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Hutchman prese dal tavolo il foglio protocollo, gli diede un’occhiata e si accorse che stava succedendo qualcosa di molto strano alla sua faccia.

Una sensazione di gelo, partendo dalla radice dei capelli, si allargò, come un’ondata al rallentatore, sulla fronte, le guance e il mento. Dove arrivava l’onda gelida, la pelle pizzicava dolorosamente, e lui aveva l’impressione che i singoli pori, uno dopo l’altro, si aprissero e richiudessero come folate di vento in un campo di grano. Si portò la mano alla fronte e si accorse che era appiccicosa, madida di sudore freddo.

Sudo freddo, pensò turbato, aggrappandosi volentieri a quel particolare di nessun rilievo. Si può davvero sudare freddo, non è un modo di dire!

Si asciugò la faccia, poi si alzò stendendo le gambe. Erano molli. Il foglio di carta sul tavolo rifletteva il sole con una luce malevola. Hutchman guardò le colonne di numeri che aveva allineato sulla pagina e, di colpo, la sua mente rifiutò di pensare a quello che significavano. Che scrittura anonima! In certi punti le cifre sono tre, quattro volte più grosse che in altri. È un segno di mancanza di carattere.

Macchie di colore indefinito, malva e zafferano, vagavano dietro la parete di vetro molato che lo separava dalla sua segretaria. Afferrò il rettangolo di carta e l’infilò nella tasca della giacca, ma la macchia di colore non veniva dalla sua parte, si spostava verso il corridoio. Hutchman aprì la porta e mise la testa nella stanza di Muriel Burnley. La segretaria aveva la faccia guardinga e contegnosa della direttrice di un piccolo ufficio postale su un corpo stranamente sexy che era, per lei, soltanto una ragione di imbarazzo.

«Uscite?» Hutchman disse la prima parola che gli venne in mente, mentre si guardava attorno con aria imbarazzata, nell’ufficio troppo angusto e ingombro di classificatori color verde oliva. I manifesti turistici e le piante con cui lo aveva arredato Muriel aumentavano, se possibile, l’atmosfera di claustrofobia. Lei guardò, con aria perplessa e un po’ risentita, la sua mano destra sulla maniglia della porta e la tazza di caffè con il pezzo di cioccolata che reggeva nella sinistra. Poi fissò l’orologio che segnava le dieci e mezzo, ora in cui, di solito, interrompeva il lavoro e passava il quarto d’ora di intervallo in corridoio in compagnia di un’altra segretaria. Non disse niente.

«Volevo soltanto sapere se Don è in ufficio» inventò Hutchman. Don Spain era il ragioniere che aveva l’ufficio di fronte a quello di Muriel più i servizi in comune.

«Lui!» La faccia di Muriel, dietro le lenti color vetro bruno-antico che separavano i suoi occhi dal resto del mondo, era sprezzante. «Sarà qui solo tra mezz’ora: oggi è martedì.»

«E che cosa succede il martedì?»

«È il giorno dell’altro lavoro.» Muriel parlava con ostentata lentezza.

«Ah!» In quel momento Hutchman si ricordò che Spain teneva i conti di una panetteria dall’altra parte della città, e che di solito se ne occupava il martedì. Avere un secondo impiego, gli faceva spesso notare Muriel, voleva dire infrangere le norme della società! In realtà, la causa vera della sua irritazione era che Spain, per colpa della panetteria, le dava tutte le sue lettere da battere.

«Va bene, allora. Andate pure a prendervi il caffè.»

«Stavo andandoci» gli rispose lei, chiudendosi la porta alle spalle con decisione.

Hutchman ritornò in ufficio e tirò fuori dalla tasca il foglio coperto di simboli matematici. Reggendolo per un angolo, sul cestino metallico della carta, gli diede fuoco, con l’accendino da tavolo. La carta bruciava stentatamente creando un quantità enorme di fumo irritante, quando la porta dell’ufficio di Muriel si aprì. Ombre grigie si mossero dietro il vetro smerigliato, e la chiazza confusa di una faccia spiò nella stanza. Hutchman lasciò andare la carta, spense la fiamma e, velocemente ricacciò i resti in tasca. Un secondo dopo Spain si affacciò nell’ufficio, con il solito sorriso da cospiratore.

«Ah, sei qui, Hutch» disse con voce roca. «Come te la passi?»

«Non troppo male.» Hutchman era piuttosto agitato e consapevole che l’altro se ne accorgeva. «Sì, insomma, non c’è male.»

Spain sorrise ancor più apertamente quando sentì che c’era sotto qualcosa. Era un uomo basso, con un inizio di calvizie e l’aria disordinata, con le guance grigio-ardesia e una smania quasi patologica di sapere tutto il possibile sulla vita privata dei colleghi. Preferiva il materiale di natura scandalosa, ma, in mancanza d’altro, era disposto ad accettare qualunque tipo d’informazione. A Hutchman con gli anni, era venuto un timore quasi morboso di quell’ometto e dei suoi metodi pazienti, inquisitori.

«Qualcuno mi ha cercato, stamattina?» chiese Spain, entrando nell’ufficio con aria decisa.

«Che io sappia no. Stattene pure tranquillo per un’altra settimana.»

Spain incassò l’allusione all’altro lavoro e, per un secondo, guardò Hutchman con intenzione. Lui improvvisamente, si sentì contaminato e rimpianse di aver detto quelle parole che, in un certo senso, lo associavano alle attività di Spain.

«Ma che odore c’è, qua dentro?» Spain era preoccupato. «C’è qualcosa che brucia?»

«Ha preso fuoco il cestino della carta. Ci avevo buttato un mozzicone non spento.»

Gli occhi di Spain brillarono increduli. «Ma sul serio, Hutch? Hai proprio buttato una cicca accesa? Hai rischiato di dar fuoco a tutta la fabbrica.»

Hutchman, con un’alzata di spalle, prese una scheda dal tavolo e cominciò ad esaminarla. Si trattava dei dati riguardanti un lancio di prova di due missili Jack-and-Jill. Ne aveva già fatto lo spoglio, ma voleva che Spain capisse e se ne andasse.

«Hai visto la televisione ieri sera?» chiese Spain, e la sua voce roca gorgogliava di piacere.

«Non me ne ricordo.» Hutchman, con un gesto deliberato, spostò qualche foglio di carta millimetrata.

«Non hai visto quella bionda, nello spettacolo di Mort Walters? Quella che dicono sia una cantante?»

«No.» Hutchman, a dire il vero, era quasi sicuro di averla vista, ma non aveva nessuna voglia di lasciarsi trascinare in una conversazione e, comunque, era rimasto poco davanti al televisore. Alzando gli occhi dal libro che leggeva, aveva notato sullo schermo una figura femminile insolitamente spogliata, ma in quel momento Vicky era entrata nella stanza e aveva spento immediatamente. Disgusto e biasimo si erano allargati, come il gelo artico, sulla sua faccia. Lui aveva aspettato l’esplosione per tutta la sera, ma per quella volta Vicky preferiva, a quanto pareva, bruciare a fuoco lento.

«Una cantante!» disse Spain, indignato. «Non è difficile capire come ha fatto a entrare in quello spettacolo. Mi aspettavo che, a ogni respiro, quelle due cose rotonde le schizzassero fuori da un momento all’altro.»

Ma che cosa succede, qua dentro?, pensava intanto Hutchman. Sono proprio le stesse cose che mi ha detto Vicky ieri sera. Che cosa diavolo combinano? E perché ce l’hanno con me? Io non ho mai fatto il direttore di scena!

«Mi fanno ridere, con tutte quelle storie sulla violenza eccessiva alla televisione» stava dicendo Spain. «Mai che la smettano di pensare a che effetto può fare a un bambino la vista di quelle donne mezze nude.»

«Gli verranno delle idee sul sesso, con tutta probabilità.» Hutchman era imperturbabile.

«Ma certo!» Spain giubilava addirittura. «Che cosa ti dicevo, io?»

Hutchman chiuse gli occhi. Questo, questo essere che mi sta di fronte, un membro adulto della così detta razza umana! Che Dio ci aiuti. È il momento che tutti quelli di buona volontà aiutino gli uomini. Vicky è gelosa delle forme elettroniche di un tubo catodico. Spain preferisce le ombre della guerra di Cambogia, quelle donne torturate con i bambini morti in braccio e i fori delle pallottole nei crani scheletrici. Ma questo foglio che ho in tasca, mezzo bruciacchiato, riuscirà a far cambiare le cose? IO POSSO FARE CAMBIARE BALLO AI NEUTRONI, ma che ne sarà della córea, del ballo di San Vito che affligge l’umanità? Noi, veterani della córea/Corea riusciremo a cambiare i cánoni/Cannoni della danza macabra universale?

«… Ci sono tutte, quelle donnacce che si vedono alla TV. Tutte nel gioco. Vorrei essere nato donna, ecco che cosa ti dico! Mi sarei fatto una fortuna.» Spain scoppiò in una risata rauca.

Hutchman aprì gli occhi. «Non con me, te lo assicuro.»

«Non sono il tuo tipo, Hutch? Non sono abbastanza intellettuale?»

Hutchman guardò il grosso pezzo di agata lucida che usava come fermacarte e immaginò di calarlo sulla testa di Spain. Attenuante: Insetticidio giustificabile. «Adesso lasciami, Don, ho da lavorare.»

Spain tirò su col naso con un suono fastidioso, poi si alzò e passò nell’ufficio vicino, chiudendosi la porta alle spalle. La forma grigia della sua persona, dietro il cristallo molato, aleggiò per qualche secondo sopra il tavolo di Muriel, accompagnata da un rumore di cassetti aperti e richiusi, di carte sfogliate rapidamente. Infine scomparve in direzione del suo ufficio. Hutchman guardò la scena con disgusto crescente nei propri confronti perché non aveva mai trovato il coraggio di dire a Spain che cosa veramente pensava di lui. Posso fare cambiare ballo ai neutroni, ma non so dire a un pidocchio d’uomo di andare a scocciare qualcun altro. Prese dal cassetto chiuso a chiave del suo tavolo una grossa cartella con scritto riservato e si sforzò di concentrarsi sul progetto da cui guadagnava lo stipendio.

Jack era un missile convenzionale terra-aria, che impiegava il sistema più semplice di guida-controllo: il comando radio dalla stazione di lancio. Era, in realtà, un prototipo modificato del missile offensivo Westfield, che aveva in comune con gli altri esemplari del suo genere un inconveniente: la perdita di ricettività ai comandi via via che la sua distanza dal centro di controllo aumentava. Westfield, per rimediare alla faccenda, aveva immaginato di trasferire parte del sistema di guida-controllo a bordo di un secondo missile, il Jill, lanciato una frazione di secondo dopo il primo, che aveva il compito di seguire Jack e di trasmettere i dati relativi alla sua posizione rispetto a un bersaglio mobile. Il sistema tendeva a mantenere la semplicità di guida a comandi collegati e, insieme, a ottenere la precisione di un ordigno cerca-bersaglio completamente automatico. Se il progetto aveva buon esito, il sistema di missili avrebbe avuto una gittata discreta, un’alta fedeltà e un basso costo unitario. Hutchman, nella sua qualità di dirigente matematico della Westfield, aveva il compito di razionalizzare i dati portando le variabili al punto in cui fosse possibile dirigere Jack-and-Jill mediante un congegno non molto diverso da un calcolatore convenzionale addetto ai lanci.

Il lavoro per lui era di scarsissimo interesse, poiché era ben lontano dalla pura astrattezza della meccanica quantistica, però gli stabilimenti Westfield erano vicini alla città di Vicky. Lei non aveva voluto trasferirsi a Londra o a Cambridge — dove Hutchman aveva avuto una buona offerta da parte di Brock, della Cavendish — né in altri centri dove avrebbe potuto trovare la sua strada. D’altra parte lui teneva troppo al matrimonio per volersi separare da lei. Di conseguenza si dedicava alla parte matematica dei sistemi pluriparticellari, ma più che altro per rilassarsi. Rilassarsi! Quei pensieri che s’era sforzato di allontanare, stavano riaffiorando da qualche zona remota della sua mente.

Il nostro governo, i Sovietici, gli Americani, i Cinesi, i Francesi, tutti mi spazzerebbero via in un secondo, se solo sapessero che cosa ho in tasca. Io posso far cambiare ballo ai neutroni!

Rabbrividendo prese una matita e si mise al lavoro, ma non era facile concentrarsi. Dopo un’ora andata a vuoto, telefonò al capo fotografo per avere una proiezione di un film girato recentemente sui lanci di prova del Jack-and-Jill. Nell’oscurità fresca e anonima della saletta di proiezione, scene di mare e di cieli azzurri gli riempirono gli occhi, diventarono l’unica realtà, finirono col farlo sentire come disincarnato. Le ombre nere dei missili si alzavano in aria, vibravano, calavano sulla preda bruciando nuvole di fluido idraulico finché i loro motori fiammeggiavano. Poi gli ordigni ricadevano in mare, lentamente, oscillando sotto gli ombrelli arancione dei paracadute di recupero. Jack precipitò e si ruppe la corona, e Jill…

«Non andranno mai bene» disse una voce accanto all’orecchio di Hutchman. Era Boyd Craig, capo assistente del progetto preliminare, che era entrato in sala all’insaputa di Lucas. Craig, fin dall’inizio, era stato contrario al progetto Jack-and-Jill.

«Tu credi?»

«Nessuna speranza» disse Craig, incrollabile. «Tutto l’alluminio che si impiega nell’industria aero-spaziale di questo paese finisce rifuso per produrre bidoni della spazzatura: i nostri missili e velivoli sono già vecchi, prima che riescano a volare. Questo collaboriamo a produrre tu ed io, Hutch. Bidoni per la spazzatura. Sarebbe decisamente meglio, più onesto e probabilmente più economico se saltassimo lo stadio intermedio e ci dedicassimo alla produzione su larga scala dei bidoni per la spazzatura.»

«O di vomeri d’aratro.»

«Come dici?»

«Sì, quegli arnesi in cui dovremmo trasformare le nostre spade.»

«Veramente profondo Hutch.» Craig sospirò. «È quasi mezzogiorno. Vieni, andiamo a prendere qualcosa da Duke.»

«No grazie, Boyd. Vado a casa, mi prendo mezza giornata di permesso.» Hutchman era vagamente sorpreso delle sue stesse parole, ma si rendeva conto che aveva bisogno di rimanere per qualche ora da solo, a meditare sul fatto che le equazioni trascritte su quel foglio di carta rischiavano di farne l’uomo più importante del mondo. Era il momento di prendere delle decisioni.


Ci volle meno di mezz’ora per arrivare fino a Crymchurch, su strade sgombre e quasi senza traffico che, viste in quell’ora insolita della giornata, avevano un’aria vagamente estranea. Era un pomeriggio di ottobre, già fresco, e l’aria che entrava dai finestrini aperti della macchina era fredda. Svoltando nella via dove abitava, Hutchman notò, all’improvviso, che era arrivato l’autunno: i marciapiedi erano tutti coperti di foglie, simili a monete di oro e di rame cadute dai faggi. Ogni anno il settembre se ne va in un attimo, pensò. Mi vedo sfuggire tra le dita il mese che preferisco, prima di rendermi conto che è cominciato.

Parcheggiò la macchina davanti alla casa lunga e bassa, che era stato il regalo di nozze del padre di Vicky. La sua auto non era in garage perché lei, con ogni probabilità, era andata a far spese in centro e in seguito a prendere David a scuola. Hutchman aveva rinunciato, deliberatamente, ed avvisarla che sarebbe tornato a casa. Quando Vicky covava una scenata, Hutchman non riusciva a pensare a niente in modo costruttivo: quel pomeriggio aveva bisogno che la sua mente fosse fresca e buia come una vecchia cantina. Tuttavia, appena in casa, il pensiero di sua moglie scatenò un’ondata di ricordi, frammenti del passato, macchiati dagli antichi rancori e dalle delusioni ormai quasi dimenticate. Quella volta, per esempio, quando lei gli aveva trovato in tasca il numero di casa di Muriel e si era convinta che lui la tradiva: Ti ammazzo, Luke! E improvvisamente gli aveva puntato sul collo la lama del coltello da bistecche, fissandolo con occhi gelidi, disumani come schegge di agata. Lo so cosa c’è tra te e quella donnaccia grassa, e non la passerai liscia. E poi c’era stata quell’altra volta, quando un’operatrice del calcolatore aveva avuto un’emorragia nel suo ufficio e lui l’aveva accompagnata a casa. Perché è venuta proprio nel tuo ufficio? È chiaro che l’hai aiutata a liberarsi da qualcosa! E una lunga serie di osservazioni amare: Come osi dire che c’è qualcosa che non va nella mia testa? Una donna è matta perché non vuole che una brutta malattia contagi lei e suo figlio? E gli occhi di David che supplicavano, pieni di lacrime: Volete davvero separarvi, tu e la mamma? Non andartene, ti prego. Rinuncio al denaro settimanale. Non farò mai più la pipi nel letto.

Hutchman, con fatica, scacciò il passato. Esitò un secondo nella cucina fresca, poi decise di non mangiare. Andò in camera da letto, si tolse gli abiti, s’infilò un paio di calzoni da casa e una camicia attillata, prese dall’armadio l’attrezzatura da balestriere. Sotto i polpastrelli, il legno lucido dell’arco era liscio come il vetro. Portò l’attrezzo fuori, sul retro della casa, tirò giù dalla scansia il bersaglio pesante in corda arrotolata e lo sistemò sul treppiede. Il giardino della casa, in origine, non era abbastanza lungo per contenere un prato di un centinaio di metri e Hutchman aveva comperato un altro pezzo di terreno spostando in parte la vecchia recinzione. Una volta sistemato il bersaglio si dedicò al rituale distensivo, quasi Zen, del tiro dell’arco: primo, conficcare nel terreno i puntali d’argento per segnare la posizione dei piedi, poi mettere a punto l’arco, controllare che le sei frecce fossero perfettamente diritte e finalmente sistemarle nella faretra da campo. La prima freccia salì con un volo netto, al culmine della traiettoria rifletté la luce del sole e scomparve. Un attimo dopo lui sentì che aveva colpito il bersaglio con un colpo secco, nitido. Significava che la freccia era finita al centro. Guardando col binocolo, ebbe la conferma che si era conficcata nel tondino azzurro, nella posizione delle sette.

Soddisfatto di avere calcolato con tanta precisione l’effetto dell’umidità sul tiro, ne fece altri due, dopo aver proceduto ad alcune piccolissime variazioni sui perni che regolavano sia l’innalzamento sia la portata del vento. Tolse le frecce dal bersaglio e si preparò per i 144 tiri di un York Round, seguendo con attenzione tutti i punti indicati nel suo manuale. Via via che la gara procedeva una parte del suo cervello era interamente assorbita nella ricerca del risultato perfetto, mentre un’altra tornava di continuo ad affrontare il problema di come il noto matematico Lucas Hutchman avrebbe recitato la parte di Dio.

Sul piano teorico la situazione era di una nettezza adamantina, assolutamente priva di complicazioni. Lui era in grado di tradurre in realtà fisica i simboli tracciati sul foglio protocollo. Per arrivare a tanto, aveva bisogno di alcune settimane di lavoro e, all’incirca di un migliaio di sterline di materiale elettrico ed elettronico. Il risultato sarebbe stata una macchina piccola, dall’aspetto tutt’altro che imponente.

Quella macchina, però, sapeva disinnescare all’istante qualunque apparecchio nucleare della Terra.

Una macchina anti-bomba, insomma.

Una macchina anti-guerre.

Uno strumento per convertire le mega-morti in mega-vite.

L’idea di costruire un risonatore a neutroni era venuta a Hutchman una mattina tranquilla, di domenica, quasi un anno prima. Stava controllando certe intuizioni per risolvere l’equazione di Schrödinger quando, improvvisamente, per uno scherzo del parallasse concettuale, era penetrato più a fondo di prima nella foresta matematica che sta tra la realtà e la ragione. A quanto pareva si apriva una triplice via nel fitto dei polinomi di Hermite e nelle funzioni di Legendre: in fondo in fondo era apparsa, per un momento, la macchina anti-bomba. Immediatamente il sentiero si era richiuso, ma la matita di Hutchman stava già buttando giù i punti di riferimento, le implicanze filosofiche che, più tardi, gli avrebbero permesso di ritrovare la strada.

Insieme al lampo di genio c’era, in lui, la convinzione quasi mistica di essere il veicolo delle idee di un altro. Quella sensazione, però, si era presto trasformata in considerazioni vaghe sulle possibili implicanze sociali e professionali. Come il poeta minore che ha prodotto un’opera unica, irripetibile, cone l’artista dimenticato che ha creato un’opera immortale, anche Lucas Hutchman, matematico senza importanza, avrebbe potuto lasciare un segno indelebile nella storia. Bastava che osasse.

In quell’anno, a dire il vero, non era andato molto avanti. A un certo momento era sembrato che per produrre la risonanza dei neutroni ad auto-diffusione sarebbe stato necessario un quantitativo di energia elettrica molto superiore a quanto il pianeta era in grado di fornire, ma l’ostacolo si era ben presto rivelato fittizio. Anzi, era arrivato addirittura al punto in cui Hutchman aveva sognato che i livelli di energia richiesti fossero così bassi, che un semplice diagramma a circuito si potesse trasformare nella famosa macchina, aumentata da correnti indotte di entità trascurabile.

Ormai, comunque, tutti gli ostacoli erano stati superati, e adesso Hutchman si trovava ad affrontare il fatto che lui rifiutava la sua creatura.

Voce da un’altra dimensione: Hai lanciato sei dozzine di frecce a centro metri, per un totale di 402 punti. Il risonatore a neutroni è la difesa estrema. È il punteggio massimo che hai raggiunto finora. Nel contesto di una guerra nucleare, l’estrema difesa è anche l’arma suprema. Continua così e prima di finire la gara arriverai a mille. Se mi lascio sfuggire una parola con il Ministero della Difesa, mi fanno sparire all’istante, senza lasciare traccia, in una di quelle istituzioni discrete nel cuore degli Avengers. Sono anni che cerchi di arrivare a questi risultati. E Vicky? Impazzirà. E David? Togli i segnaposto e la faretra, spostati a ottanta metri e non perdere il sangue freddo. In fondo, un equilibrio nella potenza nucleare esiste: chi oserebbe prendere la responsabilità di romperlo? Sono passati trentatré anni dalla seconda guerra mondiale: è evidente che nessuno pensa di servirsi della bomba atomica. E, comunque, non è forse vero che i giapponesi carbonizzati dal napalm sono molto più numerosi dei poveretti morti come conseguenza delle bombe H e N? Alza la mira sugli ottanta metri, incocca la freccia, rilassati, respira a fondo, tira l’arco ma senza sforzarti, tieni il gomito sinistro in fuori, bacia la corda, controlla l’ampiezza del tiro, bada che l’arco sia perfettamente verticale, punta nella zona oro, adesso tira, tira, tira…

«Come mai non sei in ufficio, Luke?» La voce di Vicky risuonò a pochi centimetri di distanza, dietro alle sue spalle.

Hutchman vide la freccia guizzare in una linea troppo alta, conficcarsi nel bersaglio vicino al bordo e quasi trapassarlo. In quel punto la corda era meno solida. «Non ti ho sentito arrivare» disse, calmo. Si girò, la scrutò in faccia sapendo che aveva voluto coglierlo di sorpresa, deliberatamente, ma sperando di scoprire se cercava una sfida diretta o se invece fingeva l’innocenza.

I loro occhi s’incontrarono istantaneamente, come due contatti elettrici inseriti in un presa.

E va bene!, pensò lui. «Perché mi sei piombata addosso in quel modo? Mi hai fatto perdere un colpo.»

Lei scrollò le spalle, e le clavicole si disegnarono nitide sotto la pelle abbronzata. «Hai tutto il pomeriggio per giocare con l’arco.»

«Non è un gioco, il tiro con l’arco! Quante volte devo…?» Riuscì a dominarsi. «Cosa vuoi, Vicky?»

«Voglio sapere perché non sei in ufficio, oggi.» Intanto si esaminava con occhio critico la pelle delle braccia, accigliata notando che l’abbronzatura spariva anche se era più scura dell’abito senza maniche color ambra. La sua faccia era seccata per l’inquietudine introspettiva e segreta che le donne belle provano, a volte, quando esaminano criticamente il proprio corpo. «Penso di avere il diritto di saperlo.»

«Oggi non andava.» Posso far cambiare ballo ai neutroni. «Sei contenta, adesso?»

«Ma che fortuna per te.» La disapprovazione si notò appena sulla bella faccia levigata come un velo di fumo sul sole. «Piacerebbe anche a me smettere di lavorare quando ne ho voglia.»

«La tua situazione è migliore della mia, comunque: ti metti a lavorare solo quando ne hai voglia.»

«Sei proprio divertente. Hai già fatto colazione?»

«Non ho fame. Resto qui, a finire il giro.» Hutchman desiderava disperatamente che Vicky se ne andasse. Nonostante il colpo fallito, si sentiva capace di superare le famose quattro figure della gara, a patto però di escludere l’universo intero, e di trattare ogni freccia come se fosse l’ultima. L’aria era immobile, il sole bruciava sui cerchi concentrici del bersaglio e, in quel momento preciso, lui capì che quegli ottanta metri di prato non contavano niente. Capì improvvisamente che sarebbe riuscito a mettere a segno la prossima freccia nel centro geometrico esatto della zona dorata, allineando anche queste penne con le altre, a condizione, però, di essere lasciato in pace.

«Già. Sei impaziente di tornare alle tue fantasticherie. Chi lo direbbe che ti sei messo con Trisha Garland?»

«Trisha Garland?» un serpentello di rabbia si agitò nei recessi della mente di Hutchman, intorbidendo le acque. «E chi sarebbe questa Trisha Garland?»

«Come se non lo sapessi!»

«Non ho la più pallida idea di chi sia questa signora.»

«Signora! Questa è bella! Niente meno che signora, quella sgualdrina che non sa cantare una nota e che non saprebbe riconoscere una signora, se ne vedesse una.»

Hutchman rimase a bocca aperta: evidentemente sua moglie alludeva alla cantante che, la sera prima, aveva intravisto alla televisione. Una furia amara lo travolse. Sei malata, pensava tra sé, sei talmente malata che mi basta esserti vicino per star male anch’io. A voce alta disse, con calma: «L’ultima cosa che desidero è che qualcuno canti mentre tiro d’arco.»

«Oh, lo sai benissimo a chi alludo.» Vicky, sotto il casco di capelli ramati, aveva una faccia trionfante. «Perché non vuoi ammettere di conoscerla?»

«Vicky!» Hutchman le voltò le spalle. «Fammi il piacere di tappare quella chiavica che hai al posto del cervello e poi vattene, prima che ti pianti una di queste frecce nella testa.»

Ne incoccò un’altra, tese l’arco, puntò al bersaglio. I cerchi concentrici, sfavillanti, sembravano lontanissimi, oltre un mare di correnti pericolose. Tirò e capì subito di aver dato uno strappo alla corda anziché lasciarla andare dolcemente, prima ancora di sentire il tintinnio quasi deluso dell’arco e di vedere la freccia volare altissima, sopra il bersaglio. Nonostante la parolaccia, la tensione non si allentò e Hutchman cominciò a slacciarsi il bracciale di cuoio, tirando i cinghietti con forza.

«Mi spiace, caro.» Vicky sembrava una bambina avvilita, e intanto lo abbracciava. «Non riesco a non essere gelosa di te.»

«Gelosa!» Hutchman scoppiò a ridere, sentendosi sull’orlo delle lacrime. «Se mi avessi scoperto a baciare un’altra donna, bene, questa sarebbe gelosia. Ma quando ti costruisci dei fantasmi con personaggi visti alla TV, ti torturi e tormenti anche me, questa è un’altra cosa.»

«Ti amo tanto che non sopporto neanche che tu guardi un’altra donna» disse Vicky stringendolo di più, incollandosi addirittura a lui. «David non è ancora tornato da scuola» aggiunse con la voce che era un chiaro invito.

Sono un vero stupido se capitolo con tanta facilità, si disse lui. Ma ritornando a casa, si rese conto di essere stato nuovamente sconfitto. Dopo otto anni di matrimonio, l’attrazione per lei era tanto cresciuta da non riuscire nemmeno a immaginare di poter avere una relazione sessuale con un’altra donna.

«Che maledetto guaio essere monogamo per natura» borbottò, mentre appoggiava l’attrezzatura fuori della porta. «Tanto vale che ne approfitti.»

«Povero caro» disse Vicky, precedendolo in camera da letto.

Più tardi, sdraiato vicino a lei, Hutchman si sentì libero da ogni tristezza, mentre oscillava pacificamente tra la veglia e il sonno. Il mondo esterno era il mondo che aveva conosciuto bambino, quando, nelle mattine d’estate, rimaneva a letto fino a tardi ascoltando le conversazioni serene in giardino, appena percettibili, il tintinnio delle bottiglie del latte giù nella strada e, in distanza, i colpi cadenzati della falciatrice a mano. Adesso è perfettamente al sicuro. La bomba, l’intera concezione della catastrofe atomica, gli sembra arcaica, un po’ fuori moda come John Foster Dulles e il senatore McCarthy, i televisori a dieci pollici, le macchine Triumph, il New Look, gli idrovolanti sul Solent. Se guardiamo le cose spassionatamente dal pinnacolo storico del 1978, è impossibile pensare che sgancino la bomba.

Fu svegliato da una gragnola di colpi alla porta d’ingresso, e capì che era tornato suo figlio. Si buttò qualcosa addosso, e lasciando Vicky semi addormentata nel letto, corse ad aprire. David, senza una parola, si precipitò dentro, buttò a terra, con un rumore di cuoio e un tintinnio di fibbie, la sacca e sparì nel bagno, senza chiudere la porta. I suoi capelli avevano l’odore dell’aria d’ottobre. La sua scomparsa fu seguita da uno scroscio d’acqua accompagnato da un grande sospiro di sollievo. Ancora ottimista, Hutchman sorrise mentre raccoglieva la sacca e la metteva in un armadio. La realtà ha piani diversi, pensò e questo è valido esattamente come un altro. Forse ha ragione Vicky, forse lo sbaglio maggiore e più pericoloso che può commettere un abitante della città globale è di sentirsi responsabile per i suoi simili che vivono a diecimila miglia da lui. Non esiste un sistema nervoso capace di condividere le colpe degli altri.

«Papà?» David aveva un sorriso buffo, per via dei denti irregolari. «Stasera andiamo a vedere la corsa delle vecchie auto?»

«Non lo so, caro. Di sera, allo stadio, fa molto freddo.»

«E se ci vestiamo pesante e mangiamo hot dogs e cose simili per tenerci caldi?»

«Sai una cosa? Hai ragione tu. Andiamo.» Hutchman vide la gioia diffondersi lentamente sulla faccia del ragazzo. Decisione presa e ratificata, pensò. I neutroni aspettino pure un altro maestro di ballo. Su, attizziamo il fuoco e chiudiamo bene le imposte. Entrò in camera da letto per svegliare Vicky. «In piedi, donna. Io e David vogliamo mangiare presto: andiamo alla corsa alle automobili.»

Lei si allungò nel letto, si avvolse nel lenzuolo bianco e rimase perfettamente immobile, quasi fosse una mummia egiziana. «Non mi muovo finché non mi dici che mi ami.»

Hutchman le si avvicinò.

«Ti amo.»

«E non guarderai mai nessun’altra donna?»

«Non guarderò mai nessun’altra donna.»

Vicky sorrise, languida. «Torna a letto.»

Hutchman scosse la testa. «David è in casa.»

«Prima o poi dovrà imparare i fatti della vita.»

«Sì, ma non voglio che scriva un tema su di noi, a scuola. Dopo quello del mese scorso mi sono fatto la fama di ubriacone, e non voglio essere espulso dall’Associazione Scuola famiglia se si sparge la voce che sono un maniaco sessuale.»

«Ah, bene.» Vicky si alzò a sedere, fregandosi gli occhi. «Penso che vi accompagnerò.»

«Ma se non ti piace!»

«Stasera mi piacerà.»

Pensando che Vicky cercasse di rimediare alla scena in giardino, ma ugualmente contento, Hutchman uscì dalla camera. Passò un’ora nello studio a mettere in ordine la corrispondenza. Quando ritenne che la cena fosse quasi pronta, andò in soggiorno e si preparò un whisky e soda piuttosto lungo. David era davanti alla televisione e stava manovrando i comandi dei canali. Hutchman sedette, bevve un sorso di whisky e si rilassò mentre, di fuori, il verde dei pioppi s’incupiva nella sera imminente. Il cielo, dietro agli alberi, era pieno di nuvole color rosa corallo che fuggivano verso l’infinito.

«Accidenti» brontolò David premendo nervosamente un pulsante dopo l’altro.

«Prendila con calma» disse Hutchman. «Rischi di rovinare tutto. Cosa c’è che non va?»

«Ho cercato il film western, e guarda che cosa è venuto!» La faccia di David, mentre indicava lo schermo vuoto, leggermente luminescente, era furibonda.

«Forse è ancora presto.»

«No. I film li trasmettono sempre a quest’ora.»

Hutchman posò il bicchiere e andò all’apparecchio. Mentre cercava il bottone dell’allineamento orizzontale, sullo schermo apparve di colpo la faccia dell’annunciatore. Gli occhi dell’uomo, mentre leggeva in un foglio, erano gravi.

Verso le cinque di oggi pomeriggio un ordigno nucleare è stato fatto esplodere sulla città di Damasco, capitale della Siria. La violenza dell’esplosione, secondo i primi calcoli, è stata di circa sei megatoni. L’intera città, a quanto ci riferiscono, è un mare di fiamme e si ritiene che la maggioranza della popolazione di Damasco, ammontante a cinquecentocinquantamila persone, sia morta.

Non si hanno ancora indicazioni se l’esplosione sia avvenuta incidentalmente o se sia un atto di aggressione, ma è stata indetta una riunione di emergenza del consiglio dei ministri a Westminster, e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si riunirà tra breve a New York.

I programmi normali sono sospesi su questo canale, ma rimanete in ascolto in attesa di altri eventuali bollettini, che vi trasmetteremo appena avremo notizie. La faccia sparì dallo schermo.

E, mentre s’inginocchiava davanti al quadro vuoto, accompagnato da un sibilo leggero, Hutchman, con una sensazione che da poco gli era diventata familiare, si accorse che il sudore freddo gli imperlava di nuovo la fronte.

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