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Al di sopra dell’aeroporto, il cielo del mattino era chiarissimo e sgombro, a eccezione dell’enorme colonna di vapore che circondava il campo tubolare per l’assorbimento del suono. L’aria a livello del suolo, relativamente calda, filtrava nel campo attraverso minuscole fessure e saliva velocissima, trasformando il tubo in una specie di reattore invisibile che si scaricava su strati più alti dell’atmosfera. Carewe, che era arrivato presto, guardò diversi velivoli rollare alla base della colonna di nubi, alzarsi in verticale e svanire. Cercò di seguirli con lo sguardo fino in alto, quando riemergevano dal campo e ripartivano in orizzontale, ma il chiarore diffuso del cielo gli feriva gli occhi. Fu costretto a rinunciare.

Adesso capiva che arrivare presto all’aeroporto era stato un errore. Il liquore bevuto la sera prima non faceva più effetto. Si sentiva irrequieto e avvertiva una vaga sensazione di nausea, nonostante che avesse preso la solita capsula di ossigeno e acido ascorbico. Gli restava troppo tempo per pensare al futuro immediato. In teoria, era possibile che si trovasse impegnato in un’azione della squadra Primitivi quel pomeriggio stesso. Ogni volta che quel pensiero gli si presentava, lo faceva trasalire. Fissò le cime lontane delle Montagne Rocciose con un insieme di nostalgia e risentimento. “Non voglio andare in Africa” pensò. “E, soprattutto, non voglio avere a che fare con nessun primitivo. Ma com’è successo?” Improvvisamente gli tornò tutta la rabbia nei confronti di Athene.

S’incamminò verso una fila di cabine telefoniche, imprecando sottovoce; poi ricordò che non aveva niente da dirle. A livello pratico, concreto, avrebbe potuto informarla che partiva; solo che a quello ci avrebbe pensato automaticamente il computer della Farma, al primo pagamento di crediti. A livello emotivo, avrebbe voluto dirle: — Vedi cos’hai fatto? Mi hai spinto a scappare in Africa, dove un primitivo potrebbe uccidermi. — Ma persino quella rivincita infantile gli era negata, un po’ per il suo orgoglio e un po’ perché sapeva che la persona con cui voleva parlare, la vecchia Athene, non esisteva più. Era del tutto inutile parlare a quella sconosciuta dagli occhi implacabili che ora viveva nel corpo di Athene. Di colpo ripensò a quanto fosse sempre stato orgoglioso del suo matrimonio singolo, così bizzarro, fuori moda… Un’unione che era sopravvissuta di poche ore alla sua presunta impotenza. Persino il modo in cui lei gli aveva confessato la verità aveva qualcosa da insegnargli. Athene non aveva dimostrato nessun rimpianto, nessuna emozione; solo un disprezzo totale per l’oggetto neutro che un tempo era suo marito. “Soltanto poche ore! Ma che schifo di…”

Si accorse che gli altri passeggeri in attesa del volo lo fissavano. Allentò la stretta sulla valigia, si costrinse a sorridere a una donna vestita di rosa che gli sedeva accanto con un bambino in grembo. La donna lo fissò senza restituire il sorriso. Dopo un po’ lui si allontanò, andò a prendersi un caffetè al distributore automatico, lo bevve distrattamente. Quando annunciarono il suo volo, si spostò con gli altri sulla cinghia mobile. Il primo strattone della cinghia gli ricordò che il viaggio era ormai iniziato e lo precipitò di nuovo nel panico. Si costrinse a rilassarsi, a calmare il ritmo del respiro finché non fosse giunto a bordo dell’aereo, dove avrebbe potuto abbandonarsi alle preoccupazioni per la propria incolumità fisica.

Nei suoi quarant’anni di vita, aveva fatto un centinaio di viaggi su aerei di linea; e non riusciva a ricordarne nemmeno uno in cui non avesse riscontrato, nell’apparecchio o nella strumentazione, un difetto minimo ma potenzialmente fatale. Poteva trattarsi di un, lieve odore di bruciato, di una traccia d’umidità sui serbatoi all’estremità alare, di una nota insolita nel ronzio del motore: tutte cose che un professionista del volo non si sarebbe preso il disturbo di notare, ma che risultavano fin troppo ovvie ai sensi tesi di un dilettante intelligente. In questo caso, non era troppo soddisfatto della bombola a pressione che, nell’eventualità di un disastro, avrebbe fatto uscire, dallo schienale del sedile di fronte a lui un grande pallone di plastica, avvolgendolo completamente. Gli sembrava che la bombola non fosse perfettamente allineata col boccaglio. Quindi, poteva darsi che la bombola non fosse più sigillata, che il gas fosse già uscito.

Stava per chiedere allo steward ogni quanto tempo venisse controllata la pressione delle bombole, quando una donna gli si sedette a fianco. Era vestita di rosa. Stava cercando, senza riuscirci, di slacciare la fibbia dello zaino che conteneva un bambino. Carewe riconobbe la donna che aveva già visto all’aeroporto.

— Permettetemi — le disse, in un gesto di cortesia ormai passato di moda. Infilò un dito sotto la fibbia, sollevò il coperchietto di plastica, fece scattare la molla, e la fibbia si aprì.

— Grazie. — La donna tolse il bambino, che se ne stava zitto, dallo zaino e se lo mise in grembo. Carewe ripiegò lo zaino, lo infilò sotto il sedile della donna, si appoggiò all’indietro sullo schienale; poi si chiese se dovesse dirle che il fermaglio della fibbia gli era sembrato mostruosamente debole. Decise di no. La donna non dimostrava troppa fiducia nei suoi confronti, per non dire che gli era apertamente ostile. Comunque, la sua mente si soffermò a riflettere sull’aspetto curioso della fibbia in acciaio inossidabile. In un punto, il metallo era sottile come un foglio di carta. Sembrava quasi (un pensiero inquietante si agitò ai livelli più bassi di coscienza) che risalisse a molto, molto tempo addietro. Lo sapevano tutti che l’acciaio poteva resistere per decenni prima di…

Si allontanò i capelli dalla fronte e sfruttò quel gesto per dare un’occhiata alla faccia della donna. I suoi tratti pallidi, regolari, erano tranquilli, composti. Carewe si rilassò leggermente, quasi vergognandosi di quello che aveva pensato. Due secoli prima, quando era stato sintetizzato il prodotto biostatico perfetto, il governo si era affrettato a prendere provvedimenti contro il suo abuso più pericoloso. Le pene previste per chi somministrasse illegalmente il biostatico a un minorenne erano talmente severe che in pratica la cosa non si verificava mai; ma nei primi tempi si era verificata un’infinità di casi bizzarri e ripugnanti. Quelli più diffusi e più difficili da far cessare riguardavano genitori che mettevano in biostasi i propri figli. Madri follemente attaccate ai figli, specialmente quelle che non possedevano i mezzi per garantirsi una sicurezza economica protratta all’infinito, cercavano di fermare il tempo rendendo immortali i bambini ai loro primi anni di vita. E non appena il biostatico entrava in circolo, bloccando i meccanismi di riproduzione cellulare, lo sviluppo fisico del bambino si arrestava. Ne risentiva enormemente anche lo sviluppo intellettuale, perché le circonvoluzioni cerebrali, indispensabili per la crescita della superficie della corteccia cerebrale, non potevano più presentarsi. Un bambino “congelato” per sempre all’età di tre anni poteva diventare eccezionalmente intelligente, persino farsi una cultura; ma, sostanzialmente, restava sempre un bambino, perché non poteva sfruttare le funzioni mentali superiori.

Si erano riscontrati anche abusi della biostasi a sfondo economico. Il caso più famoso restava quello di St. John Searle, il giovanissimo soprano che i genitori avevano reso immortale all’età di undici anni per il solo motivo che costituiva la loro unica fonte di guadagno. Quel fatto, e diversi bambini attori che conservavano troppo a lungo un aspetto infantile, avevano portato a una legislazione severissima e a stretti controlli sulla produzione e la distribuzione dei biostatici. I soli casi in cui la legge ammetteva la biostasi per i minorenni erano quelli di malattie incurabili. Bloccata la riproduzione delle cellule, il bambino malato veniva salvato da una morte prematura, però il problema morale restava, in quanto lo stato di malattia diventava perenne, immutabile. Anche se in seguito la scienza medica trovava un rimedio, il bambino immortale restava com’era, perché la struttura del suo fisico era stata cristallizzata per l’eternità.

Un altro problema era nato dall’uso dei biostatici sugli animali. Durante i primi periodi di produzione febbrile, quando alcuni industriali si costruirono una fortuna dal niente perché tutti tentavano disperatamente di sottrarre i propri ammalati alla morte, parecchie persone resero immortali i loro animali. In seguito, gli usi veterinari della biostasi erano, stati severamente limitati; ma le corse dei cavalli e altre attività affini in cui la vera età di un animale aveva un’importanza primaria ne erano state sconvolte. Grazie alla condizione di benessere assoluto che la biostasi induceva in un organismo sano, era scoppiata una vera e propria mania per la carne di ovini, bovini e suini immortali, mania che non era del tutto scomparsa nemmeno alla fine del ventiduesimo secolo…

Accorgendosi che qualcuno lo stava fissando, Carewe girò la testa. Il bambino che la donna teneva in grembo aveva scostato i lembi della coperta che lo avvolgeva, e la luce che filtrava dagli oblò illuminava la sua faccia rosea, da bambolotto. Due occhi azzurro oceano (intelligenti, eppure imprigionati in una psicosi eterna per l’incapacità infantile di distinguere fra l’ego e il mondo esterno) lo guardavano allegramente. Il piccolo protese una mano, e Carewe, istintivamente, si ritrasse. La donna notò la reazione e strinse più forte il bambino al seno. I suoi occhi scrutarono Carewe, in una sfida momentanea; poi lei si perse nella contemplazione degli orizzonti privati di un universo a cui ogni altro essere umano era estraneo.

“Ha sei mesi” pensò Carewe, in preda a un panico irrazionale. Il bambino dimostrava sei mesi, ma in realtà poteva avere la stessa età di Carewe. Lui restò ad ascoltare per qualche secondo il rombo dei motori, poi si alzò, in cerca di un sedile vuoto. L’unico sedile disponibile era quello accanto allo steward. Carewe vi si sedette, e cominciò a battersi un’unghia sui denti.

— Vi ha fatto effetto, eh? — Lo steward parlava in tono comprensivo.

— Chi?

Lo steward indicò la donna con un cenno della testa. — La signora Denier. L’Olandese Volante. A volte penso che dovremmo farle pagare biglietto doppio.

— La conoscete?

— Tutti quelli che lavorano sulla linea per Lisbona conoscono la signora Denier.

— Vola spesso? — Carewe cercò di non sembrare troppo interessato.

— Non spesso, però regolarmente. Ogni primavera. Dicono che lei e suo marito e il bambino siano stati coinvolti in un disastro su questa linea, anni fa. Il marito morì.

— Oh! — Carewe decise che non voleva saperne altro. Respirò a fondo quell’aria che sapeva di plastica e si mise a guardare fuori. L’aereo cominciava a muoversi.

— Lei ha fatto dieci anni di galera per avere disattivato il figlio, e da allora fa un volo su questa linea ogni primavera, regolarmente.

— Che storia macabra.

— Dicono che cerchi di rivivere il passato, oppure di ammazzarsi come il marito, ma io non ci credo. Probabilmente ha affari da sbrigare. Le donne non stanno a piangere per tanto tempo.

L’aereo raggiunse il centro del campo tubolare, e il rombo del motore crebbe d’intensità. Era il momento che Carewe detestava maggiormente: il velivolo iniziava la salita in verticale, e in caso di guasto ai motori non c’era né il tempo né la velocità sufficiente per salvarsi. Cercò di distogliere la mente dai pericoli del volo. — Non vi ho sentito — disse. — I motori.

— Ho detto che le donne non cullano rimpianti per tanto tempo.

— Cioè?

— La stima massima di cui ho sentito parlare è trent’anni. Ci credereste?

Carewe scosse la testa, ripensò all’acciaio logoro della fibbia. Il metallo non poteva essersi rovinato così tanto in trent’anni: L’aereo si lanciò verso l’alto, procedendo a strattoni; Carewe afferrò i braccioli della poltrona e si chiese se per caso non fosse quello l’anno destinato a soddisfare i desideri della signora Denier.

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