7

Era quasi sera quando la navicella delle Nazioniunì, partita da Kinshasa e diretta a nord in volo quasi balistico, passò sopra la città di Nouvelle Anvers e fece rotta verso una radura nella foresta.

Qualche ora prima, sull’aereo di linea da Lisbona, Carewe era rimasto a guardare, speranzoso, i pochi alberi e arbusti sparsi che conferivano un aspetto bucolico alla savana, a nord. Aveva solo un’idea vaghissima di dove si trovasse la squadra Primitivi con cui la Farma era in contatto, e se la base fosse stata in quella savana, che gli sembrava una sorta di parco naturale, i mesi a venire potevano essere accettabili, persino piacevoli. Ma le caratteristiche del paesaggio erano gradualmente cambiate. Adesso la navicella volava al di sopra di una foresta di sempreverdi che sembrava in grado di ingoiare, senza lasciarne traccia, ogni essere umano in generale, e Carewe in particolare. Il suo stato d’animo s’incupì, si sentiva più teso, quasi disperato. Avrebbe dovuto rinunciare all’idea pazzesca, melodrammatica di unirsi a una squadra Primitivi il mattino stesso in cui aveva rotto con Athene. Il servizio in quelle squadre era esclusivamente su basi di volontariato. Il fatto di non partire avrebbe lasciato Athene ancora più indifferente della decisione di andare in Africa. Era tipico del carattere di Carewe piegarsi in situazioni che esigevano risolutezza, e invece assumere una rigidità illogica quando il buonsenso gli suggeriva di seguire la direzione del vento.

Mentre la nave scendeva nell’aria tranquilla e giallastra, Carewe notò, pochi chilometri a nord, un temporale stranamente localizzato. Prima che gli alberi si alzassero di colpo dal terreno, bloccandogli la visuale, ebbe il tempo di frugare con gli occhi il cielo più in alto e di scoprire lo scintillio impalpabile dei campi di controllo meteorologico. La nave atterrò all’interno della radura. I motori si spensero. Lui slacciò la cintura di sicurezza, si alzò e seguì fino all’uscita gli altri quattro passeggeri, tutti attivi barbuti e taciturni. I quattro scesero sull’erba. Ad attenderli c’era un veicolo che ripartì subito verso un’apertura tra gli alberi. Carewe si sentì completamente perso. Stava guardando fuori dal portello, incerto, assaporando quell’aria umida e aliena, quando il pilota spuntò dalla cabina di guida. Era una donna, una bionda robusta che indossava l’uniforme delle Nazioniunì. Guardò Carewe con una simpatia dolce di cui lui le fu profondamente grato.

Carewe indicò con la testa la fila d’alberi. — Sapete dirmi dove trovo il più vicino avamposto di civiltà?

— Di che ditta siete? Della Farma? — Dall’accento, la ragazza sembrava australiana o inglese.

— Della Farma — rispose lui, e il suono di quel nome familiare in un ambiente estraneo lo rassicurò un poco.

— Allora non preoccupatevi. Adesso arrivano. Ho portato provviste per loro. Prendetevela calma, per adesso. L’umidità, qui, riduce a pezzi in fretta. — La ragazza diede un’occhiata alla faccia glabra di Carewe, poi si tolse la camicia. Apparve un petto leggermente muscoloso ma molto femminile. — La settimana prossima mi sbattono nel Nord Europa, così cercherò di fare scorta di vitamine D, già che ci sono. — Gettò la camicia su un sedile e andò ad accomodarsi sugli scalini della navicella. Respirava a fondo, come per esporre il più possibile il seno al sole.

Il cuore di Carewe cominciò a battere forte. Non aveva ancora previsto tutte le conseguenze del fingere di essere freddo. In quegli anni, il costume era tornato contrario alla nudità femminile, seguendo uno dei soliti ritmi ciclici; però, quando si trovava in presenza di maschi inattivi, la maggioranza delle donne tendeva a trascurare i tabù sessuali.

— Io resto dentro — le disse. — Mi scotto subito. — Si rimise a sedere, sorpreso per le sensazioni intensissime che una ragazza non particolarmente attraente scatenava in lui. L’interno della navicella diventò tiepido. Chiuse gli occhi. Provava un senso di colpa per aver ingannato la ragazza, e doveva essere stato quello il catalizzatore…

Il rumore della portiera del camioncino che sbatteva lo risvegliò dopo un tempo indeterminato. Scese a terra. La ragazza si era rivestita e stava chiacchierando con un uomo piccolo che aveva spalle robuste, da sollevatore di pesi. La sua pancia obesa si protendeva in fuori, sotto la stoffa leggera dell’uniforme delle Nazioniunì. L’uomo aveva pochi capelli grigi, ma una barbetta argentea stava a indicare che era ancora attivo.

— Sono Felix Parma, addetto ai trasporti — tuonò rivolto a Carewe, con accento scozzese. — Chiedo scusa per il ritardo. Il computer mi aveva informato del vostro arrivo, ma credo di aver dormito troppo. Serata dura, ieri.

— Tutto a posto. — Carewe fece un passo avanti, strinse la mano tesa di Parma, fin troppo conscio che gli occhi blu dell’altro lo stavano scrutando a fondo. L’uomo emanava un odore dolce, familiare, di sudore; però Carewe si risentì all’idea che la ragazza si fosse rimessa la camicia per colpa sua. — Avete lavorato fino a tardi, ieri sera?

Parma rise e mimò in fretta i gesti rituali di una bevuta. Carewe notò che la sua faccia era piena di venuzze. — Voi ve lo fate un goccio, ogni tanto?

— A volte succede. In rare occasioni. — Carewe capì che cominciava già ad affezionarsi a quell’attivo malconcio che era sbucato dall’ignoto e gli aveva parlato col linguaggio che lui comprendeva. Non arrivava a immaginare perché mai Parma fosse giunto al punto di ridursi “in quello stato” senza disattivarsi, ma era chiaro che quell’uomo poteva essere un amico, nelle cose più essenziali.

— Mai stato in Africa?

— No.

— Allora questa è un’occasione rara, William. Non ti pare?

— Rara come poche. — “Perché mai Athene ha fatto una cosa del genere?” si chiese in un lampo.

— Allora si beve — annunciò Parma, con l’aria di chi abbia preso una decisione impegnativa. — Dammi una mano con queste scatole.

Carewe lo aiutò a trasportare dalla navicella al camioncino diversi contenitori in lega metallica, mentre la ragazza, seduta sugli scalini, si sistemava i capelli. Si chiese se anche quel gesto fosse a esclusivo beneficio di Parma: in un mondo in cui le donne erano tanto più numerose dei maschi attivi, aveva visto coppie anche più bizzarre. Quando ebbero finito di scaricare, Parma salutò la ragazza con la mano e saltò dietro il volante.

— Andiamo, William — mormorò. — È una bella pollastra, ma qui perdiamo tempo per la bevuta. — Mise in marcia. Sobbalzando, deviando di continuo, partirono nella radura.

Girandosi a dare un’ultima occhiata alla ragazza, Carewe notò di nuovo, a chilometri di distanza, quel temporale stranamente concentrato: una colonna di grigi polverosi e porpora abbacinanti che si stagliava contro il sole al tramonto, simile alla nube di un’esplosione atomica.

Sfiorò il braccio di Parma e puntò l’indice. — Cosa sta succedendo laggiù?

— È il nostro campo d’operazione, William. — Il camion si avventò su una strada già in ombra, scavata fra gli alberi impassibili. — Lavoriamo lì.

— Non capisco. Scendendo, ho visto i campi d’energia del controllo meteorologico, ma… Deve costare una fortuna risucchiare tutta quell’acqua dall’Atlantico.

— Ne vale la pena, William. Il temporale si sfoga esattamente sul villaggio dei primitivi. Da tre settimane. Ufficialmente rientra nel programma di riduzione dell’umidità di questa zona dell’Africa, ma non è questo il vero motivo per cui lo hanno creato.

— Tre settimane? Senza nessuna interruzione? — Carewe provò un vago sgomento. — E che effetto fa a quelli che ci stanno sotto?

— Li inumidisce. E li fa diventare più buoni. — Parma rise, sputò dal finestrino.

— E li fa star male.

— E li fa star male — ammise subito Parma. — Se tu fossi pratico del mestiere, capiresti che vantaggio sia avere a che fare con primitivi malridotti. Ecco perché c’è il temporale.

— Dovrebbero esistere metodi migliori.

— Infatti esistono. I gas, le armi chimiche. Sarebbero molto più pulite, veloci ed economiche, ma la Convenzione di Helsinki ci lega le mani. Vedi, William, uno di quei primitivi può ucciderti senza che nessuno dica niente; ma se solo fai un graffio a uno di quelli con una bomba, sei nei guai. — Parma accese i fari, per diradare le tenebre che scendevano in fretta, e gli alberi parvero infittirsi. — Hai mai visto un morto?

— No, naturalmente — rispose in fretta Carewe. — La pioggia li demoralizzerà, immagino.

— Appunto. Un gruppetto di quei matti decide di staccarsi dalla tribù e di tornare allo stato selvaggio. Si costruiscono un villaggio tutto loro e si danno alle razzie. Per un po’ tutto fila liscio. Poi gli immortali della zona, che non sono stupidi, si stufano e vengono a lamentarsi con noi. Però noi non ci lanciamo alla carica, non li riempiamo di botte. Non più. La prima cosa di cui si accorgono i nostri pelosi primitivi è che di colpo il clima diventa umidissimo, e dopo qualche settimana di piogge continue nella stagione secca, cominciano a pensare di aver offeso qualcuno nelle alte sfere. Dopo di che, in genere è facile convincerli a entrare nella grande società baldracca.

Carewe scrutò il profilo di Parma, un moderno Hemingway. — Ma tu da che parte stai?

— Non sto dalla parte dei primitivi, questo è certo. Non m’importa che scelgano una vita breve ed eccitante, piena di sangue e sperma e sudore e roba del genere, però non dovrebbero uccidere l’altra gente, William. È molto sbagliato che uccidano. Tanto sbagliato da giustificare uno stravolgimento del loro ambiente naturale.

In lontananza, al termine della strada dritta come una freccia, cominciarono ad apparire luci. — Per lo meno — disse Carewe, — la Convenzione di Helsinki non prevede che il controllo meteorologico possa essere un’arma.

— Credi? — Parma rise di nuovo. — Se vuoi la mia opinione, non l’hanno proibito solo perché si tratta dell’unica arma onnipresente nel mondo, sempre usata da tutti. Mai sentito parlare dei disordini di Cuba del secolo scorso, durante i tre anni di siccità? Non è una cosa a cui abbiano fatto molta pubblicità, però direi che l’America conosceva già il controllo meteorologico e che l’ha usato.

— Ma se hai appena detto…

— Torniamo al giorno d’oggi. Basta avere le risorse che garantiscano campi di controllo estesi e computer abbastanza in gamba da prevedere tutte le possibili interazioni, e si può buttare in piedi una guerra calma, di quelle proprio bastarde. Si può rovinare il raccolto di un’intera nazione, causare inondazioni, far diventare il clima così caldo e umido che la gente che si fa la riga dei capelli a destra comincia a odiare quelli che se la fanno a sinistra. È una guerra perfetta, William.

— Ancora non ho capito da che parte stai tu.

— Non importa. Io faccio il mio lavoro. Mi chiamano Parma della Farma.

Le luci davanti a loro crebbero improvvisamente. Arrivarono a un’altra radura circondata da edifici prefabbricati di varie dimensioni. Parma frenò davanti all’ultimo chalet di una fila doppia che formava una strada in miniatura, delimitata da alberi.

— Questa è casa tua — disse. — L’abbiamo messa su oggi pomeriggio. Non ci sono ancora i servizi, comunque puoi scaricare i bagagli. I ragazzi la finiranno intanto che noi due ce ne stiamo al club.

Carewe esitò. — Vorrei rinfrescarmi.

— Al club, William. Perdiamo tempo per la bevuta.

Carewe scese, spalancò la porta dello chalet e depositò la valigia fra quelle tenebre che sapevano di resina. Erano trascorse solo ventiquattr’ore da quando era uscito con Ritchie per la sua prima, strana serata da scapolo. Sperava solo che non lo aspettasse la stessa identica cosa. “Cosa starà facendo Athene ora, in questo istante?” Tornò sul camioncino. Si sentiva più che mai abbandonato a se stesso. Il veicolo ripartì, si fermò davanti a una geocupola abbastanza grande che era la sede del club. L’interno circolare, col banco al centro, aveva l’aria inconfondibile del locale gestito da una ditta per i propri dipendenti. Sul pavimento a sezioni orizzontali, tavoli e sedie pieghevoli. In una bacheca erano appesi diversi fogli: alcuni erano senza dubbio comunicazioni ufficiali, altri preannunciavano serate di follia ed erano decorati alla bell’e meglio da disegnatori dilettanti. Faceva caldo, ma Carewe rabbrividì. Quando tornò dalla toilette, Parma si era seduto a un tavolo e aveva davanti due boccali di birra da mezzo litro.

— Prima delle otto non servono altro — spiegò. — Il che dovrebbe impedire a gente come me di perdere la testa troppo presto. — Sollevò il bicchiere, lo vuotò d’un fiato, con un sorriso sdegnoso. — È di una misura molto antidemocratica e del tutto idiota.

Carewe assaggiò la birra: era fresca, ottima di sapore. Senza riflettere, imitò Parma, socchiudendo gli occhi al passaggio del liquido in gola.

— Ehi, ci sai fare con la pinta — disse Parma. La pinta era caduta in disuso come unità di misura, ma era diventata una specie di simbolo per i bevitori. — Ordina tu.

Carewe si fece dare altri due boccali dal barista, un freddo dall’aria annoiata che serviva da bere senza la minima grazia, probabilmente per far capire a tutti che di giorno svolgeva un altro lavoro, molto più importante. Nel club non c’era molta gente, ma guardandosi attorno Carewe scoprì una percentuale di freddi molto più alta di quanto non si aspettasse. Ricordò che Parma non aveva fatto la minima allusione al suo aspetto da freddo, anzi lo aveva trattato con un cameratismo imparziale che aveva risanato diverse ferite del suo ego. Per un attimo, si chiese se avrebbe sopportato meglio l’atteggiamento diverso dei suoi colleghi d’ufficio se lo avessero disattivato sul serio.

— Ci sono più freddi di quanto non pensassi — disse, appoggiando il bicchiere sul tavolo. — Come mai? Sublimazione?

— Non chiederlo a me — rispose Parma, indifferente. — Io faccio il mio lavoro e basta.

Parma bevve metà birra, infilando il naso chiazzato di vene nel boccale, e Carewe si accorse che gli piaceva sempre di più. Sedette, cominciò a sorseggiare la birra, che stranamente gli parve più forte della prima. In seguito, col passare delle ore, ogni boccale sembrò più forte del precedente però, come per magia, bastava portarselo alle labbra per veder sparire la birra. Carewe, che di birra non aveva molta pratica, si meravigliò di quelle sue doti segrete. Il locale si riempì poco per volta, cominciò a risuonare di voci poderose, e prese a girargli attorno. Le facce diventarono maschere bidimensionali, inutili; poi lui e Parma si ritrovarono all’esterno, fra le tenebre cosparse di luci. Carewe non aveva idea di dove si trovasse il suo chalet, ma l’altro lo guidò fino alla porta. Si strinsero la mano, poi Parma scomparve nella notte, senza una parola.

Carewe aprì la porta, improvvisamente desideroso di coricarsi, e abbassò l’interruttore della luce. Lo chalet rimase al buio. Ricordi vaghi gli dissero che ormai la sua abitazione doveva essere perfettamente funzionante. Quando era entrato, ore prima, aveva intravisto un quadro di comando di fronte alla porta. A mani protese, lo raggiunse, sentì sotto le dita la plastica dell’interruttore centrale. L’interruttore obbedì al suo tocco e lo chalet fu invaso dalla luce. Poi si accorse che mancava il pannello di protezione.

Per un attimo eterno fissò, senza capire, i fili ad alto voltaggio su cui solo il caso gli aveva impedito di mettere le mani. Incapace di provare sorpresa o rabbia, raggiunse lentamente il letto e si sdraiò.

Si addormentò subito. Nei sogni, il suo fragile corpo di vetro era minacciato da grandi macchine, da alberi a gomito che avanzavano ciecamente verso di lui ed erano capaci di ridurlo in polvere.

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