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Ed Montefiore era abbastanza giovane per avere incominciato a lavorare ai calcolatori, e abbastanza vecchio per essere arrivato al vertice del suo settore, privo di un nome ben definito, del Ministero della Difesa.

Il fatto che fosse noto, nella misura possibile a un uomo della sua posizione, come un mago dei calcolatori, era più una questione di economia che una capacità particolare. In realtà, Montefiore aveva un istinto, un talento, un dono che gli permetteva di riparare qualunque tipo di macchina. Non gli importava di conoscere lo schema della macchina, e neanche di sapere a cosa serviva l’apparecchio. Se la macchina era guasta, bastava che ci mettesse su le mani, che entrasse in comunione con lo spirito di chi l’aveva costruita, per scoprire il guasto. Trovato il difetto, se in quel momento aveva voglia di farlo, sistemava rapidamente e facilmente ogni cosa, altrimenti spiegava a un altro cosa bisognava fare e se ne andava soddisfatto. Anzi, da quando aveva cominciato a sfruttare quella sua capacità particolare, aveva smesso quasi subito di eseguire direttamente le riparazioni. Guadagnava di più diagnosticando i guasti che riparandoli.

E di tutti i campi a cui era possibile applicare il suo talento, quello dei calcolatori, si era detto Montefiore, era sicuramente il più redditizio. Aveva passato diversi anni a diagnosticare i guasti, spostandosi nel giro di un’ora da un capo all’altro del mondo, per curare i calcolatori e le batterie dei calcolatori da malattie che i tecnici locali non erano riusciti a sistemare, facendo un mucchio di soldi e conducendo una vita principesca in mezzo a una quantità di cariche.

Proprio quando cominciava ad averne abbastanza di quella vita, il governo aveva fatto i primi approcci alla lontana, a proposito del progetto MENTORE. Come individuo, Montefiore detestava l’idea di un calcolatore unico, immenso, che nella sua banca a dati multipli contenesse tutte le informazioni militari, sociali, finanziarie, criminali e industriali di cui aveva bisogno il governo per il controllo del paese. Però, come uomo dotato di un immenso talento che richiedeva sempre nuovi termini di confronto, si buttò nel progetto senza alcuna riserva. Non gli interessava minimamente la parte tecnica della costruzione della macchina, anche perché le varie parti componenti MENTORE erano relativamente convenzionali e solo collegate assieme diventavano eccezionali. Però tenere in perfetta efficienza coordinata quella struttura immane gli aveva dato una soddisfazione quasi completa. Naturalmente gli aveva anche conferito promozioni, responsabilità e un certo tipo di potere. Nessun cervello umano era in grado di assimilare i dati accatastati nel MENTORE per più di una frazione di minuto, però Montefiore era l’unico ad avere libero accesso alla macchina e sapeva scegliere tra le varie informazioni. In realtà, conosceva tutto quello di cui valeva la pena.

Adesso, mentre se ne stava alla finestra del suo ufficio, il dato base nella sua mente era che stava succedendo qualcosa di molto grave. Un’ora prima gli aveva telefonato il segretario del ministro, con un messaggio molto semplice: Montefiore era pregato di rimanere in ufficio fino a nuova chiamata. Non c’era, nella comunicazione, niente di particolarmente insolito, però il messaggio gli era stato comunicato sul telefono rosso. Montefiore, una volta, aveva fatto il conto che, se un giorno il telefono rosso avesse realmente suonato, v’erano sette probabilità contro una che i missili intercontinentali stessero per fare il balzo verso gli strati superiori dell’atmosfera. Le parole di McKenzie l’avevano in parte tranquillizzato, però gli avevano lasciato un brutto presentimento.

Montefiore era un uomo di statura media, con grosse spalle muscolose e una faccia da ragazzo. Aveva il mento piccolo, ma deciso. Esaminandosi nello specchio del caminetto bianco, decise malinconicamente che, per qualche settimana, doveva bere meno birra. Poi cominciò a chiedersi se l’appello del telefono rosso non avesse messo fine alle bevute di birra, sue e di tutti gli altri. Tornò alla finestra e, mentre guardava i tetti degli autobus che avanzavano lentamente, la segretaria gli annunciò al citofono che il signor McKenzie e il generale Finch stavano per arrivare. Finch era a capo di un gruppo di uomini che, tra le altre mansioni, potevano decidere se premere o meno certi pulsanti. Montefiore, in teoria non avrebbe dovuto neppure conoscere il legame esistente tra Finch e il Comando strategico dell’Aria. Provò un attimo di sgomento nel sentire il nome del generale, e rimpianse di non essere rimasto nell’ignoranza primitiva.

I due uomini entrarono in silenzio, muniti di borse, e si strinsero la mano con un minimo di formalità. Erano entrambi clienti del servizio di informazione del MENTORE e Montefiore li conosceva bene. Lo trattavano sempre con molta cortesia, però la loro estrema correttezza gli ricordava ogni volta che tutta la sua magia in fatto di elettronica era impotente contro la barriera di classe. Lui proveniva dalla piccola borghesia, mentre quei due appartenevano all’aristocrazia. Su questa faccenda niente era cambiato perché nessuno parlava mai di queste cose nella Gran Bretagna dell’emancipazione cockney. McKenzie, alto, colorito, additò una manopola sul tavolo di Montefiore. Lui annuì e la girò, mettendo in azione un apparecchio elettronico che, entro il suo raggio d’azione, impediva anche il funzionamento di un telefono normale. In questo modo era impossibile registrare quello che si diceva lì dentro.

«Di cosa si tratta, Gerard?»

Montefiore si serviva, per principio, del nome di battesimo, e aveva giurato che se qualcuno dei suoi clienti altolocati avesse trovato a ridire su questa abitudine, lui, molto semplicemente, avrebbe abbandonato il progetto MENTORE e si sarebbe rifiutato di tornare ad occuparsene finché il suo diritto di chiamare Trevor Trevor non venisse ratificato.

«Di una faccenda molto grave» disse McKenzie guardando Montefiore dritto negli occhi, cosa che non gli era abituale. Aprì la borsa, ne estrasse delle fotocopie piene di formule e di disegni e le posò sul tavolo.

«Leggete questo.»

«Va bene.» Montefiore scorse le pagine con rapidità professionale e, all’impressione di un disastro imminente, seguì un sollievo immenso. «Fino a che punto ci credete?»

«Il credere non c’entra. Il fatto è che tutta la parte matematica è già stata controllata e trovata esatta.»

«Sì? E da chi?»

«Sproale.»

Montefiore rimase un po’ sopra pensiero. «Se Sproale dice che va bene… E la macchina?» E riesaminò i disegni.

«Sia Rawson sia Vialls hanno dichiarato che è possibile costruire una macchina come quella e che è in grado di fare il lavoro di cui si parla nella lettera.»

«Ed esiste veramente? È questa la domanda a cui volete che risponda?»

«Vogliamo l’uomo che ha scritto la lettera» disse Finch, irritato. Era un uomo asciutto e atletico, per essere sulla cinquantina. Era anche, come ben sapeva Montefiore, il cliente del MENTORE a cui la sua familiarità dava più fastidio.

«In fondo è la stessa cosa, Roger.» Montefiore cercò il tono meno militaresco possibile. «Appena lo troviamo risponderà a tutte le nostre domande.»

Gli occhi di Finch erano cattivi. «È una faccenda urgentissima.»

«Me ne rendo conto, Roger.» Montefiore, evitando di prendere subito in considerazione il problema, aveva aumentato la sua eccitazione, ma adesso si buttava nel compito gradevole di stabilire dei parametri. «Che dati abbiamo su quest’uomo? Che cosa ne sappiamo? Che è un uomo si capisce dalla scrittura, a meno che non abbiamo a che fare con una donna disposta a fare un lungo giro per far perdere le sue tracce.»

«Ma che senso ha?» Finch fece un gesto d’irritazione, come per darsi un colpo di frustino sulla coscia.

«Potrebbe essere che una donna abbia costretto un uomo a scrivere al suo posto, e poi l’abbia ammazzato» disse Montefiore.

«Sciocchezze!»

«Va bene, Roger. Mi state dicendo che in questa crisi nazionale non devo includere tra i sospetti una dei trenta milioni di donne del paese?»

«Calma, Ed» disse McKenzie, e Montefiore notò con soddisfazione che aveva adoperato il nome di battesimo. «Sapete benissimo che non andiamo mai a caccia nelle vostre riserve. E sono sicuro che voi siete in grado di apprezzare meglio di qualunque altro come, proprio qui, in questo compito, stia la giustificazione di ogni soldo speso per il MENTORE.»

«Lo so, lo so.» Montefiore ne aveva abbastanza di prendere in giro i due uomini, ora che il problema richiedeva tutta la sua intelligenza e la sua dedizione. «L’autore di queste carte è, probabilmente, un maschio adulto, in buone condizioni di salute, ammesso che la scrittura riveli qualcosa. Quando si può avere il giudizio del perito calligrafo?»

«In qualunque momento.»

«Va bene. Possiede un cervello matematico di prim’ordine. Se non erro, questo diminuisce il campo di ricerca dalla scala un milione alla scala migliaia. Tra queste migliaia, un uomo, dando per scontato che la macchina sia effettivamente costruita, ha speso di recente una somma notevole in apparecchiature scientifiche. Le centrifughe a gas, tanto per fare un esempio, non sono molto comuni, e inoltre c’è l’impiego del praseodimio…» Montefiore andò verso la porta.

McKenzie gli corse dietro. «Dove andate?»

«In cantina» rispose tranquillamente. «Mettetevi pure comodi, signori. Sarò di ritorno fra un’ora.»

Mentre l’ascensore ad alta velocità lo portava in basso, fino allo strato di roccia dove l’unità centrale di MENTORE era in attesa nel suo ambiente controllato e fatto su misura per lui, Montefiore provò un senso di pietà per l’uomo ancora sconosciuto che aveva preso su di sé la parte del salvatore e che, tra breve, sarebbe salito sulla croce. Quaranta minuti dopo, finito il compito, puntò i piedi quando l’ascensore cominciava la risalita. Diede un’occhiata all’unico foglio che teneva nella destra.

«Può darsi che tu sia un brav’uomo, Lucas Hutchman» disse forte. «Ma non c’è dubbio che sei uno stupido.»


L’ispettore James Crombie-Carson era a disagio. Ricordava perfettamente di aver descritto Hutchman come un menagramo ambulante, ma non aveva previsto che l’influsso maligno di quell’uomo potesse coinvolgere anche lui. In primo luogo era già andato al tappeto davanti all’Ispettore Capo, dopo aveva fatto sbellicare dalle risa l’intera sede di polizia e, per conclusione, aveva attirato l’attenzione dei giornalisti che, con il ben noto interesse per le stupidaggini, stavano mettendo in piazza tutti i particolari della fuga di Hutchman. E adesso lo aspettava un colloquio con il Sovrintendente e un tipo misterioso che veniva da Londra.

«Di cosa si tratta?» domandò al sergente di servizio.

«Non lo so, signore. Il capo ha detto che quando avrà bisogno di voi, suonerà.» Quel sergente non era molto cordiale.

Crombie-Carson guardò, con risentimento, il legno lucido della sala conferenze. «Mi fanno perdere un sacco di tempo! Ma non lo sanno che io ho altro da fare?»

Andò avanti e indietro per la stanza, cercando di scoprire che cosa s’era inceppato nella sua carriera. L’errore grosso era stato di mollare la guardia, di cominciare a pensare di essere fortunato come lo sono di solito tutti. La cosa irritante era che altri suoi colleghi accettavano tranquillamente la loro buona sorte, e attribuivano i successi alle proprie capacità. Secondo una storiella famosa, il primo arresto dell’Ispettore Capo Alison, che adesso sembrava così soddisfatto di sé, era stato un individuo che aveva tentato di ribaltare le accuse di molestie telefoniche con oscenità. Crombie-Carson, per un momento, assaporò la storiella, poi i suoi pensieri ritornarono a Lucas Hutchman.

Era evidente che quell’individuo aveva venduto dei segreti missilistici, o si preparava a farlo. Crombie-Carson conosceva perfettamente il tipo: università, tennis e canottaggio, moglie ricca: troppo di tutto, insomma. O era un malvivente gentiluomo, o quella Knight lo teneva in pugno. Era anche un emerito bugiardo, però gli mancava quella praticaccia che certa gente è costretta a farsi, volendo sopravvivere. Ogni volta era costretto a rivedere da capo tutti i suoi scrupoli. Forse quella Knight aveva saputo da lui qualcosa di veramente importante e aveva tentato di prendersi una fetta extra di torta, offrendo la sua merce a qualcuno.

Il citofono ronzò sul tavolo, e il sergente fece un cenno a Crombie-Carson. Lui si tolse gli occhiali, se li infilò in tasca e entrò nella sala conferenze, dov’erano seduti tre uomini. Uno di loro era uno sconosciuto, in abito scuro.

«Il dottor Rea del… sì, del Ministero della Difesa» disse Alison. «È venuto da Londra per rivolgervi qualche domanda sul caso Hutchman.»

Crombie-Carson gli strinse la mano. «Molto lieto. Avevo immaginato che forse sarebbe venuto qualcuno da Whitehall.»

«Sì?» disse incuriosito Rea. «Cosa ve l’ha fatto pensare?»

«Il lavoro che Hutchman svolgeva alla Westfield. Un esperto di missili teleguidati e implicato in maneggi sospetti con un gruppo di comunisti. Parrebbe del tutto ovvio…»

Rea sembrò soddisfatto. «Ah, sì. Dunque, voi lo avete interrogato in questa sede per molte ore.»

«È così.»

«Parlava liberamente?»

Crombie-Carson corrugò la fronte, per capire dove l’altro voleva arrivare. «Sì, parlava liberamente, ma il problema era quanto di ciò che diceva era vero.»

«Senz’altro. Immagino che avrà cercato di nascondere qualche cosa, ma come ha parlato di sua moglie?»

«È tutto nel verbale» disse Crombie-Carson. «Comunque non ha detto molto.»

«Sì, ne ho una copia, però voi gli avete parlato prima dell’interrogatorio e siete abituato a leggere tra le righe, ispettore Crombie-Carson. Vi siete fatto l’idea che la signora Hutchman fosse immischiata in questo affare? A parte il fatto che si tratta di suo marito, naturalmente.»

«No, lei non c’entra.» Crombie-Carson pensava alla moglie di Hutchman, così delicata e abbronzata, e si chiedeva quale follia avesse travolto il marito.

«Ne siete certo?»

«Ho parlato a Hutchman per diverse ore. E anche a sua moglie, abbastanza a lungo. Non sa niente della faccenda.»

Rea diede un’occhiata a Alison e l’Ispettore Capo fece un segno di assenso, appena percettibile. Crombie-Carson provò uno slancio di gratitudine per il suo superiore. Per lo meno non avrebbe permesso che quella ridicola faccenda del materasso oscurasse vent’anni di servizio.

«Va bene.» Rea si guardò le mani ben curate, anche se deturpate da macchie color sabbia, dovute al fegato. «Secondo voi, com’erano i rapporti tra Hutchman e sua moglie?»

«Non molto buoni. Quella Knight…»

«Non c’erano legami affettivi, insomma.»

«No, non è questo» disse in fretta Crombie-Carson. «Ho avuto l’impressione che si creassero l’inferno, tra loro.»

«È probabile che Hutchman cerchi di mettersi in contatto con lei?»

«Forse.» Crombie-Carson aveva gli occhi affaticati, ma resistette all’impulso di infilare gli occhiali. «Ma forse potrebbe farle più male non cercandola. Tengo d’occhio la casa dei suoi, nell’eventualità che…»

«Abbiamo ritirato gli uomini» disse il Sovrintendente Tibbett, intervenendo per la prima volta. «Il dipartimento del dottor Rea ha assunto in proprio la responsabilità di sorvegliare la casa della signora Hutchman.»

«Ma era necessario?» Crombie-Carson si mostrò offeso, per far vedere agli altri che aveva ancora fiducia nei suoi mezzi.

Rea annuì. «I miei uomini hanno più esperienza, in questo tipo particolare di operazioni.»

«Va bene. E il controllo telefonico?»

«Ci siamo assunti anche quello. Prendiamo in mano noi l’intera operazione. Sapete quanto sia delicato il campo dei missili teleguidati, ispettore.»

«Certamente.»

Quando, poco dopo, uscì dalla sala conferenze, Crombie-Carson era contento che non si fosse parlato della fuga di Hutchman, ma si era convinto che il caso avesse molte altre ramificazioni di cui non gli avevano parlato.

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