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Beaton era nato a Orada, sul confine nord-occidentale della Romania, ed era figlio di un vasaio. Nei primi trentadue anni della sua vita si chiamava Vladimir Khaikin, ma da molto tempo ormai er0a noto come Clive Beaton, tanto che il suo vero nome suonava strano anche per lui. Era entrato nell’esercizio molto presto, aveva lavorato sodo, dimostrando di possedere certe attitudini e modi di pensare che l’avevano segnalato a un’organizzazione riservata, nota in certi ambienti come LKV. L’offerta d’impiego che aveva ricevuto era abbastanza interessante da indurlo a lasciare l’esercito quando era ancora capitano e da scomparire totalmente dalla vita normale durante il periodo di addestramento. A questo punto, la nuova carriera si era fatta molto meno interessante e meno prestigiosa: passava infatti molto tempo a osservare le attività dei turisti e degli uomini d’affari occidentali. Khaikin si stava annoiando da morire quando una porta, non verso una nuova carriera ma verso una vita interamente diversa, gli si era spalancata davanti.

Il mutamento si era verificato quando un pullman inglese carico di turisti era uscito di strada precipitando lungo il fianco di un’altura, a neanche un centinaio di chilometri dalla città dove Khaikin viveva. Alcuni turisti erano rimasti uccisi sul colpo, altri erano morti all’ospedale in seguito alle ustioni riportate. Come le era abituale in casi del genere, la LKV aveva controllato tutti i morti della sciagura e aveva scoperto, come capitava solo di rado, una vittima che valeva la pena di essere resuscitata. Si trattava di un certo Clive Beaton, di trentun anni, scapolo, senza parenti stretti, che si occupava di commercio di francobolli e abitava a Salford, nel Lancashire. A questo punto, la LKV aveva esaminato le liste degli uomini disponibili per qualsiasi tipo di attività e ne aveva trovato uno con le stesse caratteristiche di statura, altezza e colorito della vittima dell’incidente.

Khaikin non aveva esitato ad accettare l’incarico, anche quando lo avvertirono che doveva sottoporsi a un intervento di chirurgia plastica e che sarebbero comparse sul suo volto numerose cicatrici provocate da ustioni. Aveva passato tre settimane in una camera d’isolamento nella clinica dove i chirurghi, secondo la versione ufficiale, tentavano di restaurargli la faccia devastata dal fuoco. In questo lasso di tempo, i chirurghi avevano prodotto sulla sua faccia diverse ferite gravi senza peraltro distruggerne i tessuti mentre i dirigenti della LKV approfittavano per studiare a fondo l’ambiente, le amicizie e le abitudini di Clive Beaton. Ogni frammento di notizia che riuscivano a ottenere veniva memorizzato da Khaikin, che aveva anche dovuto sovrapporre al suo inglese privo di inflessioni particolari, l’accento del Lancashire. La sua mente assimilava ogni cosa senza sforzo e, inviato a Londra e di qui a Salford, si era inserito nel giro di pochissimi giorni. Anzi, a volte, negli anni successivi, aveva quasi sperato di incontrare qualche difficoltà che lo mettesse alla prova. D’altronde quella vita aveva anche dei compensi, come una assoluta libertà.

La LKV gli faceva poche domande, a parte il fatto che gli imponeva di condurre una vita oscura come Clive Beaton, di abitare in Gran Bretagna e di aspettare. Lui aveva lasciato che il commercio dei francobolli morisse di morte naturale e si era dedicato ad altre attività più confacenti alle sue attitudini. Il suo amore per i cavalli, unito a un certo fiuto nel calcolo delle probabilità, lo aveva portato nella penombra delle attività che vivono attorno all’ambiente delle corse. Aveva puntato con buon successo, aveva lavorato come perito per diverse scuderie minori e, alla fine, aveva aperto un suo banco quando questa attività era divenuta legale. Anzi, già prima si sarebbe messo in proprio, ma una direttiva principale della LKV era di evitare ogni conflitto con le autorità. Diventato allibratore aveva attirato, senza volerlo, un gruppo di associazioni i cui membri vivevano spesso ai margini della legge. Ma Beaton non si era mai lasciato indurre a fare passi falsi. Benché ormai si considerasse come Clive Beaton e avesse imparato a bere whisky scozzese e birra inglese, non si era mai sposato e, ogni volta che rispondeva al telefono si aspettava regolarmente una voce del passato.

Le chiamate speciali arrivavano molto di rado. Una volta, quando era in Inghilterra già da due anni, il suo interlocutore sconosciuto, identificabile solo in codice, gli aveva ordinato di far fuori un uomo che abitava a un certo indirizzo di Liverpool. Beaton aveva trovato l’individuo, che diceva di essere un marittimo in pensione e, la sera stessa, lo aveva ucciso. Ritornato a Salford, aveva letto con attenzione tutti i giornali, ma la polizia, a quanto pareva, si era orientata verso un fatto di sangue nell’ambiente del porto, e il delitto era rapidamente sparito dalle testate dei quotidiani senza ripercussioni di nessun genere. Beaton a volte si chiedeva se quel delitto, per caso, non era una prova della sua efficienza e della sua fedeltà, ma era difficile che quel tipo di pensieri lo turbasse. In genere gli incarichi che riceveva, spesso a distanza di anni, gli facevano venire in mente il suo antico lavoro di controllo dei turisti: per esempio quando gli toccava accertarsi se un individuo si trovava effettivamente in un determinato albergo.

Il caso Hutchman si presentò fin dal principio con tutte le caratteristiche delle grandi missioni. L’affare aveva avuto inizio il giorno prima, quando gli avevano dato un numero di precedenza assoluta comunicandogli che Hutchman era un centro di interesse continuo e che lui doveva tenersi in stato di preallarme. Da quel momento Beaton non si era più allontanato, se non di pochi passi, dal suo telefono privato.

La voce, quando finalmente arrivò, era pressante e dura.

«Signor Beaton, sono un amico di Steel. Mi ha detto di telefonarvi per il conto in sospeso.»

Lui rispose in codice, dando le proprie credenziali. «Mi spiace di non aver pagato. Potreste mandarmi un altro conto?»

«Precedenza assoluta» disse allora la voce, senza preamboli. «Avete letto le notizie riguardanti la scomparsa del matematico Lucas Hutchman?»

«Sì.» Beaton ascoltava con molta attenzione tutti i notiziari. «Sono al corrente del fatto.»

«A quanto pare, Hutchman si trova nella vostra zona e le sue carte vanno trasferite immediatamente sul foglio sette. Chiaro?»

«Sì.» Beaton era eccitato e, nello stesso tempo, estremamente calmo. Per la seconda volta, dopo diversi anni, gli veniva ordinato di uccidere un uomo.

«Sul foglio sette. Immediatamente. Non sappiamo esattamente dove sia, però abbiamo intercettato un rapporto della polizia secondo il quale una Ford Director nera è stata trovata abbandonata tra Bolton e Salford, in Gordon Road.»

«Ma la Ford di Hutchman non era azzurra?»

«Secondo la polizia, la macchina non corrispondeva alla descrizione del libretto. Il libretto di circolazione diceva azzurra.»

«Tutto bene, ma se Hutchman ha abbandonato la macchina è evidente che non si trova nelle vicinanze. Voglio dire…»

«Riteniamo che la macchina gli sia stata rubata e poi abbandonata.»

A questo punto, un’idea allarmante si affacciò alla mente di Beaton. «Un momento. Noi stiamo parlando molto liberamente di queste cose per telefono. Supponiamo che qualcuno sia in ascolto. E se mi scoprono?»

«Non ha importanza.» Adesso, al posto della premura, nella voce di chi telefonava, c’era il panico. «Non c’è tempo per predisporre un incontro. Occorre concentrare tutti gli sforzi possibili su Hutchman. Manderemo sul posto tutti gli uomini disponibili, però voi siete il più vicino e dovete prendere tutte le misure necessarie. È una faccenda con precedenza assoluta, mi capite?»

«Capisco.» Beaton posò il ricevitore e andò davanti a uno specchio. Non era più lo stesso uomo di quando era arrivato in Inghilterra. Aveva i capelli grigi, ormai, e la vita facile di quegli anni lo aveva appesantito. Ancora più inquietante era la constatazione che gli anni avevano fiaccato la sua risoluzione, perché adesso non aveva alcuna voglia di far del male a qualcuno e tanto meno di uccidere. Eppure cos’era un ideale se non si era disposti a servirlo? E la vita stessa cos’era senza un ideale che desse un senso all’alternarsi senza fine di piacere e di dolore? Beaton tolse dal nascondiglio dietro un cassetto della scrivania un oggetto avvolto in un panno. Ne tirò fuori una pistola automatica perfettamente lubrificata, un caricatore di cartucce calibro 9, un silenziatore tubolare e un coltello a serramanico, nero. Montò la pistola, l’infilò nella tasca interna, si buttò addosso il cappotto e uscì, tenendo il coltello nella destra.

Erano le prime ore del pomeriggio, e una nebbia grigia velava gli edifici in lontananza. Il sole non abbagliava ed era ridotto a un disco che calava piano verso l’orizzonte. Beaton salì sulla sua Jaguar e partì verso Bolton. Quindici minuti dopo parcheggiò in una strada stretta e sì avviò lungo un viale. Non pioveva, ma c’era molta umidità e il selciato di pietra appariva lucido e nero. Arrivato in fondo al viale aprì una porticina ed entrò in un locale cavernoso di mattoni che, in passato, era stato una scuderia e ora serviva da garage. Un meccanico alzò gli occhi dal motore di un’auto e lo guardò, senza curiosità.

Beaton annuì. «C’è Raphoe?»

«È in ufficio.»

Beaton attraversò la porta annerita dall’olio e salì una scala fino a una specie di guardiola, attaccata al vecchio muro. Quando aprì la porta fu avvolto da esalazioni di paraffina. Un uomo grasso, con un naso a forma di fragola, era seduto al tavolo dell’ufficio.

«Ciao, Clive» disse in tono risentito. «Mi hai dato proprio un bel cavallo, venerdì.»

Beaton alzò le spalle. «Indovinando sempre chi vince, non esisterebbero più le scommesse.»

«D’accordo, però non mi va che il mio denaro faccia salire le scommesse di chi punta sul cavallo giusto.»

«Non penserai mica che ti abbia giocato uno scherzo del genere!»

«Non proprio. Sei venuto a restituirmi le mie cento sterline?» lo schernì Raphoe.

«No, però ho un cavallo per Devon e Exeter di sabato che è già oltre la linea d’arrivo.»

Beaton lo osservò e scoprì negli occhi di Raphoe un lampo di interesse.

«Quanto?»

«L’associazione vuole duemila, ed è un bel prezzo. Io te lo do per niente.»

«Per niente!» Raphoe si premette delicatamente la punta del naso enorme, come per dargli una forma più convenzionale. «Qual è il trucco?»

«Niente trucco.» Beaton cercò di apparire indifferente. «Voglio soltanto sapere dove i tuoi ragazzi hanno preso la Ford Director che hanno abbandonato in Gordon Road.»

«Lo sapevo!» Raphoe batté sul tavolo, soddisfatto. «Ho capito che quella carcassa era radioattiva appena Fred l’ha portata dentro. Quando ho visto che era stata riverniciata e che le targhe erano nuove ho detto a Fred: Portala immediatamente fuori e che non se ne senta più parlare. Mai mettere le mani su una macchina dove le ha già messe qualcun altro.»

«Hai detto proprio bene, Randy. E dove l’ha presa?»

«Secondo te quel cavallo è già vincente?» chiese Raphoe, fingendo di non aver sentito la domanda dell’altro.

«Master Auckland II» disse Beaton, trasmettendogli un’indiscrezione preziosa. Raphoe era notoriamente un chiacchierone e, a dargli una buona informazione, si rischiava di scatenare una reazione a catena di indiscrezioni che avrebbero determinato un crollo delle scommesse per le quali Beaton ci avrebbe perso un bel po’ di denaro. Comunque, aveva il sospetto che nel futuro immediato avrebbe avuto altro a cui pensare, oltre i cavalli.

«Vale la pena di tentare?»

«Randy, stavolta non è questione di tentare. E adesso, la macchina. Dove l’avete trovata?»

«Nel parcheggio dei Crickters. Sai dov’è? È una buona birreria, dalle parti di Breighmet.»

«La troverò.» A Beaton sembrava che il coltello che stringeva nella destra emanasse calore al punto da inumidirgli il palmo di sudore.

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