Audrey Knight entrò nel bar lentamente, con i capelli neri raccolti nel collo del mantello sportivo e una borsa a tracolla che quasi toccava il pavimento. Hutchman, che era arrivato da poco, la osservò mentre attraversava il locale. Si chiese che cos’era in lei a indurre gli avventori uomini, quando passava, a tacere improvvisamente. Forse erano l’andatura ancheggiante, o il labbro inferiore sporgente e sensuale, a far venire delle idee. Lucas lasciò a metà l’analisi quando lei arrivò al tavolo, si sedette e si tolse il cappotto senza parlare.
«Lieto di rivederti» disse lui, in fretta. «Sono proprio contento che tu sia riuscita a venire.»
«Ciao, Lucas. Santo cielo, mi fai tornare indietro di non so quanti anni! Più di quanti abbia voglia di ricordare.»
«Lo credo» disse lui, chiedendosi a cosa alludeva.
«Sì. Lo sapevi che il Pack Horse è stato demolito per fare posto a una strada nuova?»
«No.» Hutchman era sempre più a disagio.
«Be’, noi ci eravamo entrati solo per bere qualcosa.» Sorrise, con aria di rimprovero.
Hutchman rispose al suo sorriso, mentre gli mancava il terreno di sotto i piedi. Il Pack Horse era un pub che lui frequentava all’epoca dell’università, e ricordava vagamente di averci portato delle ragazze quando aveva conosciuto Vicky, ma era sicuro di non esserci mai andato con Audrey. Eppure lei, evidentemente, c’era stata. In quel momento si rese conto che i suoi anni con Vicky avevano condizionato addirittura i suoi processi mentali. C’era voluto un anno intero di inferno-paradiso coniugale per imparare ad appoggiare sempre la borsa sul sedile anteriore quando ritornava a casa dall’ufficio. Vicky, che lo spiava dalla finestra della cucina, se lo vedeva raccogliere la borsa dal sedile posteriore, decideva che c’era stato qualcuno a bordo. E i giorni in cui aveva realmente dato un passaggio, dimenticandosi poi di parlarne, lei intesseva la rete delicata, ma sempre più fitta, delle domande, che la notte culminava in una messa a confronto estremamente spiacevole. Lucas aveva addirittura imparato a cancellare ogni altra donna dalla sua memoria.
«…che sete mi è venuta, dopo la camminata» stava dicendo Audrey. «Ho l’auto dal meccanico.»
«Scusami.» Lucas chiamò il cameriere. «Cosa vuoi bere?»
Lei ordinò un Pernod, e lo centellinò, gustandolo. «Una ragazza con le mie convinzioni socialiste non ha il diritto di ordinare una bibita così cara, ma il mio stomaco, evidentemente, è capitalista.»
«Ah, finché mi ricordo, tieni» disse Lucas prendendo la busta dalla tasca interna e porgendola a Audrey. «C’è già l’indirizzo, però dovrai metterci il francobollo. Ti spiace?»
«Affatto.» Lei ficcò la lettera nella borsa, senza neanche guardarla. Lui apprezzò la sua indifferenza, però temette che non desse sufficiente importanza alla cosa, e potesse dimenticare la busta a casa.
«Non è una questione vitale, però è abbastanza importante che l’articolo venga recapitato presto» disse.
«Non preoccuparti, Lucas.» Gli pose la mano sulla sua, rassicurandolo. «Ci penso io.»
Aveva le dita fredde e, d’istinto, lui le coprì con la mano libera. Lei sorrise, fissandolo negli occhi, e qualcosa si agitò in Hutchman. Da quel momento, anche il tempo sembrò cambiare: i minuti si allungarono fantasticamente, mentre, in compenso, le ore volavano.
Lucas e Audrey centellinarono diversi bicchierini, pranzarono nella sala attigua, tornarono a bere, poi lui riaccompagnò la donna a casa, all’ultimo piano di un edificio. Appena la macchina si fermò sul viale ghiaioso, lei si precipitò fuori e si diresse verso la porta, cercando le chiavi nella borsa. Arrivata sull’ingresso, si voltò.
«Vieni, Lucas» era impaziente. «Fa freddo, qui fuori.»
Lui scese e la seguì. La porta dell’ascensore era aperta.
Entrarono, tenendosi per mano, nella scatola d’alluminio. Mentre salivano si baciarono: la bocca di Audrey era morbida come lui desiderava. A Hutchman, quando seguì la ragazza nell’appartamento grazioso ma con pochi mobili, tremavano leggermente le gambe. Dentro, c’era un vago profumo di mele. Appena entrati nel soggiorno, Audrey lasciò scivolare a terra il cappotto. Ripresero a baciarsi. Poco dopo, i vestiti di lei andarono a tener compagnia al cappotto, sul tappeto. Ma intanto, anche se il corpo di Audrey non aveva proprio niente da invidiare a quello di Vicky, Hutchman scopriva di non provare… esattamente niente. Era come essere sotto l’azione di un anestetico, che distruggeva ogni sensazione. Mortificato e spaventato, impegnò battaglia tra il suo corpo e quello di Audrey.
«Lascia perdere, Lucas» disse alla fine Audrey, la cui voce arrivava da distanze interstellari. «Non è colpa tua.»
«Ma non capisco» disse lui, come intontito. «Non capisco cosa c’è che non va.»
«Ipoestesia sessuale» rispose lei, gentilmente. «Kraft Ebbing vi dedica un intero capitolo.»
Lui scosse la testa. «Ma è sempre andato bene con…»
«Con tua moglie?»
Hutchman si premette le mani sulle tempie, perché il mal di testa era diventato insopportabile. Cosa mi hai fatto, Vicky?
Audrey si alzò, si rivestì e lo accompagnò alla porta. «È stata comunque una bella serata, Lucas, ma domani ho molto da fare e devo andare a letto. Ti spiace?»
«Naturalmente, no» mormorò lui, con una formula di cortesia assolutamente priva di senso. Cercò qualcosa di intelligente e un po’ carino da dirle, e alla fine uscì con un banalissimo: «Spero che troverai bel tempo, domani.»
La faccia di lei non rivelò emozioni. «Lo spero anch’io. Buona notte, Lucas.» Chiuse la porta, adagio. L’ascensore era ancora al piano. Vi salì e guardò la sua immagine, riflessa nell’alluminio lucido. Cosa incredibile, dopo tutto quello che era successo, rientrò in casa a mezzanotte appena passata, e Vicky era ancora in piedi. Indossava una vecchia sottana comoda e un golf: allora, durante la sua assenza, non era uscita e non c’erano state visite! Guardava l’ultimo film alla TV e, come al solito, il colore era troppo basso e dava un’immagine molto sbiadita. Hutch lo mise a posto, e dopo si sedette stancamente, senza parlare.
«Dove sei stato, Lucas?»
«A bere qualcosa.»
Si aspettava che lei protestasse, più o meno direttamente, e invece gli disse: «Non devi bere molto, ti fa male.»
«Mi fa bene, più di altre cose.»
Lei si voltò a guardarlo, poi disse, incerta: «Ho avuto l’impressione che tutto questo ti abbia veramente ferito, Lucas, e la cosa mi sorprende. Ma non capivi quello che stavi per provocare?»
Hutchman osservò attentamente sua moglie. Gli era sempre piaciuta, quando indossava quegli abiti casalinghi, familiari come quella sera. Nella calda luce arancione il viso era bello e serio, e in lei c’era il potere di farlo sentire ancora un uomo. Ricordò il primo plico di lettere, in viaggio verso la sua destinazione, senza che nessuno, ormai, potesse farle tornare indietro.
«Ma va’ all’inferno» disse con voce rauca, e uscì dalla stanza.
Il mattino dopo, Hutchman si recò a Maidstone e spedì un altro gruppo di buste. Il tempo era sereno e abbastanza caldo. Rientrando a casa, trovò Vicky e David che facevano colazione. Il ragazzo mangiava fiocchi d’avena e, contemporaneamente, cercava di trovare la soluzione di alcuni problemi.
«Papà» gli gridò con aria accusatrice. «Ma perché nelle somme ci sono le centinaia, le decine e le unità? Non potrebbero essere tutte unità? Non ci sarebbe bisogno del riporto.»
«Ma, caro mio, le addizioni non funzionerebbero più. Perché hai del compito a casa da fare, la domenica mattina?»
David alzò le spalle. «La maestra non mi può vedere.»
«Non è vero, David» intervenne Vicky.
«E allora perché mi dà sempre più compiti che agli altri?»
«Perché vuole aiutarti.» Vicky guardò Hutchman, cercando aiuto. Lui prese il quaderno e la matita, di David, scrisse i risultati degli esercizi e riconsegnò il tutto al ragazzo.
«Grazie, papà.» David lo guardò, stupito, poi schizzò fuori dalla cucina, lanciando urla di gioia.
«Perché l’hai fatto?» Vicky prese la caffettiera, versò un’altra tazza e la porse a Hutchman attraverso la tavola. «Hai sempre detto che quel genere di cose non serve al ragazzo.»
«Erano altri tempi.»
«Che cosa vuol dire?»
«Forse non c’è tempo per fare ogni cosa con calma e bene.»
Vicky si portò la mano alla gola. «Ti guardavo, Lucas. Non ti comporti come un uomo che è stato…» sospirò. «Cosa penseresti, se ti dicessi che non ti sono stata infedele, nel senso clinico della parola?»
«Ti risponderei quello che mi hai detto cento volte, in passato: basta pensarlo perché sia ugualmente male.»
«E se ti dicessi che mi ripugnava a pensarlo e che solo…»
«Ma cosa vuoi, adesso?» chiese lui, aspro, premendosi le nocche contro la bocca per evitare che tremasse. Dopo tutto quello che è successo, si chiedeva spaventato, adesso rischio di cedere? Ma una donna riesce davvero a dissolvere il suo «homunculus» nell’acido e a farlo rinascere, a suo piacere?
«Lucas, mi sei stato infedele?» Aveva la faccia come una sacerdotessa.
«No.»
«Ma, allora, che senso ha tutto questo?»
Hutchman, in piedi, con la tazza di caffè in mano, si accorse che le ginocchia gli tremavano al punto da non reggerlo più. In lui avvenne una tremenda trasformazione. Che bisogno ho della macchina? Quello che conta è che tutti ne siano informati. Basta che il sistema di costruzione della macchina anti-bomba sia reso noto su scala mondiale perché il possesso di un ordigno nucleare diventi troppo rischioso. Anche se adesso la macchina fosse distrutta, le mie buste continuerebbero il loro viaggio e, se non altro, servirebbero da ammonimento. Ancora meglio, potrei aprire le buste rimaste e togliere la lettera, spedendo soltanto i dati. Senza quella macchina, forse potrei starmene in pace. Non avrebbero bisogno di trovarmi…
In quel momento squillò il telefono. Vicky fece per alzarsi, ma lui le fece segno di star ferma. Corse nell’ingresso e alzò il ricevitore, a metà di uno squillo.
«Parla Hutchman.»
«Buongiorno, Lucas.» La voce della donna gli parlava come da un altro mondo, da un qualcosa che, in quella mattina di domenica, era lontanissimo e assolutamente estraneo. Hutchman dovette fare uno sforzo mentale per riconoscere Audrey Knight.
«Buongiorno» rispose, a disagio. «Ti credevo a Gatwick, a quest’ora.»
«Avrei dovuto esserci, però mi hanno destinata a un altro volo.»
«Ah!» Hutchman tentava di capire perché gli aveva telefonato. Per consolarlo, forse? Per farlo stare peggio, cercando di farlo stare meglio?
«Lucas, avrei piacere di vederti, oggi. Potresti fare un salto da me?»
«Mi spiace» disse lui, freddo. «Non vedo perché…»
«È per la busta che mi hai dato ieri.»
«Sì?» improvvisamente aveva una strana difficoltà di respiro.
«L’ho aperta.»
«Come…?»
«Ho pensato che dovevo sapere cosa portavo a Mosca. Dopo tutto, sono una socialista militante, e se l’articolo era destinato alla pubblicazione…»
«Sei socialista?» le domandò con la voce bassissima.
«Sì. Te l’ho detto, l’altra sera.»
«È vero.» Adesso ricordava le dichiarazioni di Audrey a cui, allora, non aveva dato importanza. Tirò un lungo sospiro. «Bene, cosa ne dici del mio scherzetto? Un po’ infantile, non credi?»
Ci fu una lunga pausa. «Non molto infantile, Lucas.»
«Ma ti assicuro…»
«Ho mostrato quei documenti a un mio amico, e non ci ha riso su.»
«Non avevi diritto di farlo!» Era un piccolo tentativo di minaccia.
«E tu non avevi diritto di coinvolgermi in una faccenda del genere. Ti spiacerebbe venire da me a discutere della questione?»
«Va bene.» Posò il telefono e si precipitò in cucina. «È successo qualcosa al programma Jack-and-Jill. Ne avrò per un’ora.»
Vicky sembrava preoccupata. «Di domenica? È qualcosa di grave?»
«Non è grave, ma è urgente. Tornerò fra un’ora.»
«Va bene, Lucas.» Lei gli sorrise timidamente, in un modo che gli faceva male solo a vederla. «Noi due abbiamo bisogno di stare un po’ assieme e di parlare.»
«Lo so.» Corse alla macchina, partì facendo schizzare la ghiaia e accelerò violentemente in direzione di Camburn. C’era poco traffico, per cui poté filare, e, mentre si concentrava nella guida veloce, evitava di pensare alle sue azioni immediate. Quando arrivò nel quartiere dove abitava Audrey, quasi non riconobbe il palazzo, in quella luce solare, di un giallo limone. Fermò la macchina e alzò lo sguardo verso l’ultimo piano. Alla finestra dell’alloggio di lei non c’era nessuno. Si diresse rapidamente all’ascensore, vi salì, osservando con disgusto le pareti di alluminio che gli ricordavano, nelle loro immagini contorte, la sera prima. Suonò alla porta, senza avere il tempo di pensare a quello che avrebbe detto. Pochi secondi e lei aprì. La sua faccia bruna era impassibile, mentre lo faceva entrare.
«Senti, Audrey» disse Lucas «veniamo subito al sodo. Restituiscimi quelle carte e dimentichiamo tutto.»
«Avrei piacere che tu parlassi con Aubrey Welland» rispose lei, imperturbabile.
«Buon giorno, signor Hutchman.» Un giovanotto basso, con gli occhiali, la faccia quadrata e lo sguardo di un professore che gioca anche a rugby, uscì dalla cucina. Portava la cravatta rossa e, al bavero della giacca, aveva un minuscolo distintivo di ottone, con la falce e il martello. Annuì, sotto lo sguardo di Hutchman. «Sì, sono iscritto al Partito. Non ne avevate ancora mai visti, prima?»
«Non sono venuto qui per scherzare.» Hutchman si accorgeva, in modo addirittura deprimente, che rispondeva col tono di un maggiore in pensione. «Voi avete delle carte che mi appartengono. Le rivoglio indietro.»
Welland, per un momento, sembrò considerare la richiesta. «La compagna Knight mi ha detto che siete un matematico e che avete una competenza speciale in fisica nucleare.»
Hutchman diede un’occhiata a Audrey, che rispose freddamente al suo sguardo, e capì che non avrebbe ottenuto niente, rimanendo sulle sue. «Esatto. Sentite, ho voluto fare uno stupido scherzo infantile e adesso mi rendo conto di essere stato sciocco. Non è possibile…»
«Anch’io sono un matematico» lo interruppe Welland. «Non della vostra parte, s’intende, ma credo di saper riconoscere la vera matematica.»
«In tal caso, potreste riconoscere anche un trucco, se ci fosse?» Ad Hutch, nel frattempo, era venuta un’idea. «Non vi siete accorto del modo anomalo in cui ho trattato le funzioni di Legendre?» Sorrise, condiscendente, aspettando la risposta.
«No!» Welland perse un filo di sicurezza. Si frugò nella tasca della giacca, poi cambiò idea e ritirò la mano non prima però che Hutchman avesse visto e riconosciuto l’angolo di una busta bianca. «Controllerò.»
Hutchman alzò le spalle. «Allora, ve lo farò vedere. Dove sono le carte?»
«Le carte le tengo io» disse Welland.
«Va bene.» Hutchman tornò a sorridere. «Se proprio volete fare la figura dello stupido con i capi del Partito… Per me, si tratta solo di uno scherzo.» Si voltò per andarsene. Poi, con un balzo, fu addosso a Welland, gli aprì la giacca con la sinistra e con la destra afferrò la busta. Welland, con un ansito, strinse Hutchman al di sopra dei polsi. Hutchman tese i muscoli resi forti dal tiro dell’arco: la presa di Welland si allentò e la busta cadde sul pavimento. Welland cercò di trascinare Lucas lontano dal plico, e i due si lanciarono in un valzer grottesco, attraverso la stanza. A un certo punto Hutchman urtò contro il bordo del tavolino da caffè e, per non cadere, ci salì sopra, trascinando Welland. Questi alzò un ginocchio e Hutchman, nel tentativo di proteggersi l’inguine, gli diede una spinta. Erano molto vicini a una finestra. Ci fu un fracasso di vetri infranti e, di colpo, l’aria fredda di novembre entrò nella stanza. Il reticolo del vetro incrinato si addensò intorno alle dita e alla bocca di Hutchman mentre si sporgeva a guardare. In basso la gente accorreva, e una donna urlò. Hutchman capì il motivo.
Welland era finito su una cancellata di ferro, e anche dall’alto dei quattro piani si vedeva benissimo che era morto.