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Nei sogni, il suo corpo era fatto di vetro, e lui passava da una sequenza di eventi pericolosi a un’altra: era con le squadre Primitivi in Africa o nel Sudest asiatico, sputava sangue nella quarta spedizione umana su Venere, arrancava sul fondo del Pacifico in cerca di noduli di manganese. Vari tipi di distruzione minacciavano i suoi arti fragili, il suo corpo: pallottole, bombe, cadute, l’avanzata cieca di alberi a gomito che potevano ridurlo in polvere…

E Carewe, svegliandosi, aveva freddo, si sentiva solo; non bastava nemmeno la vicinanza di sua moglie a calmarlo. Capiva il significato dei sogni, ma non per questo erano meno terribili. Prima dell’avvento della biostasi, gli aveva spiegato una volta un insegnante, un gruppo di esseri umani e un gruppo di statuine di vetro possedevano cicli vitali del tutto diversi. Nel caso delle statuine, se ne rompeva qualcuna di anno in anno, finché non ne restava più nessuna; gli esseri umani, invece, arrivavano fino ai sessant’anni di media, e poi si estinguevano rapidamente. La scoperta dei farmaci biostatici significava che un uomo poteva aspettarsi una vita prolungata all’infinito, però per essere immortale doveva prendere alcune precauzioni. Un individuo capace, in potenza, di un’esistenza perenne, era “immortale”; ma bastava che l’immortale andasse a schiantarsi sul fianco di una montagna per morire. “Non abbiamo fatto altro” aveva concluso l’insegnante, “che diventare statuine di vetro.”

La responsabilità enorme di salvaguardare la propria vita terrorizzava Carewe. Morire a trent’anni, in un incidente aereo o in una gara automobilistica, era già brutto se significava perdere trent’anni di vita; però, se erano in ballo un migliaio d’anni o più, diventava impensabile. Fissando nel buio le acque scure del lago, capi un po’ meglio cosa significasse la frase “società bastarda”, coniata dal filosofo contemporaneo Osman. Significava un mondo in cui i tratti dominanti maschili erano definitivamente scomparsi. La guerra non esisteva più, fatta eccezione per le operazioni marginali delle squadre Primitivi; però, a più di due secoli di distanza dal primo atterraggio umano sulla Luna, Marte e Venere erano praticamente inesplorati. I pochi attivi pronti a lanciarsi in imprese del genere ricevevano scarsissimi incoraggiamenti dai gruppi dirigenti, tutti composti di freddi; e Carewe riusciva già a capire perché, anche se non aveva ancora perso la grande spinta biologica della virilità.

“Il futuro è pesante sulle nostre spalle” pensò. “Tutto qui.”

E i problemi del futuro immediato erano i più urgenti. L’alba stava già facendo svanire le stelle più fioche, il che significava che nel giro di poche ore sarebbero ripartiti per Three Springs; e non era ancora riuscito a raccontare ad Athene la verità sull’E.80. I tre giorni trascorsi a lago Orkney erano stati i giorni più belli dei loro dieci anni di matrimonio. Lui e Athene erano come due specchi posti l’uno di fronte all’altro. Fingendo una fede assoluta in lei, Carewe aveva creato un’immagine sublime di se stesso che rimbalzava da uno specchio all’altro (l’amore, diceva Osman, è ammettere il buongusto del partner). Ora gli si presentava la prospettiva di stravolgere lo specchio di Athene, di proiettare quel fuoco prezioso in un vuoto freddo da cui non sarebbe più riemerso, stando alle leggi della termodinamica emotiva.

Il problema di Carewe aveva anche un aspetto puramente fisico. La convinzione che lui avesse chiuso per sempre con la vita sessuale aveva avuto su Athene un profondo effetto afrodisiaco. Quasi nel tentativo di spegnere per sempre i propri ardori, in quei tre giorni lei lo aveva costretto a un’attività sessuale continua. Si era addirittura rifiutata di dormire, se non avvinghiati come una coppia appena sposata. Purtroppo, tre giorni costituivano più o meno il periodo massimo in cui gli era concesso continuare a dare prova di virilità. La biostasi produceva sul momento un eccesso di ormoni maschili, ma non oltre i tre giorni. Entro poche ore, avrebbe dovuto fingere la perdita totale di impulsi sessuali, oppure raccontare la verità ad Athene.

A peggiorare le cose, il suo stato d’animo variava da un minuto all’altro, e questo gli impediva di prendere una posizione decisa, di agire. A volte gli sembrava che non esistesse proprio nessun problema: Athene sarebbe stata felicissima di sapere che a loro, primi in tutta la storia umana, erano stati concessi vita eterna e amore eterno; altre volte, invece, Carewe accettava la realtà dell’universo chiuso che era il suo matrimonio. Deliberatamente, aveva convinto Athene di credere nella componente essenziale, asessuata, del loro amore; aveva sfruttato l’inganno, si era impadronito degli interessi emotivi che ne nascevano. Adesso era giunto il momento di confessare, e aveva paura.

Stanco, depresso, alle prime luci dell’alba decise di scegliere l’unica via di fuga a sua disposizione. Appena avesse ripreso servizio alla Farina, doveva recarsi a Randal’s Creek per un controllo medico sugli effetti dell’E.80. Esisteva la vaga possibilità che il farmaco non funzionasse. Si sentiva perfettamente normale, però (e, incredibilmente, l’idea era quasi attraente) forse si era davvero disattivato, forse era diventato freddo sul serio. Avendo presente quell’ipotesi, la cosa più logica da fare era tenere la bocca chiusa finché i medici della Farina non avessero pronunciato il verdetto definitivo. Percorso da leggeri brividi, forse di sollievo, tornò a letto.


Strettamente parlando, non ce n’era nessun bisogno; però quel mattino aveva preso il rasoio magnetico e si era tagliato la barba lunga cinque millimetri. Quando salì sul vertijet, si sentì nudo, esposto. La coordinatrice del sistema di volo, quella che un tempo si sarebbe chiamata “pilota”, era una magnifica sinfonia di capelli biondi e abbronzatura, fasciata da un’uniforme aderente. Carewe, mentre mostrava il suo credito-disco al lettore del boccaporto anteriore, le indirizzò un sorriso timido. Lei gli rispose con un sorriso impersonale, ma i suoi occhi erano già sugli altri passeggeri.

Carewe si mise a sedere, si accarezzò la faccia, guardò fuori con aria sconsolata da un finestrino. Il jet corse sulla pista per un attimo, decollò, si alzò in verticale per un chilometro circa, superò la barriera del suono. Poi si diresse verso est, volando parallelamente alle cime bianche, irregolari, delle Montagne Rocciose. In basso, le città ben distanziate degli stati dell’Ovest correvano sotto di lui, unite dalla rete di strade e tubi. Vederle fu un sollievo per Carewe. Gli davano la sensazione di appartenere a qualcosa.

La popolazione mondiale non era diminuita rispetto agli ultimi anni del ventesimo secolo, ma non era nemmeno aumentata; e quei duecento anni erano serviti a eliminare i problemi più gravi, a risolverli in maniera ottimale. La vita, all’interno di una società di statuine di vetro, tendeva a essere monotona e tranquilla però, visto che tutti avevano sulle spalle la responsabilità della propria immortalità, la sicurezza era il fattore dominante. Nessuno affrontava volontariamente un rischio. L’aereo che Carewe aveva preso per raggiungere Randal’s Creek possedeva ben tre sistemi indipendenti di guida, eppure lui era in preda all’apprensione.

“Cosa farei” si chiese, “se dovesse succedere anche un piccolissimo incidente e io mi trovassi davanti un cadavere?”

Il laboratorio di Randal’s Creek si trovava a ottanta chilometri a sud di Pueblo, nascosto all’incrocio di due vallate di montagna. Lo si poteva raggiungere solo percorrendo una strada a terra fusa, che andava benissimo per le automobili ma non per le “pallottole”, a causa del loro centro di gravità che si trovava più in alto. Quasi tutto il personale del laboratorio, ottanta persone, viveva a Pueblo o nei dintorni, e si serviva dell’elicottero di linea della Farma.

Carewe arrivò al campo di partenza di Pueblo a metà mattina. Sul grande elicottero c’erano solo altri tre uomini, tutti freddi. Barenboim gli aveva raccomandato di darsi un’aria il più normale possibile; così, durante il breve volo, fece conversazione coi tre. Li riempì di domande sul laboratorio di biopoiesi e sulla sua dislocazione, e riuscì a informarli che era un contabile dell’azienda, chiamato a Randal’s Creek per controllare alcune spese di gestione. Gli altri tre sembravano tutti sulla trentina e, a giudicare dal loro modo di fare, Carewe intuì che non dovevano essere molto più vecchi. Non avevano la determinazione gelida di Barenboim. Di colpo gli venne in mente che, non appena si fosse diffusa la notizia dell’E.80, gli altri immortali, specialmente quelli che si erano fatti disattivare da poco, avrebbero provato un certo risentimento. D’altra parte, poteva darsi che alcuni aspetti della filosofia “fredda” conoscessero il massimo momento di trionfo. Persino in età preistorica, una piccola percentuale di uomini aveva avuto il tempo di stancarsi dei piaceri del processo riproduttivo. Quindi, ammesso che ci si potesse abbandonare ai piaceri del sesso per un paio di secoli o più, a quali strane “soluzioni” si poteva arrivare? L’idea inquietante che un’immortalità asessuata offrisse i suoi vantaggi si stava ancora agitando nel cervello di Carewe quando l’elicottero virò su una collina cosparsa di pini e si abbassò verso le cupole argentee dei laboratori Farma.

Notando vagamente che l’aria era molto più calda in Colorado che nella zona di Three Springs, raggiunse di buon passo l’entrata, si avvicinò a una delle tante cabine disseminate nell’ingresso. Ci fu una pausa di pochi secondi. Il computer dell’azienda, lontano un migliaio di chilometri, controllò la sua identità, approvò la sua presenza e si servì delle microonde per aprire la seconda porta della cabina, quella che dava sull’interno dell’edificio.

— Il signor Barenboim vi aspetta nel suo ufficio al livello D non appena vi sarete presentato al signor Abercrombie, capocontabile di questi laboratori — lo informò la macchina.

— Ricevuto — disse Carewe, leggermente sorpreso. Era raro che Barenboim si recasse in visita a Randal’s Creek, ma d’altronde l’E.80 era il progetto più importante in cui si fosse mai lanciata la Farma, o qualsiasi altra azienda farmaceutica. Trovò l’ufficio del capocontabile, trascorse quasi un’ora in chiacchiere superficiali e nel tentativo di individuare le difficoltà che avrebbe dovuto appianare. Dopo un po’, capì che non si trattava tanto di un problema tecnico, quanto di intoppi nei rapporti fra Barenboim e i laboratori. Abercrombie, un freddo grassoccio, con occhi attenti, acquosi, sembrava perfettamente in sintonia con la situazione. Trattò Carewe con una certa freddezza, quasi pensasse di avere di fronte il braccio destro di Barenboim. Quella reazione lo divertì. Era un anticipo di quello che gli sarebbe successo una volta diventato dirigente; però provava continuamente il bisogno di chiedere scusa. Lasciò Abercrombie appena possibile e raggiunse il livello D.

L’appartamento di Barenboim era più piccolo e un po’ meno lussuoso di quello della sede centrale. La pupilla della porta si socchiuse, riconobbe Carewe, e il pannello di legno scivolò di lato. Entrando, lui avvertì l’aroma di caffè di cui Barenboim si circondava sempre sul lavoro.

— Willy, Willy! — Barenboim, che stava seduto dietro una scrivania rosso-azzurra, attraversò la stanza e strinse la mano di Carewe. I suoi occhi danzarono nelle orbite profonde. — Che piacere rivederti!

— Sono contento d’incontrarti di nuovo, Hy.

— Meraviglioso — disse Barenboim. Tornò ad accomodarsi dietro la scrivania e indicò una poltrona a Carewe.

— Ah, sì. — “Non so se è poi tanto meraviglioso” pensò Carewe. “Sono stato via solo pochi giorni.” Capì, per la prima volta, che Barenboim si sforzava di comportarsi da attivo o, per lo meno, non da freddo; il che gli ricordò che i loro rapporti erano del tutto artificiali, basati unicamente su un insieme di circostanze.

— Be’, com’è andata? Ti è piaciuto il viaggio?

— Tutto benissimo. Di questa stagione, il lago Orkney è meraviglioso.

Sulla faccia di Barenboim passò per un attimo un’ombra di impazienza. — Non m’interessa il paesaggio. Come va la tua libido? Funziona ancora?

— Puoi scommetterci. — Carewe rise. — Mai stato più voglioso.

— Perfetto. Vedo che ti sei tagliato la barba.

— Ho pensato che fosse meglio.

— Forse, ma d’ora in poi usa un depilatore. La tua pelle ha una sfumatura bluastra che ti fa sembrare meno freddo che mai.

Carewe avvertì un soffio di piacere, ma fu attentissimo a nasconderlo. “Quella cagna che guidava l’aereo” pensò, “dev’essere cieca.” — Ne comprerò uno oggi stesso — disse.

— Nemmeno per idea, mio giovane Willy. Nessuno deve sospettare che tu non ti sia fatto un’iniezione normalissima. Cosa penserebbe la gente se vedesse un freddo acquistare un depilatore?

— Scusa.

— Sono proprio questi i particolari a cui dobbiamo stare attenti. Te ne darò uno io prima che tu riparta. — Barenboim osservò la pelle rigonfia, bianca, delle sue mani. — Adesso togliti i vestiti.

— Eh?

Barenboim si lisciò dolcemente, con la punta di un dito, le sopracciglia. — Ci servono campioni di tessuto di tutto il tuo corpo per controllare la riproduzione cellulare e, naturalmente, dovremo controllare il livello degli spermatozoi.

— Capisco… però pensavo che fosse uno dei nostri biochimici a eseguire gli esami.

— Ma capisci che tutto il laboratorio verrebbe a conoscenza dei risultati? No, non è il caso. Manny Pleeth è molto meglio di me come biochimico, però in questo momento è fuori, quindi farò da solo. Non preoccuparti, Willy. La porta è chiusa, e io ho diversi anni d’esperienza.

— Certo, Hy. Ho reagito d’istinto. — Carewe si alzò. Colto dal sospetto improvviso che in tutta quella storia ci fosse qualcosa di terribilmente sbagliato, cominciò a togliersi i vestiti.


Aspettava da più di trenta minuti all’aeroporto di Three Springs, e solo allora gli venne in mente che forse Athene non sarebbe andata a prenderlo. A metà pomeriggio, l’area di sbarco era quasi deserta. Carewe entrò in una cabina telefonica, disse il numero di casa sua e fissò impaziente lo schermo, aspettando che apparisse la faccia di Athene. In dieci anni di matrimonio, era la prima volta che lei non lo andava a prendere quando era di ritorno da un viaggio. Cercò di tranquillizzarsi: si trattava solo di una coincidenza; era un caso che lui, per quanto ne sapeva Athene, rientrasse freddo per la prima volta. Lo schermo scelse i colori della sua gamma elettronica, gli mostrò un’immagine bidimensionale della faccia di sua moglie.

— Ciao, Athene. — Carewe aspettò di vederla reagire.

— Ciao, Will — disse lei, indifferente.

— È mezz’ora che ti aspetto all’aeroporto. Credevo che venissi a prendermi.

— Me n’ero dimenticata.

— Oh. — Forse era solo per effetto dell’immagine bidimensionale, ma per un attimo la faccia di Athene gli parve quella di una donna estranea, ostile.

— Okay, adesso lo sai. Vieni a prendermi o no?

Sua moglie si strinse nelle spalle. — Come preferisci.

— Se ti dà troppo disturbo — disse Carewe, impietrito, — noleggio una pallottola all’aeroporto.

— Va bene. Ciao. — L’immagine svanì, diventò uno sciame di farfalle colorate che svanirono in un grigio sterminato. Carewe si toccò il mento liscio, e un’infinità di emozioni ribollirono dentro di lui. Nel giro di qualche secondo, capì che in realtà si trattava di una sola emozione: tristezza. Athene era forse l’unica persona che lui conoscesse capace di trattare gli altri con onestà assoluta, capace di affermare il contrario di quello che aveva detto pochi minuti prima, senza imbarazzo o rimorsi, se nel frattempo il suo modo di vedere era cambiato. Certe volte, aveva acquistato un vaso costoso e lo aveva fracassato lo stesso giorno; altre volte lo aveva convinto ad andare in vacanza in un posto scelto da lei, e appena arrivati, se il posto non le andava, si era rifiutata di fermarsi. Era possibile che fosse capace di manipolare i suoi sentimenti per anni, giurargli che il suo amore per lui non sarebbe cambiato nemmeno se lui si fosse fatto disattivare, e poi, nel giro di una settimana, trattarlo con aria sprezzante?

La risposta, lo sapeva già, era sì.

Se Athene avesse scoperto che lui, privato della sua sessualità, non significava più niente, non avrebbe mentito. Si sarebbe liberata subito di quella situazione, anche a costo di sembrare crudele; avrebbe cercato altre soluzioni. Tutte le volte che aveva pensato alla disattivazione, Carewe aveva fissato, come limite massimo per la durata del suo matrimonio, un anno; ma aveva sempre saputo che poteva trattarsi solo di un mese, una settimana. “Devo dirglielo” urlò una voce dentro di lui. “Devo correre da mia moglie e raccontarle la verità sull’E.80.”

Uscì dalla cabina, corse al parcheggio. Mentre tornava a casa, spinto dall’enorme pressione dell’aria, continuò a ripetersi mentalmente quello che le avrebbe detto. Gli esami di Barenboim avevano confermato che l’E.80 funzionava. Carewe era immortale, ed era ancora maschio. Quindi, il matrimonio con Athene poteva ricominciare da capo, andare avanti all’infinito. Le avrebbe detto la verità, gliel’avrebbe dimostrata con tutta la forza del suo desiderio. “Avremo figli.” Quel pensiero gli fermò il tremito delle dita. “Appena finirà l’effetto dell’ultima pillola che ho preso, avremo figli…”

Quando Carewe parcheggiò la pallottola davanti a casa,tutte le finestre erano opacizzate. Entrando, scoprì che l’interno era immerso in un’oscurità quasi totale. L’unica fonte di luce erano le stelle proiettate sul soffitto. Le pareti erano tutte rientrate. Dapprima pensò che Athene fosse uscita, poi la vide sdraiata su un divano, persa a fissare le costellazioni che ruotavano. Carewe raggiunse il quadro comandi e schiarì le finestre. La casa venne invasa dalla luce del sole.

— Sono tornato — annunciò, per quanto fosse superfluo. — Ho cercato di fare il più in fretta possibile.

Athene non si mosse. — Sei davvero un fenomeno, Will. Nemmeno la disattivazione riesce a farti perdere il ritmo. Bravo. — L’ira fredda di quelle parole lasciò Carewe sbalordito.

— Devo parlarti, Athene. C’è qualcosa che non sai.

— C’è qualcosa che anche tu non sai, tesoro. Prendi! — Lei gli lanciò un piccolo oggetto scintillante, che lui afferrò al volo. Era un disco color argento con una macchia rossa al centro di una faccia.

— Non capisco — disse Carewe, lentamente. — Sembra un indicatore di gravidanza.

— E infatti lo è proprio. La disattivazione non ha influito nemmeno sulla tua vista.

— Ma continuo a non… Di chi è?

— È mio, naturalmente. — Athene si mise a sedere, lo guardò. La sua palpebra sinistra ricadde in basso. — Me lo sono messo sulla lingua stamattina e ha preso quel grazioso colore rosso.

— Tu scherzi. Non puoi essere incinta perché ho preso la pillola da meno di un mese e… — Carewe s’interruppe. Un sudore freddo gli bagnò la fronte.

— Ci sei arrivato. — L’occhio di Athene era quasi chiuso. La sua faccia era una maschera sacerdotale di collera repressa. — Hai sempre saputo benissimo di che stoffa sono fatta, Will. A quanto pare, non riesco a vivere senza la mia solita dose di sesso. Non eri ancora via da due giorni che avevo già un altro uomo nel tuo letto. O dovrei dire che un altro uomo ha avuto me nel tuo letto?

— Non ci credo — ribatté lui, debolmente. — Mi stai raccontando una bugia, Athene.

— Sul serio? Allora guarda. — Lei prese un altro disco d’argento dal comodino e, con l’aria di un prestigiatore che esegua un numero, se lo mise sulla lingua. I suo occhi erano freddi, divertiti. Tolse il disco dalla lingua e lo mostrò a Carewe. Il lato che era entrato in contatto con la lingua aveva al centro una macchia rossa. — Adesso cosa mi dici?

— Ecco qui tutto quello che ho da dirti. — La stanza si allontanò da lui di anni luce. Carewe ascoltò la propria voce che diceva ad Athene quello che pensava di lei, usando ogni parola oscena che conoscesse, finché la continua ripetizione non le privò di significato.

Athene sorrise con aria beffarda. — Non c’è male, Will. Però la violenza verbale non può sostituire la violenza fisica.

Carewe si guardò le mani. Ogni dito eseguiva movimenti spasmodici da solo, indipendentemente dagli altri. — Chi è?

— Perché?

— Voglio saperlo. Chi è il padre?

— E cosa vorresti fare? Costringerlo a riprendersi il figlio?

— Dimmelo. E subito. — Carewe deglutì forte. — Sarà meglio che tu me lo dica subito.

— Mi annoi, Will. — Athene chiuse gli occhi. — Vattene, per favore.

— D’accordo — disse lui, dopo che fu trascorsa un’infinità di tempo. — Me ne vado, perché se resto qui potrei ucciderti. — Quelle parole parvero inutili e vacue persino alle sue stesse orecchie.

Quando lui uscì, salì sulla pallottola e ripartì, Athene era ancora distesa sul divano, con un sorriso tranquillo sulle labbra.

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