«Dio mio!» sussurrò Hutchman. «Ma perché l’hanno rapita?»
Crombie-Carson abbozzò un sorriso, come per dire che apprezzava quello stupore ma che, d’altra parte, aveva visto molti colpevoli reagire esattamente in quel modo. «Sono in tanti che vorrebbero conoscere la risposta. Per esempio, dove siete stato tutta la sera?»
«Qui a casa.»
«C’è qualcuno che può confermarlo?»
«No.» Se Audrey è stata rapita, pensava Hutchman sbalordito, evidentemente aveva già parlato con qualcuno, a parte Welland. A meno che Welland a sua volta abbia riferito a…
«Vostra moglie?»
«No. Mia moglie no, è andata dai suoi.»
«Già» disse Crombie-Carson, ricorrendo a quella parola che, Hutchman lo capiva, valeva per tutte le occasioni. «Signor Hutchman, ho il sospetto che intendeste lasciare la zona, nonostante la mia richiesta di non allontanarvi.»
Hutchman adesso era veramente preoccupato. «Vi assicuro che non avevo quell’intenzione. Del resto, dove sarei andato?»
«Cosa c’è in quella valigia?»
«Niente.» Lucas ammiccò sotto la luce violenta, che gli scaldava la faccia. «Niente di quello che voi immaginate. Si tratta di corrispondenza.»
«Vi spiacerebbe aprirla?»
«No.» Hutchman aprì lo sportello della macchina, tirò la valigia sul bordo del sedile e fece scattare la chiusura. Il raggio luminoso danzò sulle buste, riflettendosi sugli occhiali dell’ispettore.
«Grazie, signor Hutchman. Dovevo accertarmene. Adesso, se non vi spiace, chiudete la valigia in macchina o riportartela in casa, e accompagnatemi alla polizia di Crymchurch.»
«E perché?» La situazione, ormai, sfuggiva interamente al controllo di Hutchman.
«Credo che potreste aiutarmi nelle indagini.»
«È un modo per dirmi che sono in arresto?»
«No, signor Hutchman. Non ho motivo per arrestarvi, ma posso chiedervi di collaborare nelle indagini. Se necessario, posso…»
«State tranquillo» disse Hutchman, fingendosi rassegnato. «Verrò con voi.» Richiuse la valigetta, l’appoggiò sul fondo della macchina e chiuse lo sportello. Crombie-Carson lo spinse nel sedile posteriore nell’auto della polizia e gli salì accanto. L’interno della macchina sapeva di vernice e di aria stantia, messa in circolazione dal riscaldamento. Hutchman sedeva rigido, e osservava le luci che fuggivano dietro i finestrini, con l’attenzione acuta di un bambino che parte per le vacanze o di un uomo che viene trasportato in sala operatoria. Non era abituato a viaggiare dietro, e la macchina gli sembrava lunghissima e ingombrante. Il guidatore in divisa abbordava le curve con abilità incredibile. Erano le dieci quando arrivarono in città e, nella sera di domenica, tutti i locali erano affollati. Lucas riconobbe le finestre di Joe’s illuminate da una luce gialla e, bruscamente, il suo senso d’avventura lo abbandonò. Adesso avrebbe voluto entrarci per un’ultima ora spensierata, davanti a boccali di birra scura da buttar giù, da nuotarci dentro, fino al momento di ritornare a casa.
«Quanto tempo ci vorrà?» chiese ansiosamente a Crombie-Carson. Non aveva ancora parlato da quando era salito in macchina.
«Oh, non molto. Non c’è niente di speciale. È una faccenda normalissima, ve lo assicuro.»
Hutchman annuì. L’ispettore era decisamente affabile, e Lucas pensò che dopo una mezz’ora sarebbe stato fuori, che avrebbe dedicato altri trenta minuti a una birra e a far quattro chiacchiere con amici mai visti prima, a dare una sbirciata alla scollatura della padrona… Un uomo senza legami di famiglia deve accontentarsi di questi piaceri. L’ultimo, veramente, era un compenso piuttosto magro, però c’era il ricordo del suo grosso fiasco con Audrey. Forse la presa che Vicky aveva su di lui si sarebbe allentata, adesso che lei aveva rinunciato ai suoi diritti. E Audrey, quella sera, era stata troppo aggressiva. Dove sarà in questo momento? E Vicky, cosa starà facendo? E David? E cosa mi succederà? Lucas chiuse gli occhi, sentendo crescere l’inquietudine.
«Da questa parte, signor Hutchman.» Crombie-Carson lo guidò verso un’entrata laterale nell’area di parcheggio, gli fece percorrere un corridoio e una sala arredata da un tavolo, simile al bureau di un albergo, con qualche pianta di palma. Finalmente entrarono in una stanza con pochi mobili. «Prego, accomodatevi.»
«Grazie.» Hutchman sentì che ci avrebbe messo più di trenta minuti, per uscire di lì.
Crombie-Carson sedette dall’altra parte del tavolo, senza togliersi l’impermeabile. «Adesso vi farò qualche domanda, e l’agente qui presente metterà a verbale il nostro colloquio.»
«Va bene» disse Hutchman, debolmente, chiedendosi cosa sapeva, o sospettava, l’ispettore.
«D’accordo. Quale condizione del vostro impiego, voi conoscete le norme sulla sicurezza interna e avete firmato un documento in cui vi impegnate a osservarle?»
«Sì.» Hutchman ripensava a quell’inutile pezzo di carta che aveva firmato entrando alla Westfield e che non aveva mai avuto influenza sulla sua attività.
«Non avete mai rivelato particolari del vostro lavoro alla Westfield a qualche persona non vincolata dallo stesso impegno?»
«No.» Hutchman si rilassò leggermente. Crombie-Carson si arrampicava sull’albero sbagliato e poteva continuare così all’infinito.
«Sapevate che la signorina Knight è iscritta al partito comunista?»
«Non sapevo che avesse la tessera, però conoscevo le sue tendenze politiche.»
«Dunque ne eravate al corrente?» La faccia dell’ispettore era attentissima.
«Mi pare che non ci sia niente di male. Certi operai della fabbrica di missili sono rossi, e vanno a passare le vacanze a Mosca. Ma non significa che siano agenti segreti!»
«Gli operai della vostra fabbrica non mi interessano, signor Hutchman. Non avete mai parlato con la signorina Knight del vostro lavoro alla Westfield?»
«No, naturalmente. Fino a ieri non l’avevo più vista, da anni.» Hutchman rimpianse di averlo detto, prima ancora di aver finito di parlare. «Già. E perché vi siete rincontrati?»
«Per nessuna ragione particolare.» Lucas alzò le spalle. «L’ho vista per caso all’Istituto Jeavons, l’altro giorno, e ieri le ho telefonato. In ricordo dei vecchi tempi, potrei dire.»
«Voi potreste dirlo. E cosa ha detto vostra moglie?»
«Sentite, ispettore.» Hutchman si aggrappò al metallo freddo della tavola. «Mi sospettate di aver tradito il mio paese o mia moglie? Decidetevi.»
«Come? Non sapevo che le due attività fossero compatibili. Secondo la mia esperienza, sono spesso collegate. Non c’è dubbio che l’aspetto freudiano del pensiero di una spia-tipica sia uno dei suoi caratteri dominanti.»
«Può darsi.» Hutchman era scosso dall’acutezza del commento dell’ispettore: si ricordava perfettamente quei tremendi minuti di insicurezza che aveva provato subito dopo l’incontro con Audrey, al Camburn Arms. «Comunque, non ho commesso né adulterio, né spionaggio.»
«Il vostro lavoro è importante?»
«Moderatamente. È anche noiosissimo. Uno dei motivi per cui sono certo di non averne mai parlato con nessuno, è che farei scappare tutti, se ne parlassi.»
Crombie-Carson si alzò, si tolse l’impermeabile e lo posò su una sedia. «Cosa sapete della scomparsa della signorina Knight?»
«Solo quello che mi avete detto voi. Immaginate dove possa trovarsi?»
«Avete qualche idea del perché tre uomini armati siano entrati nel suo appartamento e l’abbiano portata via?»
«No.»
«Avete idea di chi sia stato?»
«No. E voi l’avete?»
«Signor Hutchman» disse l’ispettore, spazientendosi. «È meglio se il colloquio tra noi si svolge nel modo tradizionale. È sempre più costruttivo se io faccio le domande!»
«Va bene. Però lasciate che mi preoccupi per la sorte di un’amica. Mi avete detto che…»
«Un’amica? Non sarebbe meglio dire conoscente?»
Hutchman chiuse gli occhi. «Avete un linguaggio molto preciso, ispettore.»
In quel momento la porta si aprì ed entrò un sergente, con una cartella di pelle. La posò sul tavolo, davanti a Crombie-Carson, e uscì senza parlare. L’ispettore l’aprì e tirò fuori otto fotografie. Non erano le tipiche fotografie segnaletiche, ma erano istantanee ingrandite di molti uomini. Alcune foto erano ritratti, qualcun’altra era stata ricavata da istantanee con diversi personaggi. Crombie-Carson le stese davanti a Hutchman.
«Esaminate attentamente queste facce, e ditemi se le avete mai viste.»
«Non ricordo di averle mai viste» gli rispose lui dopo aver guardato le foto. Ne alzò una e cercò di voltarla, ma la mano di Crombie-Carson lo bloccò.
«Queste le tengo io.» L’ispettore raccolse i rettangoli e li rimise nella cartella.
«Se avete finito con me» disse Hutchman «avrei voglia di una birra.»
Crombie-Carson rise, incredulo, e guardò lo stenografo, alzando le sopracciglia. «Non sperateci neppure.»
«Ma cosa volete ancora da me?»
«Ve lo dico subito. Abbiamo appena concluso una parte del nostro colloquio. In questa prima parte io tratto i miei interlocutori cortesemente, con il rispetto a cui ha diritto il cittadino che paga le tasse, fino al momento in cui mi accorgo che non intende collaborare. Adesso questa parte è finita e voi mi avete fatto capire che, di vostra spontanea volontà, non intendete aiutarci. D’ora in poi, signor Hutchman, avrò la mano un po’ più pesante. Anzi, molto pesante.»
Lucas lo guardò a bocca aperta. «Ma non potete! Non avete niente contro di me!»
Crombie-Carson si sporse sopra il tavolo. «Fatemi un po’ di credito, amico mio. Sono un professionista. Ogni giorno ne affronto degli altri, e in genere ho la meglio io. Credevate sul serio che avrei lasciato che un dilettante come voi mi intralciasse la strada?»
«Dilettante di cosa?» domandò Hutchman, cercando di nascondere il panico.
«Non so esattamente in cosa siate immischiato o, per lo meno, non ancora, però sono certo che avete combinato qualcosa. Siete anche un emerito bugiardo, ma non me ne importa niente perché questo fatto mi facilita il compito. Ma quello che realmente mi disturba è che siete una specie di menagramo ambulante.»
Sono l’uomo al piano zero, ripeteva una voce nella testa di Hutchman. «A cosa alludete?»
«Oggi, da quando siete uscito quatto quatto dalla vostra graziosa villetta, una donna è stata rapita e due uomini sono morti.»
«Due uomini! Ma…»
«Mi ero dimenticato di dirvelo?» Crombie-Carson aveva un tono studiatamente apologetico. «Uno dei tre uomini che ha rapito la signorina Knight ha sparato, uccidendo un passante che si era intromesso.»
La seconda parte del colloquio fu durissima, come l’ispettore aveva predetto. Una serie di domande che sembravano non finire più. Spesso riguardanti particolari trascurabili, a volte gridate a volte sussurrate, spirali di parole che si avvolgevano intorno al cervello di Hutchman. Insinuazioni che, se non erano individuate e controbattute immediatamente, rischiavano di trascinarlo a dire la falsità o la verità che non andava detta. Ellissi radenti, pensò a un certo punto Hutchman e, nella sua stanchezza, pensò di aver trovato una definizione assolutamente eccezionale. Alla fine della prova aveva la mente così annebbiata che si trovò a letto in una stanza per ospiti, pulita ma senza finestre della sede di polizia, prima di accorgersi che non lo avevano lasciato andare a casa. Fissò la porta con rabbia, dicendosi che, se fosse stata chiusa, l’avrebbe presa a calci. Ma erano praticamente quarantotto ore che non dormiva, e il suo cervello era stato torchiato selvaggiamente da Crombie-Carson, per cui pensò bene di rimandare il tutto al mattino.
Si addormentò immediatamente.
Lo svegliò il rumore della porta che veniva aperta. Convinto di aver dormito solo pochi minuti, Hutchman diede un’occhiata all’orologio e scoprì che erano le sei e dieci. Sedette e si accorse che aveva indosso un pigiama grigio: guardò la porta che si apriva, per lasciar passare un agente che reggeva un vassoio con un tovagliolo. La stanza si riempì del profumo di pancetta e di tè carico.
«Buongiorno, signore» disse il poliziotto. «Vi ho portato la colazione. Spero che vi piaccia il tè molto forte.»
«Va bene così.» A dire il vero, Hutchman lo preferiva leggero, ma in quel momento era tutto preso da un pensiero molto più importante. Era lunedì, e bisognava imbucare le altre buste. L’impazienza lo fece parlare con voce strozzata. «Immagino di potermene andare quando voglio.»
L’agente levò il tovagliolo, piegandolo meticolosamente. «Dovrete parlarne con l’ispettore Crombie-Carson, signore.»
«Allora non sono libero di andarmene?»
«È una faccenda che riguarda l’ispettore.»
«Non raccontatemi storie. Voi, di servizio in sede, saprete bene chi può andarsene e chi no.»
«Dirò all’ispettore che desiderate parlargli.» L’agente posò il vassoio sulle ginocchia di Hutchman e si diresse alla porta. «Non fate raffreddare la colazione.»
«Un momento! C’è l’ispettore, stamattina?»
«No, signore. Ieri ha avuto una giornata pesante, ed è andato a casa a dormire. Probabilmente ci sarà nel pomeriggio.»
La porta si chiuse sulle ultime parole dell’agente, prima che Hutchman riuscisse a liberarsi del vassoio: in quel momento capì che gli era stato messo sulle ginocchia per immobilizzarlo. L’appoggiò sul tavolino da notte e andò alla porta. Era chiusa. Fece il giro della stanza finché arrivò di nuovo al letto. Il prosciutto era mal cotto, e nelle uova strapazzate avevano messo troppo burro: una poltiglia unta e gialla. Hutchman prese la tazza del tè e provò a berne una sorsata. Era troppo dolce e troppo forte, però abbastanza caldo. Bevve piano, assaporando le scosse leggere che gli correvano nei nervi a ogni sorso. Il tè non aveva certo un valore nutritivo, però, se non altro, lo aiutava a pensare.
Nel pomeriggio, con tutta probabilità, sarebbe arrivato in tempo a spedire gli ultimi plichi. Ma che garanzia aveva di essere libero? L’agente aveva detto che, probabilmente, Crombie-Carson sarebbe venuto nel pomeriggio, però, anche ammettendo che lo facesse, non era detto che avvertissero Hutchman. E così, un passo alla volta, c’era il rischio che l’ispettore mettesse finalmente le carte in tavola e dicesse che intendeva trattenerlo per qualche giorno, se non di più. Hutchman tentò di farsi venire in mente i diritti legali del cittadino. Sapeva che i poteri della polizia, compreso quello di trattenere gli indiziati senza spiegazioni, da tre anni a questa parte erano stati estesi, come misura restrittiva della società, per combattere la violenza dilagante. Nella sicurezza della sua vita di prima Hutchman aveva approvato che la polizia avesse maggiore autorità, le rare volte che aveva pensato a quel problema. Adesso non lo sopportava.
Il lato peggiore della faccenda era che lui sapeva benissimo perché avrebbero potuto trattenerlo, mentre non aveva la più vaga idea del perché la polizia lo faceva. Welland era morto, Audrey era stata rapita dal suo appartamento e un terzo, innocente, era stato ammazzato per strada. Tutto questo, come aveva giustamente intuito Crombie-Carson, era un risultato diretto delle azioni di Hutchman. E cosa stava succedendo ad Audrey, in quel preciso momento? Se i Sovietici, o chiunque fosse, l’avevano sequestrata, lei avrebbe rivelato tutto quello che sapeva. Al che si sarebbero messi in contatto con Whitehall, e un gruppo di uomini senza volto sarebbe venuto a Crymchurch, a cercarlo.
Hutchman finì il tè e fece una smorfia quando sentì sotto la lingua lo zucchero non ancora ben sciolto. Fabbricando la macchina aveva aperto la caccia contro se stesso. Non aveva importanza chi l’avrebbe fatto fuori, ma al momento della cattura ci sarebbero stati brindisi a Whitehall, al Pentagono e al Cremlino. Oltre che a Pechino e a Parigi. E lui stava lì, tranquillo, col pigiama del governo addosso, come un insetto tremante che aspetta di essere schiacciato. Eppure potevano arrivare, da un momento all’altro!
Con uno scatto di energia, balzò in piedi e cercò i suoi vestiti. I pantaloni, la maglia e la giacca scura erano appesi in un armadio a muro. Si vestì rapidamente e si frugò in tasca. Non avevano toccato niente, compreso il denaro, quanto gli rimaneva di quello che gli aveva dato Vicky perché lo versasse sul conto, e un piccolo temperino. La lama era lunga al massimo due centimetri e mezzo, e l’oggetto costituiva un’arma molto meno efficace dei pugni o dei calci. Lucas si guardò attorno in cerca di ispirazione, poi andò alla porta e cominciò a prenderla a calci, colpi lenti e ritmici che producevano il massimo rumore. La porta, a dire il vero, faceva ben poco rumore, ma dopo qualche minuto sentì girare la serratura. Quando la porta si aprì vide il giovane agente di poco prima accompagnato da un sergente.
«Ma che vi prende?» gli chiesero, sdegnati. «Perché date calci alla porta?»
«Voglio uscire.» Hutchman partì verso il corridoio, cercando di toglierli di mezzo. «Non avete diritto di tenermi sotto chiave.»
Il sergente lo cacciò indietro. «Restate dove siete, finché l’ispettore non vi dirà che potete andare. E se ricominciate a dare calci alla porta, vi lego mani e piedi. Chiaro?»
Hutchman annuì docilmente, si voltò e poi, con uno scatto, si buttò fuori. Si trovò miracolosamente in corridoio e finì dritto tra le braccia di un terzo poliziotto. Era più grosso dei altri due messi assieme, una specie di maroso in divisa azzurra che trascinò sulla cresta Hutchman senza il minimo sforzo, ricacciandolo nella stanza.
«La vostra è stata una cretinaggine» disse il sergente. «Avete aggredito un pubblico ufficiale, potrei anche trasferirvi in cella. Perciò vi consiglio di starvene quieto il più possibile.»
Sbatté la porta, lasciando Hutchman più solo e più prigioniero di prima. Il labbro superiore, che era entrato in collisione con un bottone della divisa, gli faceva male. Si mise a camminare avanti e indietro per la stanzetta, scosso da un tremito e cercando di accettare il fatto di essere prigioniero e che, anche se la sua causa era giusta e se parecchie vite umane dipendevano dalla sua, non sarebbe certo intervenuto un fulmine per abbattere quelle pareti. Ma è una follia, pensava, avvilito. Io che posso far ballare i neutroni non riesco a mettere nel sacco dei poliziotti di provincia? Sedette sull’unica seggiola, cercando un sistema per recuperare la libertà. Poco dopo si avvicinò al letto e tolse le lenzuola, scoprendo un materasso di gommapiuma.
Lo guardò per qualche secondo, prese il temperino e cominciò a ritagliare il materiale spugnoso. In un primo tempo lo strato esterno, più duro, resistette ai suoi sforzi, ma l’interno si lasciò tagliare senza difficoltà. Un quarto d’ora dopo aveva ritagliato un pezzo a forma di bara, lungo all’incirca un metro e ottanta. Lo arrotolò, lo compresse al massimo e lo ficcò nel tavolino da notte, richiudendo lo sportello con una certa difficoltà. Finita l’operazione, si allungò nel letto proprio dove la sua operazione chirurgica aveva messo allo scoperto le molle. Sotto il peso cedettero leggermente, ma il materasso restò all’incirca com’era, alto tre centimetri più della sua faccia. Soddisfatto dei risultati raggiunti, si mise a sedere e tirò di nuovo le lenzuola sul letto. Non era facile, lavorando da sotto, disporre cuscini e lenzuola come in un normale letto disfatto, e, prima di aver finito, era inondato di sudore.
Allora restò immobile, in attesa, accorgendosi soltanto allora di avere un gran sonno arretrato.
Si risvegliò dall’assopimento involontario perché la porta si apriva. Trattenne il respiro per non provocare nessun movimento sospetto. Una voce di uomo imprecò violentemente. Sentì un calpestio di passi che correvano al letto, poi all’angolo dei servizi nascosti dietro una tenda. Finalmente i passi tornarono verso il letto. L’uomo invisibile, quando s’inginocchiò per guardare sotto il letto, borbottò qualcosa nel suo orecchio. Hutchman si irrigidì temendo che le molle incurvate sotto il suo peso lo tradissero, ma i passi si allontanarono.
«Sergente!» Sentì la voce soffocata chiamare in corridoio. «È scappato.»
La porta era rimasta aperta, ma Hutchman vinse la tentazione di lanciarsi fuori. Poco dopo la sua scarsa conoscenza della psicologia poliziesca fu ricompensata: un rumore di passi, stavolta appartenenti a un gruppetto di uomini, risuonò in corridoio di corsa. I passi irruppero nella stanza, ripercorsero esattamente gli itinerari di prima e poi si allontanarono. Anche stavolta, come capì Hutchman tendendo l’orecchio al massimo, la porta non era stata chiusa. Finora il suo piano aveva avuto successo ma, a questo punto, bisognava formulare un giudizio difficilissimo. La polizia riteneva che lui fosse scappato o invece si sarebbero messi a frugare l’edificio? In questo caso era meglio che restasse dov’era, anche se rischiava che qualcuno venisse a rifare il letto.
Aspettò una ventina di minuti, innervosendosi sempre di più, tendendo l’orecchio a tutti i rumori del palazzo: porte sbattute, telefoni che squillavano in distanza, risate e scoppi di voce. Per due volte sentì dei passi che si muovevano fuori della stanza senza una meta precisa, e una volta si accorse che erano passi di donna, ma fu abbastanza fortunato perché quell’ala del corridoio non era molto frequentata. Alla fine si convinse che non facevano una perquisizione sistematica dello stabile. A questo punto buttò via le lenzuola e scese dal letto. Uscire in corridoio era senza dubbio un rischio enorme, e Hutchman fece un grosso fagotto di coperte e lenzuola trasportandolo fuori della stanza. Gli uomini che erano venuti a cercarlo arrivavano da destra, così girò a sinistra. Percorse il corridoio, spiando le porte da dietro il voluminoso riparo di lenzuola bianche. In fondo trovò una porta di ferro, dipinta di grigio, con su scritto in rosso: USCITA DI SICUREZZA. L’aprì e, sempre carico delle sue lenzuola, scese la scaletta di cemento. Arrivato alla fine si trovò libero, a guardarsi attorno nella luce color grigio acciaio della metà mattina, in un posteggio. Sull’area c’erano poche auto parcheggiate, e non c’era nessuno.
Hutchman attraversò deciso il posteggio e un passaggio che dava sulla via principale di Crymchurch. La sede di polizia era alla sua sinistra. Infilò la via nella direzione opposta, facendo uno sforzo per non mettersi a correre, con la faccia affondata nelle lenzuola. Al primo angolo svoltò a destra, e solo in quel momento si abbandonò alla sensazione di essere tornato libero. Ma quella pace non durò a lungo.
Sono lontano diversi chilometri da casa, pensò. E le buste sono laggiù.
Voleva chiamare un taxi, ma poi ricordò che a Crymchurch erano una rarità. L’idea di rubare una macchina era la più sconvolgente rispetto a tutto quello che aveva fatto da quando aveva rotto i legami con la società. Quel furto sarebbe stato il suo primo reato vero, e non era neanche sicuro di riuscirci. Però non aveva altra scelta. Cominciò a esaminare i cruscotti delle macchine parcheggiate lungo la strada. Due isolati più avanti, dove il centro commerciale di Crymchurch si confondeva con la zona residenziale, avvistò il luccichio della chiave infilata nel cruscotto di un’automobile. Non era proprio quello che gli serviva: era un nuovo modello di sicurezza dell’industria sussidiata dal governo, con quattro sedili rivolti all’indietro mentre solo il posto del guidatore guardava in avanti. Tutte quelle macchine erano dotate di un sistema che limitava la velocità a cento chilometri all’ora.
Dopo attenta riflessione, Hutchman decise che era meglio non commettere infrazioni alle norme del traffico. Si guardò attorno per essere sicuro che il proprietario non fosse nei paraggi, lasciò cadere a terra il mucchio di lenzuola e salì. Il motore si avviò al primo giro di chiave, e Lucas si allontanò velocemente. Non c’è male per un dilettante, pensò, con un momento di gioia da bambino. Ma attento a non presumere troppo, mio caro Hutch!
Attraversò la periferia della città abituandosi lentamente ai comandi, e rimase scosso quando vide per un attimo la sua faccia con la barba lunga nel retrovisore. Era una faccia stanca e disperata, la faccia di uno sconosciuto a cui si dava la caccia. Quando arrivò a casa passò lentamente davanti all’edificio, soddisfatto di vedere che non c’erano poliziotti. Poi si fermò e tornò, a marcia indietro, lungo il viale. La sua macchina, con i finestrini appannati per l’umidità, era ferma dove l’aveva lasciata. Parcheggiò l’auto rubata e scese. Intanto guardava la casa con nostalgia, chiedendosi cosa avrebbe fatto vedendo Vicky a una finestra. Ma due bottiglie di latte posate accanto alla porta gli rivelarono che lei non era tornata. Simboli. Due punti indicatori che segnavano la fine del suo dialogo con lei. In quel momento, gli occhi gli si velarono.
Si frugò in tasca e trovò la chiave della sua macchina. Anche quella partì al primo colpo e, un minuto dopo, filava verso nord, incontro all’inverno.