebbe di continuare a far piovere fino al termine dell’operazione e agire al riparo del vapore che si alza dal terreno. E questo — Kendy mise un modulo blu accanto al primo, — vi procurerà un’automatica.

— Una pistola?

— Sì. Del tipo ipodermico, nel caso abbiate scrupoli contro la violenza. Non è pratico usare armi a un colpo solo per somministrare un’immortalità di massa.


L’anfibio a due posti che gli avevano assegnato al centro automezzi delle Nazioniunì procedeva tranquillo sul sentiero sconnesso. Carewe procedeva verso nord, in direzione del temporale, immobile sull’orizzonte. Guidava automaticamente, quasi vergognandosi di aver scoperto in sé il senso dell’avventura. A quell’ora, se fosse stato un giorno normale, si sarebbe trovato dietro la scrivania alla Farma, a fingere di controllare calcoli eseguiti dal computer, in realtà limitandosi a contare i minuti che mancavano all’intervallo per il pranzo. Invece, vestito dell’uniforme delle Nazioniunì, guidava un veicolo sconosciuto su una strada che non aveva mai percorso, col sole africano che scendeva tra le fronde della foresta.

Scoprì, ancora una volta, che per lui l’arrivo fisico in un posto nuovo era un fatto di nessuna importanza: il vero significato stava nel suo arrivo psicologico, spirituale. E quest’ultimo era sempre ritardato, a volte di giorni o persino di settimane, dal fatto che in compagnia di altre persone lui non riusciva mai a essere veramente se stesso, il che gli impediva di reagire all’ambiente nuovo. Nei suoi primi anni di lavoro, una volta si era recato a Polar City per un seminario di tre settimane. Le aveva trascorse tutte in una specie di delusione ovattata perché non riusciva a provare il minimo senso di cambiamento, di diversità. Ma l’ultimo giorno, libero dal programma di lezioni e dalla compagnia insistente degli altri contabili, si era allontanato dalla città, aveva camminato per più di un chilometro e mezzo in quel paesaggio antico. Nel preciso istante in cui aveva aggirato una cresta di banchisa, bianca da accecare, perso ogni contatto visivo con la civiltà, lui, Will Carewe, aveva scoperto di trovarsi in Antartide, quasi precipitato lì da un incantesimo che lo aveva rapito alla sua esistenza normale solo un secondo prima. La bellezza eterna e nemica del posto lo aveva paralizzato, gli aveva bloccato il respiro in gola, riempito gli occhi di visioni che non sarebbero mai svanite.

In quel momento, trovandosi di colpo solo, ebbe una rivelazione simile; e aggirò con l’anfibio cespugli di rubiacee dai colori vivacissimi, che coi loro calici lobati riempivano l’aria di urla silenziose, solo visive. Carewe capì di avere davanti a sé pericoli, avventure, esperienze nuove; e se il futuro più immediato gli riservava tante cose, quanto non gli avrebbero dato un milione di domani? La sensazione di essere nel pieno della Vita, di essere intriso delle sue essenze multicolori, non poteva certo ripagarlo degli eventi che lo avevano condotto a quel punto; però era “vivo”. Accorgendosi che in lui si stava scatenando una reazione emotiva equivalente agli scoppi improvvisi d’ilarità che si verificano tanto spesso nelle situazioni più disperate, cercò di abbassare la propria temperatura psichica; ma, quando l’anfibio s’infilò in un fiume alquanto ampio apparso all’improvviso, Carewe fischiettava. Le acque del fiume erano scure e agitate, probabilmente a causa del temporale interminabile che il controllo meteorologico aveva scatenato nelle vicinanze.

Rallentò un poco la velocità del motore, per non sollevare troppa fanghiglia, e puntò il muso verso la continuazione del sentiero, sulla riva opposta. L’anfibio avanzò sicuro sulle acque turbolente; poi, a metà fiume, il motore si spense. Non ci fu nessuna indicazione preliminare, non un rallentamento inspiegabile, né un cambiamento nel ronzio della turbina: solo un arresto totale e improvviso. L’anfibio cominciò ad affondare. Si udì un’esplosione sibilante quando il metallo rovente del motore venne sommerso, e tre secondi più tardi Carewe si trovò in fondo al fiume, chiuso in una bolla di plastica marrone scuro.

Urlò, chiese aiuto.

Tempo dopo, si rese conto che urlare non bastava. Si costrinse a chiudere la bocca. Il campo elastico d’emergenza gli aveva impedito di andare a sbattere contro il quadro dei comandi, e la superba tecnica di costruzione della cabina di guida faceva sì che non entrasse acqua; però, rimanendo lì sarebbe morto soffocato. Sganciò la serratura della porta e la spinse. Non successe niente. Terrorizzato all’idea che l’impatto avesse distorto la struttura della porta, appoggiò la spalla alla plastica durissima.

Un filo d’acqua gli colò sulle caviglie, ma la porta, bloccata dalla pressione esterna, non si mosse. L’unica cosa da fare era pareggiare la pressione esterna con quella interna lasciando entrare acqua; ma, quando Carewe si sentiva ormai distrutto per le spallate contro la plastica, il pavimento della cabina era appena umido. Pensò di rimettersi a urlare; poi accettò il fatto che il milione di domani che sognava erano affidati esclusivamente alle sue mani.

Nella cabina non entrava acqua eppure prima, mentre viaggiava, l’aria continuava ad affluire dall’esterno, il che significava che le prese d’aria dovevano essersi chiuse automaticamente al primo contatto con l’acqua. Era possibile che ce ne fosse qualcuna non in perfetto ordine? Con una certa difficoltà tolse dal tettuccio il pannello di protezione. Apparvero tubi di plastica che uscivano tutti da un raccordo centrale. Evidentemente, il raccordo usciva all’esterno del veicolo. Afferrò i tubi e provò a tirarli. Si piegarono leggermente, ma non cedettero. Carewe perse di nuovo il controllo di sé. Si buttò sul sistema di ventilazione, tirò e torse con tutta la forza che aveva; poi una fitta al petto gli disse che la riserva d’aria della cabina era quasi esaurita. Le tubature in plastica, costruite in conformità agli standard delle Nazioniunì, non mostravano di avere subito il minimo danno.

Ricadde sul sedile. I suoi polmoni pompavano come un macchinario antico, la sua bocca emetteva suoni rauchi, animaleschi, sconcertanti. Era davvero la fine? I suoi occhi si posarono su un interruttore posto sull’orlo del tubo aspirante del ventilatore. Si protese, lo spostò con la punta di un dito, e l’acqua cominciò a piovere dalle griglie del ventilatore.

Dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per restare immobile finché la cabina non fu quasi piena. Quando provò di nuovo la porta, l’aria che restava nel poco spazio tra l’acqua e il tettuccio era praticamente irrespirabile; ma questa volta la porta si aprì senza troppe difficoltà. Si allontanò dal veicolo, raggiunse la superficie del fiume e nuotò fino a riva. La forte corrente lo trascinò un po’ verso il basso, ma riuscì a raggiungere la terraferma e a raggiungere il sentiero. Le acque scure, trasformando la gravità di un movimento apparentemente orizzontale, scorrevano veloci e silenziose sopra il punto dov’era affondato l’anfibio, cancellandone ogni traccia. Se non si fosse accorto dell’interruttore manuale per il ventilatore, sarebbe rimasto là sotto; e nessuno, prima di sera, avrebbe pensato di andarlo a cercare…

Carewe scoprì di trovarsi sulla riva nord del fiume. La colonna di temporale si alzava sull’orizzonte. L’armatura in plastica leggerissima che gli avevano dato alla base era rimasta in fondo al fiume, però lui aveva ancora la borsa che conteneva la pistola ipodermica. Decise di proseguire il viaggio a piedi, anche se indubbiamente aveva un’ottima scusa per tornare indietro. “Il secondo tentativo di omicidio nel giro di ventiquattro ore” gli disse una voce interiore, “basterebbe a scoraggiare chiunque.” Con le scarpe fradice, s’incamminò respingendo automaticamente l’idea, che però gli si ripresentò subito, senza nessuna coloritura emotiva, come una conclusione logica pura e semplice. Tutti i mezzi delle Nazioniunì rispondevano ai canoni più sofisticati della tecnologia del ventiduesimo secolo; quante possibilità esistevano che il motore subisse un guasto proprio nell’unico punto potenzialmente pericoloso del suo percorso? E quali livelli astronomici raggiungevano queste possibilità, prendendo in considerazione anche la mancanza del pannello di protezione dall’impianto elettrico dello chalet?

Eppure, lì al campo nessuno aveva motivo di ucciderlo. Fino al giorno prima, nessuno di quegli uomini l’aveva mai visto. Carewe si riempì i polmoni della luce del sole. Notò che l’uniforme aveva assorbito pochissima acqua del fiume: era quasi asciutto, per quanto malconcio. Alzò sopra la testa il pannello solare della tunica, per respingere il caldo sempre più forte, e accelerò il passo. Il rumore del temporale crebbe d’intensità, si trasformò in una serie di sibili e gemiti mostruosi che spezzavano la quiete del mattino. In alto, ai limiti della stratosfera, uomini e macchine lavoravano per manipolare gli elementi e, attraverso gli elementi, i cervelli di altri uomini. Quel concetto sconcertava Carewe, che sapeva cosa stava accadendo, ne era parte. Si chiese come si fossero sentiti i primitivi della tribù Malawi scoprendo che il cielo stesso si era rivoltato contro di loro.

Davanti a lui, sul sentiero, cominciarono a salire i vapori. Intravvide i profili di uomini e veicoli. Adesso il temporale riempiva di grigio tutto il suo campo visivo; tentacoli freddi di aria umida gli sfioravano la faccia, mentre il caldo enorme del sole continuava a bruciargli la schiena. Nell’aria, un senso d’attesa. Il creato era un ambiente artificiale, una scena illuminata dai riflettori, e i registi, in volo suborbitale, controllavano gli effetti. Carewe tirò più in su la cerniera dell’uniforme, fin sotto la gola.

— Come vi chiamate? — La voce proveniva dalla porta aperta di una roulotte immobile.

— Carewe. Sono della Farma. — Si cercò in tasca il documento d’identità.

— Okay. Passate pure. Il signor Storch vi sta aspettando.

— Grazie.

— Lo troverete un chilometro più in giù, lungo il sentiero. — L’uomo lasciò sporgere in fuori la faccia barbuta, scrutò incuriosito Carewe. — Dov’è il vostro anfibio?

— L’ho perso per strada. Un incidente. Potete darmi un passaggio?

— Mi spiace, ma da questo punto in avanti non possono più transitare veicoli. — L’uomo scomparve immediatamente.

Carewe scrollò le spalle e si incamminò. Nel giro di un minuto, la visibilità si era ridotta a una cinquantina di passi e la pioggia gli cadeva tutt’attorno; ma il pannello solare la defletteva, avvolgendolo in un bozzolo asciutto. Dopo cinque minuti di marcia nel fango, raggiunse un gruppo di una trentina d’uomini, tutti in armature verde pallido. Uno si staccò dagli altri e venne verso di lui. Era un attivo robusto, con occhi pazienti e curiosi e una faccia bruciata dal sole che riusciva a essere bella nonostante il naso piegato di lato e una cicatrice bianca che interrompeva la linea del labbro superiore.

— Sono Dewery Storch — disse, tendendo la mano. — Mi avevano avvisato del vostro arrivo, ma dove avete l’armatura?

Carewe gli strinse la mano. — Nel mio anfibio.

— Bisognerà che torniate a prenderla. Non vi hanno detto…

— Impossibile. L’anfibio è finito in fondo al fiume. È affondato.

— Come sarebbe a dire, affondato? — Gli occhi castani di Storch si fissarono in quelli di Carewe.

— Sarebbe a dire che è colato a picco nel fiume. — Carewe cominciava a spazientirsi. — Il motore si è spento di colpo. È già una fortuna se ho salvato la pelle.

Storch scosse piano la testa. — Continuo a non capire. Dite che il motore si è spento in mezzo al fiume, ma i galleggianti d’emergenza non si sono gonfiati?

— Galleggianti d’emergenza? — La mascella di Carewe tremolò. — Nemmeno per idea. L’anfibio è affondato come un sasso. — In silenzio, assimilò quell’informazione nuova. Se il congegno d’emergenza non aveva funzionato in concomitanza con un incidente già strano di per sé, le probabilità che si trattasse di un caso diventavano ridicolmente basse.

— Bisognerà indagare sulla faccenda — disse Storch. — Devono avervi dato un veicolo che era in manutenzione. Guasti del genere non dovrebbero verificarsi.

— Lo pensavo anch’io — ribatté Carewe, gelido. — Per poco non mi sono ammazzato.

Storch lo squadrò con aria preoccupata. Carewe ne fu confortato. — Non vi chiederò di avventurarvi nel villaggio con noi, per oggi. Se tornate indietro lungo il sentiero potete farvi dare…

— Preferirei venire con voi. — Carewe sentiva il bisogno di affrontare il battesimo dell’azione e ancora di più, per ragioni che gli sfuggivano, voleva fare buona impressione su Storch. Forse, si trattava solo del patetico desiderio di dimostrare che, dietro la facciata esterna da freddo, lui era ancora un “uomo”.

— Siamo a corto di personale, signor Carewe, ma non potrei mai permettervi di correre un rischio simile.

— La responsabilità è soltanto mia.

Storch esitò. — Va bene. Però restate in coda agli uomini e non uscite allo scoperto finché non vi darò il segnale. Chiaro?

— Chiarissimo.

Il gruppo s’incamminò sul sentiero. Ascoltando qua e là frammenti di conversazione, Carewe scoprì che quello verso cui si stavano dirigendo non era un villaggio vero e proprio, ma semplicemente un agglomerato di edifici sparsi su una superficie di quattro chilometri quadrati circa e divisi in gruppi di dodici capanne al massimo. Il gruppo di capanne che avevano davanti sarebbe stato affrontato per primo, e nessuno poteva prevedere che razza di accoglienza li aspettasse. I rapporti preliminari indicavano che i Malawi non possedevano armi da fuoco, ma non si sapeva esattamente quanto fosse attendibile l’informazione.

Quando apparve la prima delle capanne col tetto di foglie, gli uomini si divisero, disperdendosi nella vegetazione. Carewe ebbe l’impressione che gli altri non fossero dilettanti come lui. Si nascose automaticamente dietro un albero, in attesa degli eventi. Gli sembrava di essere un bambino che giocasse ai cow-boy. Il silenzio era assoluto, a parte il ticchettio costante della pioggia.

D’improvviso, gli uomini delle Nazioniunì si misero a correre. Le loro armature verdi sembravano corazze di insetti giganteschi. Avanzarono fra le nubi di vapore che si alzavano dal suolo, chiudendo a tenaglia le capanne. Il cuore di Carewe cominciò a battere forte, quando si udì un grido. Seguirono urla rauche e altre grida in un crescendo tumultuoso, poi tornò una calma relativa. Apparve la figura robusta di Storch, che fece un cenno a Carewe e svanì di nuovo tra le capanne.

Carewe corse avanti con una certa riluttanza e raggiunse le capanne. Gli uomini della squadra avevano circondato una decina di indigeni, tutti con un’espressione depressa. Parecchi se ne stavano inginocchiati nel fango, ma alcuni continuavano a lottare, ed era difficile tenerli fermi. Donne e bambini guardavano dalla soglia delle capanne, e ogni tanto lanciavano gemiti ululanti. Uno degli uomini in ginocchio aveva una brutta ferita alla testa. Un rivolo di sangue scarlatto che si mescolava alla pioggia gli scendeva lungo la schiena. Guardando il sangue, Carewe avvertì una fitta ai testicoli. Di colpo, provò una ripugnanza estrema per quello che gli uomini delle Nazioniunì stavano facendo.

— Il nostro antropologo, dottor Willis — disse Storch, comparso al suo fianco. — Seguitelo. Somministrate il biostatico a tutti quelli che secondo lui sono al di sopra dei sedici anni.

— Sedici anni! È il limite ufficiale?

— Sì. Perché?

— Mi sembra che siano un po’ troppo giovani per…

— Questi sono primitivi, signor Carewe. Primitivi. Non fatevi illusioni. Non priverete nessuno della meravigliosa esperienza del primo amore, o roba del genere. A sedici anni, qui c’è gente che dovrebbe già essere impotente.

— Mi sembra troppo presto lo stesso — insistette Carewe. Poi diede un’occhiata di sbieco a Willis, un freddo con sopracciglia bianche come le ali di un gabbiano.

— Lo so cosa state pensando, signor Carewe — disse Willis. — Ma qui abbiamo a che fare con individui che hanno rifiutato tutti i valori della nostra civiltà. È un loro privilegio, naturalmente. Non è che noi vogliamo costringere nessuno all’immortalità. Però è altrettanto giusto che non permettiamo loro di uccidere altri esseri umani.

— Non è né il momento né il posto per un indottrinamento — intervenne, secco, Storch. — Vi avevo consigliato di tornare al campo a riposare, signor Carewe. Se non siete pronto per il lavoro, state solo sprecando il tempo vostro e quello di tutti gli altri. Quindi, avete intenzione di somministrare il biostatico in modo che io possa avanzare nel villaggio, oppure devo fermarmi qui e pensarci da solo?

— Faccio io — mormorò Carewe, e aprì la borsa. — Mi spiace. Forse sono un po’ scosso.

— Tutto a posto. — Storch fece un segnale, e quattro uomini lo raggiunsero. Assieme, ripartirono di corsa tra le capanne.

— Cominciate con questi tre. — Willis gli indicò gli indigeni tenuti fermi dagli uomini della squadra. Due si immobilizzarono immediatamente, ma il terzo raddoppiò gli sforzi per liberarsi. Era sui vent’anni, con braccia robustissime. Le vene varicose che sporgevano all’altezza dei bicipiti lasciavano intuire lunghe ore di lavoro duro. I due uomini che lo tenevano fermo volarono quasi via: scivolarono sul fango, in una specie di danza grottesca. Carewe si protese in avanti, pistola ipodermica alla mano. L’indigeno, con una smorfia di terrore e di odio, si ritrasse così violentemente che i due uomini caddero a terra con lui.

— Cosa stai aspettando? — urlò uno dei due, disgustato.

— Scusate. — Carewe girò attorno ai due, giunse alle spalle del primitivo, gli sparò il liquido nel collo. L’indigeno si afflosciò. Dopo qualche secondo, i due uomini delle Nazioniunì lo lasciarono andare e si alzarono. Carewe si avvicinò agli altri due indigeni, che per fortuna erano completamente sottomessi e gli presentarono i polsi senza la minima resistenza. Eppure, quella loro arrendevolezza gli parve ripugnante. Continuò a tenere d’occhio il primo selvaggio a cui aveva somministrato il biostatico. Lo vide incamminarsi debolmente verso la soglia di una capanna, dove una ragazza alta lo strinse fra le braccia. La ragazza tolse dalla pettorina dell’uomo, l’unica cosa che gli coprisse il petto, qualche schizzo di fango, come una madre che si prendesse cura del figlio. Gli dal tetto di foglie, si aprirono e si chiusero lentamente. Fu come se due eliografi inviassero a Carewe messaggi dal contenuto enigmatico. “Ho rinunciato troppo in fretta ad Athene.” Quel pensiero esplose nella sua testa come una granata. “Dovrei tornare da lei.”

— Li abbiamo sistemati tutti — disse uno degli uomini in uniforme da combattimento, pulendosi la faccia dal sudore e dalla pioggia. — Andiamocene.

La mente di Carewe era sommersa da immagini di Athene. — E le donne?

— A loro non dobbiamo pensarci. Di solito si presentano spontaneamente a uno dei centri delle Nazioniunì. Sta a loro decidere.

— Oh. — Carewe rimise nella borsa la pistola ipodermica. — Le donne non contano.

— Nessuno ha detto che non contano. E solo che non se ne vanno in giro ad ammazzare gente, ecco tutto.

— Che signorilità — commentò Carewe. Gli altri si stavano preparando a incamminarsi nella direzione presa da Storche dai suoi quattro uomini. — Un attimo, per favore. Vorrei parlare col primo uomo a cui ho fatto l’iniezione.

— Io non te lo consiglierei, amico.

Nemmeno Carewe pensava che fosse una mossa intelligente; però, nella sua immaginazione, il primitivo che si era ribellato così a lungo rappresentava lui stesso. Anche se nel sangue e nei tessuti del Carewe nero non era entrato l’E-80, per cui Carewe aveva tutti i vantaggi. Si avviò nella radura al centro delle capanne, sotto lo sguardo di uomini e bambini; raggiunse la capanna sulla cui soglia era ancora fermo, a testa china, l’indigeno sporco di fango. Al suo avvicinarsi, la ragazza si ritrasse fra le tenebre dell’interno.

— Parli inglese? — chiese, incerto.

L’uomo alzò la testa. I suoi occhi trafissero come spilli lo sguardo di Carewe, in una manifestazione silenziosa ma eloquente di ostilità; poi il primitivo voltò la faccia verso la parete della capanna.

— Mi dispiace — disse Carewe, anche se capiva che era troppo poco. Stava tornando dagli uomini delle Nazioniunì, quando la ragazza uscì dalla capanna a una velocità spaventosa. Gli saltò addosso, ci fu uno scintillio metallico nella sua mano, poi la donna si tirò indietro. Carewe fissò la sua faccia trionfante per un lungo momento, prima di abbassare gli occhi a guardare il coltello che gli usciva dal petto.

Quando gli uomini delle Nazioniunì tornarono a prenderlo, lui era in ginocchio nel fango e continuava a scuotere la testa, incredulo.

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