Prologo Il primo messaggio

Demandred si fece avanti sui declivi scuri di Shayol Ghul e il passaggio, un buco nel fabbricato compatto, scomparve dalla visuale. Sopra di lui, dense nuvole grigie nascondevano il cielo, un mare invertito di onde lente e cineree che avvolgevano il picco nascosto della montagna. Nella spoglia valle sottostante lampeggiavano luci isolate, che mettevano in risalto i forti colori rossi e blu, senza riuscire a disperdere la tetra oscurità che li circondava. I fulmini saettarono in alto verso le nuvole facendo scaturire un tuono tardivo. Lungo il pendio il vapore e il fumo salivano da aperture sparse nel terreno, alcune piccole come la mano di un uomo, altre abbastanza grandi da ingoiare dieci persone.

Demandred rilasciò immediatamente l’Unico Potere, e con lo svanire della dolcezza che esso infondeva perse anche l’acutezza dei sensi che rendeva tutto più definito, più chiaro. L’assenza di saidin lo lasciò vuoto, in quel luogo dove solo uno sciocco poteva pensare di incanalare. Ma d’altro canto, era altrettanto vero che in quel luogo solo uno sciocco avrebbe voluto vedere, respirare o percepire con i sensi acuiti.

Durante quella che adesso veniva chiamata Epoca Leggendaria, era stato un’isola idilliaca in un mare fresco, il ritrovo preferito delle persone che apprezzavano i posti semplici. Malgrado il vapore, adesso il freddo era pungente. Demandred non si concedeva di percepirlo, ma l’istinto lo spinse a sollevare il bavero del mantello di velluto foderato di pelliccia. Il fiato si condensava in nuvolette di nebbia, visibili per pochi istanti prima che l’aria le risucchiasse. Pochi chilometri più a nord il mondo era puro ghiaccio, ma Thakan’dar era sempre stata asciutta come un deserto, benché fosse costantemente avvolta nell’inverno.

Vide dell’acqua, un rivolo nero come l’inchiostro che fluiva lentamente, discendendo da un pendio roccioso vicino a una fucina con il tetto grigio. Dall’interno della forgia proveniva un martellio; a ogni colpo, lampi di luce bianca riempivano le finestre. Una donna vestita di stracci era accovacciata disperatamente vicino alla parete di ruvida pietra. Fra le braccia stringeva un bambino, e una ragazzina magra aveva affondato il viso nella sua gonna. Erano senza dubbio prigionieri catturati durante un’incursione nelle Marche di Confine, ma erano pochi. Probabilmente i Myrddraal digrignavano i denti per lo scontento. Dopo un certo periodo le loro lame si deterioravano e dovevano essere rimpiazzate, benché le incursioni nelle Marche di Confine fossero diminuite.

Uno dei forgiatori uscì dall’edificio, una grossa sagoma umana che si spostava con lentezza e pareva scolpita nella roccia della montagna. Quelle creature non erano realmente vive; se si fossero allontanate da Shayol Ghul si sarebbero trasformate in pietra o polvere. E non erano fabbri veri e propri; non facevano altro che fabbricare spade. Quello uscito dall’edificio aveva con sé la lama di una spada già temprata, chiara come la neve illuminata dalla luna. Vivo o meno che fosse, il forgiatore prestò molta attenzione mentre la immergeva nel rivolo scuro. Qualsiasi parvenza di vita avesse avuto, si spense al contatto con quell’acqua. Quando il metallo ne riemerse, era nero come la morte, ma la manifattura non era ancora conclusa. Il fabbro rientrò nella forgia e improvvisamente si sentì l’urlo disperato di un uomo. «No! No! NO!» Il grido stridulo cominciò a sfumare perdendo di intensità, come se la vittima fosse stata scagliata a una distanza inimmaginabile. Adesso la lama era pronta.

Apparve un altro fabbro — forse era lo stesso, forse un altro — e costrinse la donna ad alzarsi. La donna, il bambino e la ragazzina cominciarono a gemere, ma il poppante venne strappato dalle braccia della madre e infilato fra quelle della ragazzina. Alla fine la donna riuscì a opporre l’ultimo briciolo di resistenza. Scalciò selvaggiamente, piangendo, cercando di graffiare il fabbro. La creatura le prestò la stessa attenzione che le avrebbe rivolto una roccia. Le grida della donna svanirono non appena fu all’interno della forgia. I martelli ripresero a risuonare, soffocando il pianto dei bambini.

Una lama forgiata, una in preparazione e altre due da creare. In precedenza Demandred non aveva mai visto meno di cinquanta prigionieri in attesa di porgere la loro offerta al Sommo Signore delle Tenebre. I Myrddraal probabilmente stavano davvero digrignando i denti. «Di solito, indugi forse quando vieni convocato dal Sommo Signore?» Quella voce evocava il crepitio della pelle marcia che si screpola.

Demandred si voltò con lentezza — come osava un Mezzo Uomo rivolgersi a lui in quel tono? — ma si trattenne. Non per l’effetto dello sguardo senza occhi della pallida creatura; lo sguardo di un Myrddraal incuteva terrore in tutti gli uomini, ma Demandred aveva sradicato la paura da se stesso molto tempo addietro. Fu piuttosto l’aspetto di quella creatura vestita di nero a farlo tacere. I Myrddraal erano alti quanto un uomo di statura elevata, l’imitazione sinuosa di un essere umano, simile a gesso colato in uno stampo. Quello però era molto più alto.

«Ti accompagnerò dal Sommo Signore» disse. «Mi chiamo Shaidar Haran.» Quindi si voltò e cominciò a scalare la montagna con le movenze fluide di un serpente. Il mantello nero come l’inchiostro pendeva in maniera innaturale, senza nemmeno un’increspatura.

Demandred esitò prima di seguirlo. I nomi dei Mezzi Uomini erano sempre in lingua Trolloc, un idioma ostico. Il nome ‘Shaidar Haran’ invece derivava da quella che adesso la gente chiamava lingua antica. Significava ‘la mano dell’oscurità’. Un’altra sorpresa, e a Demandred proprio non piacevano, specialmente a Shayol Ghul.

L’entrata nella montagna avrebbe potuto essere una delle tante fenditure, ma da essa non provenivano fumo o vapore. Era abbastanza larga per accogliere due uomini affiancati, ma il Myrddraal rimase fermo lì davanti. Il percorso discese quasi subito, il pavimento della galleria liscio come mattonelle lucidate. Il freddo divenne meno intenso mentre Demandred seguiva le ampie spalle di Shaidar Haran e, man mano che scendevano, il calore aumentava. Adesso ne era consapevole, ma non si lasciò toccare dal caldo. Dalla pietra emanava una luce pallida che riempiva tutta la galleria. Più chiara dell’eterno crepuscolo all’esterno. Dal soffitto scendevano degli spuntoni di roccia, denti di pietra pronti a chiudersi in un baleno, le zanne del Sommo Signore, pronte a squarciare gli infedeli e i traditori. Ovviamente non erano naturali, ma comunque molto efficaci.

A un tratto notò qualcosa. Ogni volta che aveva seguito quel percorso i denti gli avevano sfiorato il capo. Adesso erano decisamente più in alto della testa del Myrddraal e la cosa lo sorprese. Non erano cambiate le dimensioni della galleria — i fatti insoliti in quel luogo erano di ordinaria amministrazione —, ma solo lo spazio concesso al Mezzo Uomo. Il Sommo Signore impartiva lezioni ai Myrddraal come agli uomini. Quello spazio aggiuntivo era un fatto da tenere a mente.

La galleria si aprì improvvisamente su un’ampia sporgenza che si affacciava su un lago di pietra fusa, rossa e punteggiata di nero, sul quale danzavano fiamme dell’altezza di un uomo. Non vi era un soffitto, solo un enorme foro che si apriva nella montagna verso un cielo che non era quello di Thakan’dar. Faceva sembrare quest’ultimo normale, con le nuvole striate che si allungavano come spazzate dal vento più potente che il mondo avesse mai visto. Questo luogo era chiamato dagli uomini il Pozzo del Destino, e pochi sapevano quanto quel nome fosse appropriato.

Anche dopo tutte le sue visite — e la prima risaliva a ben più di tremila anni addietro — Demandred provava ancora soggezione. In quel luogo percepiva il Foro, il buco scavato molto tempo prima quando il Sommo Signore era stato imprigionato al momento della Creazione. La sola presenza lo soverchiava. Fisicamente, quel luogo non era più vicino al Foro di qualsiasi altro punto del mondo, ma lì il Disegno si era assottigliato e gli permetteva di percepirlo.

Demandred fu più vicino a sorridere di quanto non gli fosse mai accaduto. Come erano stati sciocchi nell’opporsi al Sommo Signore! Certo, il Foro era ancora bloccato, anche se con minor forza di quando il Sommo Signore si era risvegliato dal lungo sonno impostogli e si era liberato dalla propria prigione all’interno di esso. Bloccato, ma più largo. Non era ancora ampio quanto in origine, quando il Sommo Signore vi era stato scagliato dentro con i suoi compagni alla fine della Guerra del Potere, ma a ogni visita dopo il risveglio, Demandred lo ritrovava leggermente più largo. Presto il blocco sarebbe scomparso e il Sommo Signore sarebbe riapparso sulla terra. Presto sarebbe giunto il Giorno del Ritorno. Allora Demandred avrebbe governato il mondo per sempre. Naturalmente al servizio del Sommo Signore. E con gli altri Prescelti che fossero sopravvissuti.

«Adesso puoi andare via, Mezzo Uomo.» Non voleva che quella creatura lo vedesse sopraffatto dall’estasi. L’estasi e il dolore. Shaidar Haran non si mosse.

Demandred aprì la bocca e... una voce gli esplose nella testa.

DEMANDRED.

Chiamarla voce era come definire sassolino una montagna. Si sentiva quasi schiacciato all’interno del proprio cranio; era totalmente inebriato, e cadde in ginocchio. Il Myrddraal assisteva impassibile, ma solo una piccola parte di Demandred poteva notare quella creatura mentre la voce gli devastava il cervello.

DEMANDRED, COSA SUCCEDE NEL MONDO?

Non era mai certo di quanto sapesse il Sommo Signore. Demandred era rimasto stupito dalla sua ignoranza quanto dalle sue conoscenze. Ma non aveva dubbio su ciò che il Sommo Signore voleva sentirsi dire.

«Rahvin è morto, Sommo Signore. Ieri.» Percepì il dolore. L’euforia troppo intensa si trasformò rapidamente in sofferenza. Le braccia e le gambe si contrassero. Adesso sudava. «Lanfear è svanita senza lasciare traccia, proprio come Asmodean. Graendal sostiene che Moghedien non si presenta agli appuntamenti come avevano concordato. Anche questo è accaduto ieri, Sommo Signore. Non credo che si tratti di una coincidenza.»

I PRESCELTI DIMINUISCONO DI NUMERO, DEMANDRED. I DEBOLI CADONO. CHI MI TRADISCE PAGHERÀ CON LA MORTE. ASMODEAN È RIMASTO VITTIMA DELLA PROPRIA DEBOLEZZA. RAHVIN È MORTO A CAUSA DEL SUO ORGOGLIO. MI HA SERVITO BENE, MA NEMMENO IO HO POTUTO SALVARLO DAL FUOCO MALEFICO. NEMMENO IO POSSO USCIRE DAI CONFINI DEL TEMPO. Per un istante una rabbia terribile colmò quella voce orrenda — era forse frustrazione? Ma solo per un istante. UN’OPERA DEL MIO NEMICO ATAVICO, QUELLO CHE CHIAMANO IL DRAGO. SCAGLIERESTI IL FUOCO MALEFICO A UN MIO COMANDO, DEMANDRED?

Demandred esitò. Una perla di sudore gli colò lungo una guancia, ma sembrò impiegarvi ore. Durante la Guerra del Potere, per un anno, entrambe le fazioni avevano usato il fuoco malefico. Fino a quando non ne avevano scoperto le conseguenze. Poi, senza un accordo o una tregua — non c’erano mai state tregue né accordi — entrambe le fazioni avevano semplicemente cessato di usarlo. Quell’anno intere città perirono a causa del fuoco malefico, centinaia di migliaia di fili bruciati via dal Disegno, la realtà quasi disfatta, il mondo e l’universo evaporati come nebbia. Se il fuoco malefico fosse stato rilasciato ancora, forse non ci sarebbe più stato nessun mondo da governare.

Demandred fu turbato anche da un altro fatto. Il Sommo Signore sapeva già com’era morto Rahvin. E pareva saperne più di lui su Asmodean. «A quanto mi ordinerai, Sommo Signore, io obbedirò.» I muscoli guizzavano, ma la voce era ferma come la roccia. Sulle ginocchia iniziavano ad apparire delle vesciche per via della pietra rovente, ma la carne avrebbe potuto anche essere quella di qualcun altro.

QUESTO FARAI.

«Sommo Signore, il Drago può essere distrutto.» Un uomo morto non avrebbe potuto manipolare il fuoco malefico, e in quel caso forse il Sommo Signore non ne avrebbe vista la necessità. «È ignorante e debole, disperde la propria attenzione in una dozzina di direzioni diverse. Rahvin era uno sciocco presuntuoso. Io...»

VORRESTI ESSERE NAE’BLIS?

Demandred rimase di ghiaccio. Nae’blis. Colui che si trova un solo gradino al di sotto del Sommo Signore, al comando degli altri. «Desidero solo servirti, Sommo Signore, in qualsiasi modo possibile.» Nae’blis.

ALLORA ASCOLTA E SERVI. ASCOLTA CHI VIVRÀ E CHI MORIRÀ.

Demandred gridò al suono della voce. Sul suo viso colarono lacrime di gioia.

Il Myrddraal lo guardava immobile.

«Smettetela di agitarvi.» Nynaeve si lanciò la treccia dietro una spalla. «Non funzionerà se vi comportate come bambine con l’orticaria.»

Nessuna delle donne dall’altro lato del tavolo traballante pareva più vecchia di lei, anche se lo erano di almeno vent’anni o forse più, e nessuna stava realmente agitandosi, ma il caldo aveva fatto innervosire Nynaeve. La piccola stanza priva di finestre era soffocante e lei grondava sudore: le altre, invece, parevano fresche e asciutte. Leane, con addosso un abito domanese di seta azzurra molto sottile, sollevò appena le spalle. La donna alta e dalla pelle ramata pareva avere una riserva infinita di pazienza. Di solito. Siuan invece, chiara e robusta, non ne aveva affatto.

Sbuffò irritata mentre si sistemava l’abito. Di solito aveva addosso indumenti semplici, ma quella mattina portava un delicato abito di lino giallo ricamato attorno alla scollatura, era al limite della decenza, con un motivo tipico di Tairen. Gli occhi azzurri della donna era freddi come l’acqua profonda di un pozzo. Acqua che sarebbe stata fredda se il tempo non fosse impazzito. L’abbigliamento era cambiato, ma non la sua espressione. «Non funzionerà in ogni caso» scattò. Anche il modo di rivolgersi agli altri non era cambiato. «Non puoi tappare una falla quando la barca è in fiamme. È uno spreco di tempo; ma ho promesso, quindi procedi pure. Io e Leane abbiamo del lavoro da fare.» Le due adesso erano a capo della rete di occhi e orecchie per le Aes Sedai di Salidar, agenti che inviavano rapporti su quanto accadeva nel mondo.

Per calmarsi, Nynaeve sistemò il proprio vestito. Era di semplice lana bianca, e in fondo all’orlo erano cucite sette bande di diversi colori che rappresentavano tutte le Ajah. L’uniforme di un’Ammessa. Le dava fastidio più di quanto avrebbe mai potuto immaginare. Preferiva di gran lunga l’abito di seta verde che aveva dovuto riporre. Era disposta ad ammettere di essersi abituata ai vestiti eleganti, se non altro in privato, ma la scelta di quel particolare abito era dettata solo dalla comodità — era sottile e leggero —, non dal fatto che il verde fosse il colore preferito di Lan. Non era quello il motivo. Pensieri oziosi della peggior specie. Un’Ammessa che avesse indossato qualcosa di diverso dal bianco con le fasce colorate avrebbe imparato presto che era ben lungi dall’essere una Aes Sedai. Mise da parte quegli argomenti con decisione. Non era lì per quelle sciocchezze. A lui piaceva anche il blu. No!

Con delicatezza, Nynaeve iniziò un secondo sondaggio con il Potere, prima su Siuan, poi su Leane. In realtà non si poteva dire che stesse incanalando. Non poteva farlo a meno che non fosse arrabbiata: non riusciva nemmeno a percepire la Vera Fonte. Ma alla fine raggiunse lo stesso risultato. Sottili filamenti di saidar, la metà femminile della Vera Fonte, ispezionarono le due donne mentre lei li intesseva. Ma non partivano da lei.

Sul polso sinistro di Nynaeve era visibile un braccialetto sottile, una semplice fascia fatta in gran parte d’argento, e di provenienza speciale, anche se non faceva differenza. Era il solo gioiello che aveva, oltre l’anello del Gran Serpente. Le Ammesse venivano scoraggiate dal portare gioielli. Attorno alla gola di una quarta donna, seduta su uno sgabello contro la parete intonacata con le mani ripiegate in grembo, era sistemato un collare dello stesso stile. La donna aveva addosso abiti marroni da contadina, e anche il volto massiccio era quello di una bracciante, ma non sudava affatto. Non muoveva nemmeno un muscolo, ma osservava tutto. Agli occhi di Nynaeve il bagliore di saidar circondava quella donna, ma era lei a dirigere i flussi. Bracciale e collare creavano un legame fra loro, proprio come le Aes Sedai potevano collegarsi una all’altra per unire i poteri. C’era di mezzo qualcosa che secondo Elayne riguardava ‘matrici assolutamente identiche’, dopodiché per Nynaeve la spiegazione diventava incomprensibile. Per la verità, credeva che la stessa Elayne non capisse neppure la metà di quanto andava dicendo. Lei non ne capiva nulla, se non che poteva percepire ogni movimento dell’altra donna, la presenza di lei, in un angolo recondito della propria mente, e che la presa dell’altra donna su saidar era sotto il suo controllo. A volte pensava che sarebbe stato meglio se la poveraccia sullo sgabello fosse morta. Semplice, più pulito.

«Percepisco qualcosa di dilaniato o tagliato» mormorò Nynaeve, asciugandosi con fare assente il sudore dalla fronte. Era una sensazione vaga, appena percettibile, ma era anche la prima volta che aveva captato qualcosa oltre il vuoto. Forse si trattava di immaginazione e del desiderio disperato di trovare qualcosa, qualsiasi cosa.

«Troncare» osservò la donna sullo sgabello. «Così era chiamato ciò che ora definite ‘quietare le donne’ e ‘domare gli uomini’.»

Tre teste rotearono nella sua direzione, tre paia di occhi che la fissavano furiosi. Siuan e Leane erano state Aes Sedai, fino a quando erano state quietate a seguito della rivolta nella Torre Bianca che aveva posto Elaida sullo scanno dell’Amyrlin Seat. ‘Quietate’. Una parola che dava i brividi. Non essere mai più in grado di incanalare. Ma ricordando sempre la sensazione ed essendo consapevoli della perdita. Riuscire a percepire la Vera Fonte sapendo che non sarebbe mai più stato possibile toccarla. La quietatura non poteva essere guarita come la morte.

Questo era quanto tutte credevano, ma secondo Nynaeve l’Unico Potere poteva guarire ‘tutto’, tranne la morte. «Se hai qualcosa di utile da dire, Marigan,» rispose seccata «fallo, altrimenti taci.»

La donna si appoggiò alla parete, con gli occhi che luccicavano fissi su Nynaeve. Dal braccialetto trapelavano paura e odio, sentimento che era quasi sempre presente a diversi livelli. Le prede raramente amavano i cacciatori, anche — forse specialmente — quando sapevano di meritare la prigionia e forse anche qualcosa di peggiore. Il problema era che anche Marigan sosteneva che il troncare — la quietatura — era irreversibile. Sosteneva anche che tutto tranne la morte poteva essere guarito durante l’Epoca Leggendaria, e ciò che l’Ajah Gialla adesso chiamava ‘guarire’ ai suoi tempi era solo un lavoro rozzo e frettoloso, degno di un campo di battaglia. Ma cercare di farla scendere nei particolari, o anche solo ottenere dei suggerimenti, non dava alcun risultato. Marigan sapeva della guarigione quanto Nynaeve dell’arte del fabbro: mettere un pezzo di metallo fra i carboni ardenti e colpirlo con un martello. Certo non era abbastanza per fabbricare un ferro di cavallo. O guarire qualcosa in più di un livido.

Cambiando posizione sulla sedia, Nynaeve studiò Siuan e Leane. Giorni di indagini, ogni volta che riusciva a distoglierle dal loro lavoro, e non aveva ancora scoperto nulla. Si accorse di colpo che stava giocando con il bracciale. Quali che fossero i vantaggi, odiava essere legata a quella donna. Quell’intimità le dava i brividi. Se non altro forse riuscirò a imparare qualcosa, pensò. E non potrebbe essere peggio di qualsiasi altro tentativo, aggiunse.

Con cautela si tolse il bracciale — la chiusura era impossibile da trovare, a meno che non si sapesse come — e lo passò a Siuan. «Mettilo.» Perdere il Potere era una sensazione amara, ma doveva provarla. E liberarsi di quelle ondate di emozioni negative era come fare un bagno. Gli occhi di Marigan seguirono il bracciale come ipnotizzati.

«Perché?» chiese Siuan. «Mi hai detto che quest’oggetto funziona solo...»

«Mettilo, Siuan.»

Siuan la guardò per un istante con ostinazione — Luce, quella donna era davvero testarda! — prima di chiuderlo attorno al polso. Sul viso le apparve immediatamente un’espressione di meraviglia, quindi guardò Marigan con attenzione. «Ci odia, ma questo lo sapevo già. Percepisco anche paura e... stupore. Non si vede dall’espressione, ma ne è completamente pervasa. Credo che nemmeno lei avrebbe mai pensato che potessi usare quest’oggetto.»

Marigan cambiò posizione, a disagio. Fino a quel momento solo due donne che sapevano di lei potevano usare il bracciale. Quattro avrebbero aperto nuove opportunità agli interrogatori. Apparentemente sembrava vogliosa di cooperare, ma quanto nascondeva? Tutto il possibile, Nynaeve ne era certa.

Siuan scosse il capo, sospirando. «Infatti non posso. Dovrei poter toccare la Fonte attraverso di lei, giusto? Be’, non è così. Solo quando un ‘grugnitore’ riuscirà ad arrampicarsi su un albero. Sono stata quietata e questo è quanto. Come si toglie questa cosa?»

Gentilmente, Nynaeve appoggiò una mano sulla fascia d’argento al polso di Siuan. «Ma non vedi? Il braccialetto non funzionerebbe se tu non potessi incanalare, e lo stesso vale per il collare. Se facessi indossare uno dei due alle cuoche, per loro non sarebbero altro che graziosi oggetti.»

«Cuoche o no,» aggiunse atona Siuan «non posso incanalare. Sono stata quietata.»

«Ma c’è qualcosa in te,» insisté Nynaeve «altrimenti non avresti percepito nulla attraverso il braccialetto.»

Siuan ritrasse bruscamente la mano, rimanendo incastrata con il bracciale. «Toglilo!» Nynaeve l’accontentò scuotendo il capo. A volte Siuan sapeva essere testarda come un uomo!

Quando passò il bracciale a Leane, la Domanese le tese il polso con impazienza. Faceva finta di essere fredda riguardo la quietatura quanto Siuan — o quanto Siuan simulava di essere —, ma non sempre aveva successo. In teoria, il solo modo di sopravvivere alla quietatura era trovare qualcosa che riempisse la vita, che sostituisse il vuoto lasciato dall’Unico Potere. Per Siuan e Leane quel qualcosa era legato alla rete di agenti e, fatto ancor più importante, al cercare di convincere le Aes Sedai di Salidar a sostenere Rand al’Thor come Drago Rinato, senza lasciare che nessuna capisse quello che stavano facendo. Il punto era se fosse sufficiente. L’amarezza sul viso di Siuan e la delizia su quello di Leane non appena si chiuse il bracciale indicavano che forse mai nulla le sarebbe stato fatto.

«Oh, sì.» Leane aveva un tono vivace e parlava a scatti. Tranne quando si rivolgeva agli uomini. In fondo era Domanese, e da poco stava recuperando il tempo perso nella Torre. «Sì, è davvero stupita. Adesso però incomincia a recuperare il controllo.» Per qualche momento rimase seduta in silenzio, soppesando la donna sullo sgabello. Marigan ricambiava lo sguardo, sospettosa. Alla fine Leane si strinse nelle spalle. «Nemmeno io posso toccare la Fonte. E ho cercato di farle sentire il morso di una pulce su un fianco. Se avesse provato qualcosa, avrebbe mostrato una qualche emozione.» Quello era un altro trucco del bracciale; era possibile far provare alle donne che indossavano il collare delle sensazioni fisiche. Solo le sensazioni — non rimaneva alcun segno sulla carne, nessun danno visibile —, ma l’impressione di una o due frustate era bastata a convincere Marigan a collaborare. Quella e l’alternativa alla collaborazione. Un rapido processo seguito dall’esecuzione. Malgrado il fallimento, Leane osservò con attenzione Nynaeve mentre le toglieva il bracciale e se lo rimetteva al polso. Pareva che almeno lei non avesse ancora perso totalmente la speranza di poter un giorno tornare a incanalare.

Ottenere di nuovo il Potere fu meraviglioso. Non era come attingere direttamente da saidar, esserne colmata, ma anche toccare la Fonte attraverso l’altra donna equivaleva quasi a raddoppiare la vitalità che le scorreva nelle vene. Trattenere saidar le dava voglia di ridere e danzare per pura gioia. Supponeva che un giorno vi si sarebbe abituata; le Aes Sedai sicuramente lo avevano fatto. A confronto di quell’euforia, il legame con Marigan era un prezzo modesto da pagare. «Adesso che sappiamo che c’è una possibilità,» disse «penso...»

La porta si spalancò e Nynaeve balzò in piedi prima di accorgersene. Non pensava mai a usare il Potere; avrebbe gridato se non avesse avuto la gola chiusa. Non fu la sola, ma non fece quasi attenzione a Siuan e Leane, che balzarono in piedi come lei. La paura che filtrava copiosa dal bracciale pareva l’eco della propria.

La giovane donna che aveva spalancato la porta si accorse subito delle emozioni che aveva scatenato. Alta ed eretta, con addosso l’abito delle Ammesse e i ricci rosso oro che le scendevano sulle spalle, aveva un’espressione folle. Anche con il volto teso dalla rabbia e grondante sudore appariva comunque bellissima; era una caratteristica di Elayne. «Sapete cosa stanno facendo? Stanno inviando un’ambasciata a... a Caemlyn! E si rifiutano di lasciarmi andare! Sheriam mi ha vietato di parlarne ancora. Mi ha vietato di parlarne!»

«Non hai ancora imparato a bussare, Elayne?» Dopo aver raccolto la sedia, Nynaeve si sedette di nuovo e si accasciò. Il sollievo l’aveva lasciata con le gambe molli. «Io credevo che tu fossi Sheriam.» Il solo pensiero di essere scoperta la fece rabbrividire.

Elayne arrossì e si scusò immediatamente, per rovinare poi tutto aggiungendo: «Non capisco come abbiate potuto essere tanto sciocche. Birgitte si trova ancora fuori e sapete bene che vi avviserebbe se qualcun altro si avvicinasse. Nynaeve, loro devono lasciarmi andare.»

«Non devono fare nulla di simile» intervenne Siuan seccata. Lei e Leane si erano sedute di nuovo, Siuan dritta come sempre, l’altra accasciata, indebolita come Nynaeve. Marigan era appoggiata contro la parete e respirava con affanno a occhi chiusi e con le mani premute contro l’intonaco. Il bracciale emanava un’alternanza di sollievo e terrore puro.

«Ma...»

Siuan non permise a Elayne di aggiungere un’altra parola. «Credi che Sheriam o una qualunque delle altre lascerebbero che l’erede al trono di Andor cadesse nelle mani del Drago Rinato? Con tua madre morta...»

«Questo non lo credo!» scattò Elayne.

«Non credi che l’abbia uccisa Rand,» proseguì Siuan senza pietà «e aggiungo dell’altro. Nemmeno io lo credo. Ma se Morgase fosse viva si farebbe avanti per riconoscerlo come Drago Rinato. O, se lo credesse un falso Drago malgrado le prove, organizzerebbe una forma di resistenza. Nessuno dei miei occhi e orecchie ha mai sentito parlare dell’una o dell’altra ipotesi. Non solo ad Andor, ma nemmeno nell’Altara o nel Murandy.»

«Non è vero» fu la risposta di Elayne. «A ovest si sono verificate alcune sommosse.»

«Contro Morgase. Contro. Sempre che anche quella non sia una voce.» Siuan era quasi atona. «Tua madre è morta, ragazza. Meglio ammetterlo e andare avanti, una volta finito di piangerla.»

Elayne sollevò il mento, un’abitudine molto fastidiosa; era l’immagine della fredda arroganza, anche se la maggior parte degli uomini per qualche oscuro motivo la trovavano attraente. «Ti lamenti sempre di quanto tempo impieghi a contattare tutti i tuoi agenti,» rispose con freddezza «ma adesso ignorerò il fatto che tu possa o meno aver sentito tutto quello che c’era da sentire. Che mia madre sia morta o no, adesso il mio posto è a Caemlyn. Io sono l’erede al trono.»

Siuan sbuffò con tale forza da far sussultare Nynaeve. «Sei stata Ammessa abbastanza a lungo per sapere come stanno le cose.» Il potenziale di Elayne era a un livello che non si vedeva da migliaia di anni. Non quanto quello di Nynaeve — se mai avesse imparato a incanalare secondo la propria volontà — ma comunque sufficiente a far illuminare gli occhi di qualsiasi Aes Sedai. Elayne arricciò il naso — sapeva molto bene che se anche fosse stata già sul trono del Leone, le Aes Sedai l’avrebbero comunque trattenuta per l’addestramento, forse chiedendoglielo prima, ma infilandola, se necessario, in un barile —, aprì la bocca, ma Siuan non mollò la presa. «So che a loro non dispiace che prima o poi tu salga al trono; non c’è stata una regina Aes Sedai per troppo tempo, ma non ti lasceranno andare fino a quando non sarai diventata una Sorella e anche allora, poiché sei l’erede al trono e presto sarai regina, non ti permetteranno di avvicinarti al maledetto Drago Rinato fino a quando non sapranno se e quanto possono fidarsi di lui. Specialmente da quando ha... emanato quell’amnistia.»La bocca di Siuan si contorse su quella parola, e Leane fece una smorfia.

Anche Nynaeve ebbe una reazione negativa. Era stata cresciuta nella paura di ogni uomo che potesse incanalare, sapendo che erano tutti destinati a impazzire, e terrorizzava quelli che li circondavano prima che la metà maschile della Fonte contaminata dall’Ombra potesse portare loro una morte terribile. Rand, un ragazzo che lei aveva visto crescere, era il Drago Rinato, venuto al mondo sia per segnalare che l’Ultima Battaglia stava giungendo, sia per combattere il Tenebroso durante la stessa. Il Drago Rinato; la sola speranza dell’umanità e... un uomo che poteva incanalare. Peggio ancora, alcuni rapporti riferivano che stesse tentando di riunire tutti quelli come lui. Ovviamente non potevano essercene molti. Ogni Aes Sedai dava la caccia a questi uomini — e l’Ajah Rossa non si limitava a questo — ma, secondo i rapporti, ne trovavano pochi.

Elayne però non voleva arrendersi. Era una sua caratteristica ammirevole; non si sarebbe arresa nemmeno con la testa sul ceppo e l’ascia che discendeva per decapitarla. Rimase in piedi con il mento sollevato sostenendo lo sguardo di Siuan, cosa che per Nynaeve talvolta era troppo difficile. «Ci sono due motivi precisi per i quali dovrei andare. Primo, qualsiasi cosa sia accaduta a mia madre, lei è scomparsa, quindi in quanto erede al trono posso calmare il popolo e rassicurarlo sull’integrità della successione. Secondo, posso avvicinare Rand. Si fida di me. Sarei una candidata migliore di qualsiasi altra il Consiglio dovesse scegliere.»

Le Aes Sedai a Salidar avevano eletto un loro Consiglio della Torre, un Consiglio in esilio. In teoria dovevano pensare a chi eleggere come nuova Amyrlin. Un’Amyrlin adatta a contestare la rivendicazione di Elaida al titolo e alla Torre, ma Nynaeve non ne aveva visto alcun segno.

«Sei gentile a sacrificarti, ragazza» osservò asciutta Leane. L’espressione di Elayne non cambiò, ma lei arrossì. Poche al di fuori di quella stanza ne erano al corrente, e nessuna Aes Sedai, ma Leane non aveva dubbi che la prima azione di Elayne a Caemlyn sarebbe stata appartarsi con Rand e baciarlo per un tempo infinito. «Con... l’assenza di tua madre, se Rand al’Thor ti prendesse, insieme a Caemlyn otterrebbe anche Andor, e il Consiglio non gli permetterà di avere più controllo di quanto abbiano intenzione di concedergliene su quel regno — o su qualunque altro posto. Ha già Tear e Cairhien dalla sua, come anche gli Aiel, a quanto pare. Aggiungi Andor, e il Murandy e l’Altara — noi incluse — cadranno con uno starnuto. Sta anche diventando potente, troppo in fretta. Potrebbe decidere di non avere bisogno di noi. Con Moiraine morta, non c’è nessun’altra vicino a lui di cui possiamo fidarci.»

Quelle parole fecero trasalire Nynaeve. Moiraine era l’Aes Sedai che aveva portato lei e Rand fuori dai Fiumi Gemelli, cambiando per sempre le loro vite. Lei, Rand, Egwene, Mat e Perrin. Nynaeve aveva desiderato talmente a lungo che Moiraine pagasse per quanto aveva fatto che perderla era stato come perdere una parte di se stessa. Ma Moiraine era morta a Cairhien, portando Lanfear con sé. Stava diventando rapidamente una leggenda fra le altre sorelle. La sola Aes Sedai ad aver ucciso una dei Reietti. Il solo lato positivo che vi vedeva Nynaeve, anche se ne provava vergogna, era che adesso Lan era libero dalla condizione di Custode di Moiraine. Sempre che fosse riuscita a trovarlo.

Siuan riprese dal punto in cui si era interrotta Leane. «Non possiamo permetterci di lasciare che il ragazzo spieghi le vele senza alcuna guida. Chi sa cosa potrebbe combinare? Sì, sì, immagino che tu sia pronta a parlare in sua difesa, ma non voglio sentire. Sto cercando di tenere in bilico sul naso un luccio vivo, ragazza. Non possiamo permettergli di diventare troppo forte prima che ci accetti, ma allo stesso tempo non osiamo trattenerlo in eccesso. Sto anche cercando di convincere Sheriam e le altre ad appoggiarlo, quando la metà del consiglio, in segreto, non vorrebbe avere nulla a che fare con lui e l’altra metà crede nel profondo del cuore che dovrebbe essere domato, Drago Rinato o meno. In ogni caso, quali che siano gli argomenti, ti suggerisco di fare attenzione a Sheriam. Non farai cambiare idea a nessuna e Tiana non ha abbastanza novizie che la tengono impegnata.»

Il volto di Elayne si irrigidì dalla rabbia. Tiana Noselle, una Sorella Grigia, era la maestra delle novizie a Salidar. Un’Ammessa, rispetto a una novizia, doveva commettere delle gravi infrazioni per essere mandata da Tiana, ma le visite erano sempre vergognose e dolorose. Tiana era disposta a mostrare un po’ di comprensione con le novizie, ma riteneva che le Ammesse dovessero saperne di più e si accertava che condividessero quel suo parere prima di lasciare il suo piccolo studio.

Nynaeve aveva osservato Siuan e le era venuto in mente qualcosa. «Tu eri al corrente di quella... ambasciata o qualunque cosa sia... vero? Voi siete sempre insieme a Sheriam e al suo seguito.» Il Consiglio in teoria aveva l’autorità fino a quando non fosse stata eletta un’Amyrlin, ma Sheriam, con un gruppetto di altre Aes Sedai che avevano organizzato per prime la fuga a Salidar, aveva ancora il vero controllo della situazione. «Quante ne verranno inviate, Siuan?» Elayne sussultò: chiaramente non aveva pensato a quell’opportunità, e ciò dimostrava quanto fosse sconvolta. Di solito coglieva sfumature che Nynaeve non notava.

Siuan non negò. Da quando era stata quietata poteva mentire come una commerciante di lana, ma quando decideva di essere diretta sapeva esserlo come uno schiaffo in pieno viso. «Nove. Abbastanza per onorare il Drago Rinato — interiora di pesce! Un’ambasciata per un re non ne prevede più di tre! — ma non abbastanza per spaventarlo, se ha imparato quanto basta per aver paura.»

«Farai meglio a sperare che sia così» rispose Elayne con freddezza. «Perché in caso contrario, nove potrebbero essere otto di troppo.»

Tredici sarebbe stato un numero pericoloso. Rand era forte, forse più di ogni altro uomo dopo la Frattura, ma tredici Aes Sedai legate fra loro potevano sopraffarlo, schermarlo da saidin e farlo prigioniero. Tredici era il numero designato per domare un uomo, anche se Nynaeve cominciava a credere che si trattasse più di tradizione che di necessità. Le Aes Sedai facevano molte cose solo perché le avevano sempre fatte.

Il sorriso di Siuan fu ben altro che gentile. «Mi chiedo perché nessun’altra vi abbia pensato. Usa la testa, ragazza! Sheriam lo fa, come anche il Consiglio! All’inizio solo una lo avvicinerà, fino a quando lui non si sentirà a suo agio. Saprà che sono in nove e qualcuno certamente gli riferirà l’onore che gli è stato reso.»

«Capisco» rispose l’altra sottovoce. «Avrei dovuto immaginare che una di voi ci avrebbe pensato. Mi spiace.» Quella era un’altra buona qualità della ragazza. Poteva essere ostinata come un mulo strabico, ma quando capiva di avere torto lo ammetteva gentilmente, come una donna di paese. Atteggiamento molto insolito per una nobile.

«Anche Min andrà» aggiunse Leane. «I suoi... talenti potrebbero essere utili a Rand. Le altre Sorelle non ne sono al corrente e lei sa mantenere un segreto.» Come se quella fosse la parte importante.

«Capisco» rispose nuovamente Elayne, stavolta atona. Si sforzò di rendere distaccato il tono della propria voce, fallendo miseramente. «Be’, vedo che siete impegnate con... Marigan. Non intendevo interrompervi.» Detto questo andò via sbattendosi la porta alle spalle prima che Nynaeve potesse aprire bocca.

La donna si rivolse furiosa a Leane. «Credevo che la cattiva fra voi fosse Siuan: quell’aggiunta è stata decisamente immorale!»

Al posto di Leane, fu la stessa Siuan a rispondere. «Quando due donne amano lo stesso uomo è facile che nascano problemi, e quando l’uomo in questione è Rand al’Thor... solo la Luce sa quanto sia ancora sano di mente, o in quale direzione potrebbero spingerlo queste donne. Se devono azzuffasi, che lo facciano qui e ora.»

Senza prestarvi attenzione, Nynaeve si era presa la treccia e se l’era lanciata di nuovo dietro le spalle. «Dovrei...» C’era ben poco che potesse fare e nulla che avrebbe cambiato la situazione. «Proseguiremo da dove siamo state interrotte quando è entrata Elayne, ma, Siuan... se ti azzardi di nuovo a farle una cosa simile» a lei o a me, pensò «te ne farò pentire e... Dove credete di andare?» Siuan aveva spinto indietro la sedia e si era alzata. Dopo un’occhiata, Leane aveva fatto lo stesso.

«Dobbiamo lavorare» tagliò corto la prima, mentre si dirigeva già verso la porta.

«Hai promesso che sareste state entrambe disponibili. Sheriam vi ha chiesto di fare lo stesso.» Sheriam condivideva l’idea di Siuan che fosse tutto uno spreco di tempo, ma Nynaeve ed Elayne si erano guadagnate dei riconoscimenti e una discreta indulgenza, come per esempio avere Marigan per cameriera o poter dedicare più tempo agli studi da Ammesse.

Siuan la guardò dalla soglia, divertita. «Vuoi forse lamentarti con lei? Vuoi spiegarle come effettui le tue ricerche? Stasera voglio trascorrere un po’ di tempo con Marigan; ho molte altre domande per lei.»

Quando Siuan se ne fu andata, Leane aggiunse: «Sarebbe bello, Nynaeve, ma dobbiamo fare ciò che possiamo. Puoi provare con Logain, se vuoi.» Quindi andò via anche lei.

Nynaeve si accigliò. Dai suoi studi su Logain aveva imparato anche meno che da quelli sulle due donne. Non era certa che avrebbe appreso qualcosa da lui, e inoltre l’ultima cosa che avrebbe voluto era guarire un uomo domato. Logain la innervosiva.

«Prima o poi finite sempre per mordervi come topi imprigionati in una scatola sigillata» osservò Marigan. «Stando ai fatti, le tue possibilità non sono buone. Forse dovresti prendere in considerazione... altre soluzioni.»

«Tieni a freno quella sporca lingua!» Nynaeve le lanciò un’occhiata furiosa. «Stai zitta, che la Luce ti folgori!» Attraverso il bracciale fluiva ancora la paura, ma anche qualcos’altro, qualcosa che era quasi troppo flebile per sembrare vero. Una vaga speranza. «Che la Luce ti folgori» mormorò Nynaeve.

Il vero nome di quella donna non era Marigan ma Moghedien. Una dei Reietti, intrappolata dal proprio orgoglio presuntuoso e trattenuta come prigioniera fra le Aes Sedai. Solo cinque donne al mondo ne erano al corrente, e nessuna di loro era Aes Sedai; mantenere segreta l’identità di Moghedien era pura necessità. I crimini commessi dai Reietti rendevano l’esecuzione inevitabile come il sorgere del sole. Siuan era d’accordo; per ogni Aes Sedai che avesse consigliato di aspettare — sempre che qualcuna lo facesse — dieci avrebbero preteso giustizia immediata. Insieme al corpo della donna, seppellita in una fossa anonima, sarebbe scomparsa anche tutta la conoscenza dell’Epoca Leggendaria, quando venivano fatte con il Potere cose ormai impensabili. Nynaeve non riusciva ancora a credere a quanto le aveva raccontato la Reietta su quell’Epoca. Di sicuro ne aveva capito meno della metà.

Ottenere informazioni da Moghedien non era cosa facile. A volte era come per la guarigione; alla donna non era mai interessato nulla che non le permettesse di avanzare, e preferiva di gran lunga le scorciatoie. Difficilmente avrebbe rivelato la verità, e Nynaeve sospettava che fosse stata disonesta anche prima di donare la propria anima al Tenebroso. A volte lei ed Elayne non sapevano quali domande porre. Sicuramente Moghedien non si offriva mai volontaria. Malgrado tutto, anche in quelle condizioni avevano appreso molto, superando in conoscenza la maggior parte delle Aes Sedai. Ovviamente il tutto era celato dietro il risultato dei loro studi e ricerche da Ammesse, e così facendo avevano ottenuto molto rispetto.

Se fosse dipeso solo da loro due non avrebbero rivelato a nessuno l’esistenza della Reietta, ma Birgitte ne era al corrente e a Siuan e Leane andava detto. Siuan sapeva abbastanza sulle circostanze che avevano portato alla cattura di Moghedien da pretendere una spiegazione esauriente, e aveva anche i mezzi per ottenerla. Nynaeve ed Elayne erano a conoscenza di alcuni dei segreti di Siuan e Leane; ma queste parevano conoscere tutti i segreti di Elayne e i suoi, tranne la verità su Birgitte. La situazione rendeva l’equilibrio precario, a favore di Leane e Siuan. Inoltre parte delle confessioni di Moghedien riguardavano presunti complotti degli Amici delle Tenebre e suggerimenti su cosa progettassero gli altri Reietti. Il solo modo di passare le informazioni alle altre era fingere che provenissero dagli agenti di Siuan e Leane. Moghedien non aveva rivelato niente sull’Ajah Nera — a lungo nascosta e rinnegata — anche se era la parte che interessava maggiormente a Siuan. Gli Amici delle Tenebre la disgustavano, ma l’idea di una Sorella che giurava fedeltà al Tenebroso era sufficiente a farla infuriare. Moghedien sosteneva di avere paura di avvicinarsi a qualsiasi Aes Sedai, ed era abbastanza credibile. La paura era una costante in quella donna. Non c’era da meravigliarsi che fosse rimasta nascosta tanto da essere soprannominata il Ragno. Nynaeve ed Elayne la consideravano un elemento troppo prezioso per condannarla a morte, ma la maggior parte delle Aes Sedai non sarebbe stata della stessa opinione. Quasi tutte si sarebbero rifiutate di accettare qualsiasi cosa si potesse apprendere dalla donna.

Senso di colpa e nausea attanagliarono lo stomaco di Nynaeve, e non per la prima volta. La loro voglia di sapere avrebbe potuto giustificare la mancata consegna della Reietta alla giustizia? Svelare l’identità di Moghedien sarebbe culminato in una punizione, probabilmente spaventosa, per tutte le donne coinvolte: non solo lei ma anche Elayne, Siuan e Leane. Significava anche lasciar trapelare il segreto di Birgitte, e tutta quella preziosa conoscenza sarebbe andata perduta per sempre. Moghedien non sapeva nulla della guarigione, ma aveva fornito a Nynaeve una dozzina di suggerimenti su cosa fosse possibile fare; lei era sicura che ci fosse dell’altro nella Reietta, e con quelle nozioni a guidarla si chiedeva cos’altro avrebbe potuto scoprire.

Nynaeve aveva voglia di fare un bagno, e il desiderio non aveva nulla a che vedere con il caldo. «Parleremo del tempo» ordinò acida.

«Sai più di me sul controllo delle condizioni atmosferiche.»

Moghedien pareva stanca, e la stessa sensazione passava attraverso il bracciale. Le avevano già posto abbastanza domande in merito. «Tutto quello che so è che quanto sta accadendo ora è opera del... Sommo... del Tenebroso.» Moghedien ebbe la faccia tosta di sorridere per l’errore. «Nessun umano è abbastanza forte per intervenire.»

Nynaeve si sforzò di non digrignare i denti. Elayne, che ne sapeva più di chiunque altra a Salidar su come si operava sul clima, sosteneva lo stesso. Inclusa la parte riguardante il Tenebroso, anche se solo uno sciocco non se ne sarebbe reso conto, di fronte a quel caldo assurdo in un periodo in cui avrebbe dovuto nevicare, senza pioggia e con i ruscelli che si prosciugavano. «Allora parleremo dell’uso dei diversi flussi per guarire malattie differenti.» La donna spiegò che una volta l’operazione richiedeva più tempo, ma anche che tutta la forza scaturiva dal Potere, non dal paziente o dalla donna che incanalava. Aveva già aggiunto che per certi tipi di guarigione gli uomini erano stati i migliori, ma a questo Nynaeve non poteva credere. «Devi averlo visto fare almeno una volta.»

Nynaeve era determinata. Scoprire certe cose sarebbe stato un successo di inestimabile valore. Avrebbe solo voluto non dare l’impressione che stesse scavando nella melma.

Una volta uscita dalla stanza Elayne non esitò, fece un cenno a Birgitte e proseguì. Birgitte, con i capelli biondo oro acconciati in una lunga treccia intricata, stava giocando con due ragazzini mentre teneva d’occhio il vicolo; il suo arco era appoggiato contro un recinto. O meglio, la donna stava provando a giocare con loro. Jaril e Seve fissavano la figura con addosso le insolite brache gialle e la giacca corta, ma oltre a quello non mostravano nessuna reazione. Non lo facevano mai, e nemmeno parlavano. In teoria, erano i figli di ‘Marigan’. Birgitte era contenta di stare con loro, anche se appariva vagamente triste. Le era sempre piaciuto giocare con i bambini, specie quelli piccoli, e provava ogni volta le stesse sensazioni. Elayne ne era altrettanto consapevole, come se provasse quella tristezza di persona.

Se avesse ritenuto che Moghedien avesse a che fare con l’attuale condizione dei due piccoli... Ma la Reietta sosteneva che erano sempre stati così, fin da quando li aveva trovati nel Ghealdan e usati come copertura. Orfani di strada che qualcuna delle Sorelle Gialle sosteneva avessero visto troppo delle rivolte a Samara. Dopo quanto aveva visto di persona, Elayne era propensa a credere in questa teoria. Le Gialle ritenevano che il tempo e l’attenzione li avrebbero curati; Elayne sperava che fosse vero. Sperava che non stesse permettendo alla responsabile di farla franca.

Adesso però non era il momento di pensare a Moghedien. Sua madre. No, non voleva neppure pensare a lei. Min. E Rand. Doveva esserci una maniera di risolvere la faccenda. Notando appena il cenno di Birgitte, si avviò rapidamente nel vicolo che conduceva alla strada principale di Salidar, sotto un cielo cocente e privo di nuvole.

Salidar era rimasta abbandonata per anni prima che le Aes Sedai in fuga da Elaida la scegliessero come punto di ritrovo. Sui tetti delle case riparate e rattoppate vi era della paglia fresca, come anche sui tre grandi edifici di pietra che in passato erano stati locande. Il più grande, chiamato la ‘Piccola Torre’, era il punto di incontro del Consiglio. Era stato fatto il minimo indispensabile, molte finestre avevano i vetri spaccati o mancanti. Le Aes Sedai avevano cose più importanti da fare che ricostruire o dipingere. Le strade di terra battuta erano affollatissime. Non solo dalle Sorelle, ma dalle Ammesse con gli abiti dalle fasce colorate e le novizie vestite di bianco candido, i Custodi che si muovevano con quella loro grazia letale, simili a leopardi pronti all’attacco, o i servitori che avevano seguito le Aes Sedai dalla Torre, e i bambini. Più i soldati.

Il Consiglio locale si stava preparando a far rispettare i loro diritti contro Elaida, con la forza se necessario, non appena avessero eletto una nuova Amyrlin Seat. Il suono lontano dei martelli proveniente dalle forge fuori città aveva preso il sopravvento sul brusio della folla; suggeriva che i cavalli venivano ferrati e le armature riparate. Un uomo dal viso squadrato e i capelli scuri brizzolati cavalcava lentamente in strada, con addosso una giubba giallo opaco e un pettorale di metallo ammaccato. Mentre avanzava fra la folla osservava i gruppi di uomini che marciavano con le picche, o gli archi nella stalla. Gareth Bryne aveva acconsentito a reclutare e guidare l’esercito di Salidar, anche se Elayne avrebbe voluto conoscerne i veri motivi. Qualcosa che aveva a che fare con Siuan e Leane, ma lei non riusciva a immaginare cosa, dal momento che l’uomo faceva trottare le due, specialmente Siuan, costringendole a rispettare un giuramento che Elayne non aveva ben chiaro. Sapeva solo che Siuan si lamentava di dover tenere in ordine la stanza e gli abiti di Gareth Bryne oltre a tutte le altre cose che era tenuto a fare. Si lamentava, ma eseguiva comunque i suoi compiti. Doveva trattarsi di un giuramento molto serio. Gli occhi di Bryne non indugiarono su Elayne. Quell’uomo si comportava in maniera fredda, educata e distaccata da quando la ragazza era giunta a Salidar, anche se lo conosceva da quando era nella culla. Fino a meno di un anno prima era stato il capitano generale delle guardie della regina di Andor, ed Elayne credeva che avrebbe sposato sua madre. No, non avrebbe pensato a sua madre! Min. Doveva trovarla e parlarle.

Non appena cominciò a procedere per la strada polverosa, due Sorelle l’intercettarono. Non ebbe altra scelta che fermarsi e fare la riverenza, mentre la folla fluiva fra loro. Nessuna delle due sudava. Elayne si sfilò un fazzoletto dalla manica per tamponarsi il viso, desiderando che le fosse già stato insegnato quel trucco da Aes Sedai. «Buongiorno, Anaiya Sedai, Janya Sedai.»

«Buongiorno, bambina. Hai scoperto qualcosa di nuovo oggi?» Come sempre, Janya Frende parlava come se non avesse il tempo di pronunciare le parole per intero. «Tu e Nynaeve avete fatto dei notevoli passi avanti, per essere delle Ammesse. Non capisco ancora come faccia Nynaeve, avendo tutti quei problemi con il Potere, ma devo ammettere di essere deliziata.» Diversamente da altre Sorelle Marroni, spesso distratte dai loro libri, Janya Sedai era precisa, portava i capelli bene in ordine attorno al viso privo dei segni dell’età, tipico delle Aes Sedai che avevano lavorato a lungo con il Potere. L’aspetto slanciato della donna suggeriva appena l’Ajah di appartenenza. L’abito era semplice e grigio, di pura lana! — era raro che le Marroni pensassero all’abbigliamento se non come forma di decenza — e quando si rivolgeva a qualcuno aveva sempre il viso leggermente corrucciato, come se in realtà stesse pensando a tutt’altro. Senza quell’espressione sarebbe stata carina. «Quel modo di avvolgersi nella luce per diventare invisibili. Davvero notevole. Sono certa che qualcuna scoprirà come bloccare il tremolio, per permettere il movimento. E Carenna è decisamente emozionata da quel trucco di Nynaeve per spiare. Non certo una cosa onesta, ma utile. Carenna pensa di riuscire a trovare il modo di parlare a distanza usando lo stesso metodo. Immagina. Parlare con qualcuno lontano un chilometro! O due, o anche...» Anaiya le toccò il braccio e Janya si interruppe, guardandola.

«Stai facendo dei bei progressi, Elayne» confermò Anaiya con calma. Il volto della donna era sempre sereno. ‘Materna’ era la parola adatta per descriverla, ed era gentile come sempre, ma i lineamenti delle Aes Sedai non aiutavano a dare loro un’età. La donna faceva anche parte del piccolo circolo di Sheriam, che deteneva il vero potere a Salidar. «Più di quanto chiunque di noi si aspettasse, e ci aspettavamo molto. La prima a creare un ter’angreal fin dai tempi della Frattura. È davvero eccezionale, e voglio che tu lo sappia. Dovresti esserne molto orgogliosa.»

Elayne aveva lo sguardo rivolto a terra. Due ragazzini svicolarono tra la folla ridendo. Lei sperava che nessuno fosse abbastanza vicino da sentire, anche se i passanti non si fermavano certo a guardarle. Con così tante Aes Sedai nel villaggio, nemmeno una novizia faceva la riverenza a meno che le Sorelle la interpellassero, e tutti avevano faccende urgenti da sbrigare.

Elayne, invece, non si sentiva affatto fiera. Non di tutte le loro ‘scoperte’, visto che venivano da Moghedien. Molte erano iniziate con l’inversione, per cui un flusso non poteva essere visto da altri se non dalla donna che lo aveva intessuto, ma non avevano comunque rivelato tutto. Per esempio, tenevano segreto il metodo per nascondere la capacità di incanalare. Senza di esso, Moghedien sarebbe stata smascherata in poche ore — ogni Aes Sedai a due o tre passi di distanza avrebbe potuto percepire se una donna era o meno in grado di incanalare — e se le altre Sorelle l’avessero imparato, potevano scoprire come penetrare la cortina protettiva usata per cambiare sembianze; i flussi invertiti rendevano Marigan totalmente diversa da Moghedien.

Alcune delle conoscenze della Reietta decisamente sgradevoli. La coercizione, per esempio, piegava la volontà altrui, oltre a essere un sistema per impartire istruzioni senza che il ricevente ne avesse memoria al momento dell’esecuzione. Cose peggiori. Troppo disgustose e fors’anche pericolose per rivelarle. Nynaeve sosteneva che dovevano impararle per potersi difendere, ma Elayne non voleva. Avevano così tanti segreti, raccontavano così tante bugie alle amiche e alle persone dalla loro stessa parte, che avrebbe quasi voluto poter prestare i Tre Giuramenti usando la Verga dei Giuramenti, senza aspettare di diventare Aes Sedai. Uno dei tre consisteva nel non proferire parola che non fosse vera, ed era impresso nella persona come se facesse parte della sua carne.

«Non ho operato bene come avrei dovuto con il ter’angreal, Anaiya Sedai.» Quello se non altro era davvero opera sua. Il primo era stato il bracciale con il collare — una creazione tenuta ben segreta, non c’era bisogno di spiegarlo —, una brutta copia dell’originale, l’a’dam, un’invenzione terribile che le Seanchan si erano lasciate alle spalle dopo la fallita invasione di Falme. Il semplice disco verde che consentiva anche a chi non era abbastanza forte di eseguire il trucco dell’invisibilità — non molte erano in grado di farlo da sole — era stato una sua idea. Elayne non aveva a disposizione angreal o sa’angreal da studiare, quindi non aveva potuto fare delle copie, e anche dopo il successo con il marchingegno Seanchan creare un ter’angreal non si era dimostrato facile come credeva. Questi oggetti usavano l’Unico Potere invece di amplificarlo; l’utilizzavano per una ragione specifica. Alcuni potevano anche essere adoperati da persone che non potevano incanalare, uomini inclusi. Avrebbero dovuto essere più semplici. Forse risultavano tali nell’uso, ma non erano facili da creare.

Quella sua frase modesta scatenò una risposta torrenziale di Janya. «Sciocchezze, bambina. Assolute. Sono certa che non appena faremo ritorno alla Torre per esaminarti come si deve e metterti fra le mani la Verga dei Giuramenti, otterrai lo scialle e l’anello. Non c’è dubbio. Stai esaudendo tutte le promesse che avevamo visto in te, anche di più. Nessuna avrebbe potuto aspettarsi...» Anaiya le toccò nuovamente il braccio. Pareva un segnale prestabilito, perché Janya si fermò battendo le palpebre.

«Non c’è bisogno di stordire la bambina in questo modo» intervenne Anaiya. «Elayne, non accetto capricci da te, ormai dovresti essere cresciuta.» Una madre poteva essere decisa quanto gentile. «Non ha senso lamentarsi di pochi fallimenti, non quando i successi sono meravigliosi.» Elayne aveva fatto cinque tentativi con il disco di pietra. Due non avevano funzionato, due avevano fatto apparire la persona che li usava indistinta, oltre a provocarle la nausea. Non erano pochi, quindi, i fallimenti: non secondo Elayne. «Tutto quello che hai fatto è meraviglioso. E lo stesso vale per Nynaeve.»

«Grazie» rispose Elayne. «A entrambe. Cercherò di non tenere il broncio.» Quando un’Aes Sedai diceva qualcosa, non era il caso di contraddirla. «Potete scusarmi? So che c’è un’ambasciata per Caemlyn in partenza oggi e vorrei salutare Min.»

Naturalmente la lasciarono andare, ma se Janya fosse stata sola la conversazione avrebbe potuto durare mezz’ora. Anaiya rivolse un’attenta occhiata a Elayne — di sicuro era al corrente dello scambio di opinioni con Sheriam — ma non disse nulla. A volte il silenzio di un’Aes Sedai era forte come le parole.

Elayne si allontanò giocando con l’anello sul dito medio della mano sinistra, gli occhi puntati avanti come se non avesse notato nessuna che voleva congratularsi con lei. Forse avrebbe funzionato, o forse le sarebbe costato una visita da Tiana. L’indulgenza per un buon operato non si spingeva tanto lontano. In quel momento avrebbe preferito una ramanzina di Tiana.

L’anello d’oro rappresentava un serpente che si mordeva la coda, il Gran Serpente, un simbolo Aes Sedai, ma portato anche dalle Ammesse. Una volta ottenuto lo scialle con le frange del colore dell’Ajah prescelta, lo avrebbe portato al dito che preferiva. Lei avrebbe scelto l’Ajah Verde per necessità. Solo le Sorelle Verdi avevano più di un Custode, e lei voleva Rand. Il problema era che aveva già legato a sé Birgitte, la prima donna a essere diventata Custode. Era questo il motivo per cui percepiva i sentimenti di Birgitte, sapendo per esempio che la donna si era fatta male conficcandosi una scheggia nella mano proprio quella mattina. Solo Nynaeve era al corrente del legame. I Custodi erano esclusiva delle Aes Sedai. Un’Ammessa che avesse oltrepassato quel limite non avrebbe avuto scuse valide per salvarsi la pelle. Per loro era stata necessità, non un capriccio — altrimenti Birgitte sarebbe morta — ma Elayne non pensava che avrebbe fatto differenza. Infrangere una regola con il Potere poteva essere fatale, e non solo per la colpevole. Onde inculcare bene quella regola nelle giovani teste delle allieve, era raro che le Aes Sedai mostrassero anche un minimo di indulgenza.

Lì a Salidar Elayne vedeva tanti sotterfugi. Non solo Birgitte e Moghedien. Uno dei Giuramenti impediva alle Aes Sedai di mentire, ma su ciò che non veniva detto non erano necessarie bugie. Moiraine sapeva come intessere un mantello di invisibilità, forse usando lo stesso trucco che lei aveva imparato da Moghedien; una volta Nynaeve glielo aveva visto fare, prima che imparasse cosa fosse il Potere. Nessun’altra a Salidar lo sapeva creare. O, se non altro, non lo ammettevano. Birgitte aveva confermato quanto Elayne sospettava. Molte Aes Sedai, forse tutte, tenevano nascosto almeno parte di quanto imparavano, e parecchie avevano dei trucchi segreti. Alcuni venivano insegnati alle novizie e alle Ammesse, se venivano imparati da un numero elevato di Aes Sedai, o altrimenti morivano con le Aes Sedai stesse. Due o tre volte le era parso di aver visto una luce negli occhi di alcune di loro quando davano qualche dimostrazione. Carenna era sobbalzata in maniera sospetta a proposito del trucco dell’origliare, ma non era certo un’accusa che un’Ammessa potesse muovere contro una Sorella.

La consapevolezza dei segreti altrui non rendeva i suoi sotterfugi migliori, ma forse era un piccolo aiuto. Quello, e rammentare la necessità che avevano. Se solo avessero smesso di farle i complimenti per qualcosa che non aveva fatto...

Elayne era certa di sapere dove trovare Min. Il fiume Eldar era a meno di un chilometro e mezzo e un piccolo ruscello scorreva ai margini del villaggio, quindi attraversava la foresta e raggiungeva il fiume. La maggior parte degli alberi cresciuti nel villaggio erano stati abbattuti dopo l’arrivo delle Aes Sedai, ma ne era rimasto un gruppetto vicino al ruscello dietro alcune delle case, su un appezzamento di terra troppo piccolo per essere utilizzato. Min sosteneva di amare maggiormente le città, eppure andava spesso a sedersi fra gli alberi. Era un modo di sfuggire alla compagnia delle Aes Sedai e dei Custodi per un breve periodo, cosa quasi essenziale per la ragazza.

Proprio come si aspettava, dopo aver svoltato l’angolo di una casa di pietra sulla stretta striscia di terra vicino a un canaletto, Elayne vide Min seduta con la schiena contro un albero che osservava il ruscello o quel che ne rimaneva scorrere fra le rocce. Il rivolo scendeva in un letto di fango largo il doppio del flusso d’acqua rimasto. Sugli alberi c’erano poche foglie; anche la maggior parte della foresta cominciava a spogliarsi, incluse le querce.

Un ramo secco si spezzò sotto i passi di Elayne e Min balzò in piedi. Come sempre aveva addosso una giubba grigia e delle brache di fattura maschile, ma sul bavero e sul lato delle gambe erano ricamati dei fiorellini azzurri. Stranamente, anche se aveva raccontato che le tre zie che l’avevano cresciuta erano sarte, Min non pareva in grado di riconoscere la cruna di un ago dalla punta. Fissò Elayne, quindi fece una smorfia e si passò le mani fra i capelli. «Lo sai» fu tutto ciò che disse.

«Credo che dovremmo parlare.»

Min si passò di nuovo le mani fra i capelli. «Siuan me lo ha riferito solo stamattina. Da allora ho cercato di raccogliere il coraggio per dirtelo. Vuole che lo spii, Elayne. E per l’ambasciata mi ha anche dato dei nomi di gente a Caemlyn: vuole ricevere messaggi da loro.»

«Tu non lo farai, naturalmente» rispose Elayne con un tono di voce leggermente interrogativo, e Min le rivolse un’occhiata colma di gratitudine. «Perché avevi paura di venire da me? Siamo amiche, Min. E abbiamo promesso di non lasciare mai che un uomo si interponga fra noi. Anche se entrambe lo amiamo.»

La risata di Min era vagamente rauca; Elayne supponeva che molti uomini la trovassero attraente. Era carina, con un visetto malizioso, e solo di qualche anno più grande di lei. Era qualcosa che giocava a suo favore o contro? «Oh, Elayne, lo abbiamo detto quando era ben lontano da tutte e due. Perderti sarebbe come perdere una sorella, ma cosa succede se una di noi cambia idea?»

Meglio non chiedere di quale delle due si trattasse. Elayne cercò di non pensare che se avesse legato e imbavagliato Min con dei flussi invertiti di Potere, avrebbe potuto nasconderla in una cantina fino a quando l’ambasciata fosse partita. «Non lo faremo» fu la semplice risposta. Non poteva nuocere a Min. Voleva Rand per sé, ma non poteva fare del male a Min. Forse avrebbe potuto chiederle di non andare fino a quando non avessero potuto partire insieme, invece disse: «Gareth ti ha rilasciata dal giuramento?»

Stavolta la risata di Min fu un’esplosione. «Al contrario. Ha detto che prima o poi mi farà lavorare. È Siuan quella che vuole veramente, solo la Luce sa perché.» Una leggera tensione sul viso della ragazza fece pensare a Elayne che vi fosse coinvolta una visione, ma non le rivolse alcuna domanda. Min non ne parlava mai, a meno che la premonizione non riguardasse direttamente l’interlocutore.

Min aveva un talento noto solo a poche, lì a Salidar. Elayne, Nynaeve, Siuan e Leane, solo loro. Birgitte non lo sapeva, ma a sua volta la ragazza non era al corrente di Birgitte. O di Moghedien. Così tanti segreti. Min era un segreto in sé. A volte vedeva immagini o aure attorno alle persone, capendone solo in poche occasioni il significato, e quando accadeva aveva sempre ragione. Per esempio, se diceva che un uomo e una donna si sarebbero sposati, prima o poi lo avrebbero fatto, anche se si conoscevano appena. Leane lo chiamava ‘leggere il Disegno’, ma non aveva nulla a che fare con il Potere. La maggior parte delle persone normali erano circondate da quelle immagini solo sporadicamente, ma le Aes Sedai e le Custodi le avevano sempre intorno. La scelta di Min di ritrovarsi in quel luogo era anche per sfuggire a quell’inondazione di visioni.

«Consegneresti una lettera a Rand per mio conto?»

«Certo.» L’assenso dell’altra donna fu veloce, il volto così aperto che Elayne arrossì, proseguendo rapidamente. Non era certa che lei avrebbe acconsentito se le posizioni fossero state invertite. «Non devi rivelargli le tue visioni, Min. Quelle che riguardano noi.» Una cosa che la ragazza aveva visto sul conto di Rand era che tre donne si sarebbero innamorate disperatamente di lui, legandosi all’uomo per sempre, e che una di quelle era lei in persona. La seconda si era rivelata essere Elayne. «Se viene a conoscenza delle visioni potrebbe decidere che i nostri sentimenti non sono spontanei, ma determinati dal Disegno, o dal fatto che lui è ta’veren. Potrebbe decidere di mostrarsi nobile e salvarci non concedendosi a nessuna delle due.»

«Forse» rispose dubbiosa Min. «Gli uomini sono strani. È più probabile che se dovesse accorgersi che scartiamo entrambe quando schiocca le dita finisca per approfittarne. Non riuscirà a trattenersi. Ho visto uomini farlo. Credo che abbia a che vedere con i peli del viso.» Min aveva un’espressione talmente persa che Elayne non riusciva a capire se stesse scherzando o meno. Sembrava che la ragazza ne sapesse parecchio sugli uomini; aveva lavorato in molte stalle — le piacevano i cavalli — ma una volta aveva accennato a un lavoro da cameriera in una taverna. «In ogni caso non ne parlerò. Ce lo divideremo come fosse una torta. Forse lasceremo qualche briciola alla terza, quando si farà avanti.»

«Cosa faremo, Min?» Elayne non avrebbe voluto porre quella domanda, certo non gemendo. Una parte di lei voleva negare che sarebbe scattata al volere di Rand, l’altra parte invece desiderava che lui comandasse. Parte di lei voleva dire che non avrebbe condiviso Rand con nessuna e per nessun motivo, nemmeno con un’amica, e che le visioni di Min potevano sprofondare nel Pozzo del Destino; l’altra invece avrebbe voluto tirare le orecchie di Rand per aver scatenato tutto questo putiferio. Era tutto talmente infantile che aveva voglia di nascondere il viso, ma non riusciva a districare i propri sentimenti. Dopo aver moderato il tono di voce rispose alla propria domanda prima che Min potesse aprire bocca. «Quello che faremo è sederci e parlare un po’.» Diede seguito alle parole trovando un punto dove il letto di foglie secche era particolarmente spesso. Un albero si dimostrò lo schienale perfetto. «Ma non di Rand. Mi mancherai, Min. È bello avere un’amica di cui potersi fidare.»

La ragazza si sedette a gambe incrociate accanto a lei e cominciò a tirare oziosamente dei sassolini nel ruscello. «Nynaeve è tua amica. Ti fidi di lei. E anche Birgitte sembra essere una buona amica. Trascorri più tempo con lei che con Nynaeve.» Aggrottò leggermente la fronte. «Crede davvero di essere la donna delle leggende? Voglio dire, l’arco e la freccia — ogni storia ne parla, anche se l’arma non è d’argento — e non riesco a immaginare che sia nata con quel nome.»

«E invece è così» rispose cauta Elayne: in fondo era vero, ma era il caso di dirottare la conversazione. «Quanto a Nynaeve, non riesce ancora a decidere se sono un’amica o una da costringere a fare ciò che lei ritiene giusto; trascorre più tempo di quanto faccia io rammentandomi che sono l’erede al trono. Credo che a volte ce l’abbia con me. Tu invece non lo fai mai.»

«Forse non ne sono così colpita.» Min sorrideva, ma sembrava comunque seria. «Io sono nata sulle montagne della Nebbia, fra le miniere. Gli editti di tua madre sono deboli, a occidente.» Il sorriso le svanì dal volto. «Mi dispiace, Elayne.»

Dopo aver superato un istante di indignazione — Min era una suddita del trono del Leone quanto Nynaeve! — Elayne si accasciò contro l’albero. «Parliamo di qualcosa di allegro.» Il sole ardeva alto fra i rami e il cielo era azzurro chiaro, senza nemmeno una nuvola all’orizzonte. D’impulso Elayne si aprì a saidar e se ne lasciò colmare: aveva l’impressione che tutta la gioia del mondo fosse stata distillata e ogni goccia di sangue che le scorreva nelle vene fosse stata rimpiazzata da quell’essenza. Se solo fosse riuscita a creare una nuvola, sarebbe stato un segno di buona riuscita. La madre viva. Rand l’avrebbe amata. E Moghedien... avrebbe avuto la sua parte. Lavorò una tenue rete usando Aria e Acqua attraverso il cielo, fin dove poteva vedere, alla ricerca dell’umidità per formare una nuvola. Se si fosse sforzata abbastanza... La dolcezza si trasformò in dolore, un segnale di pericolo. Attingendo troppo Potere si rischiava di quietarsi da sole. Solo una nuvoletta.

«Allegro?» rispose Min. «Be’, so che non vuoi parlare di Rand, ma lui è ancora la persona più importante che io conosca. E la più allegra. I Reietti muoiono quando appare lui e le nazioni si mettono in fila per inchinarsi al suo cospetto. Le Aes Sedai qui sono pronte a sostenerlo. So che è così, Elayne. Devono. Il prossimo passo sarà Elaida che gli consegna la Torre. L’Ultima Battaglia sarà una passeggiata per lui. Sta vincendo, Elayne. Noi stiamo vincendo.»

Dopo aver rilasciato la Fonte, Elayne ricadde indietro fissando il cielo, vuoto come il suo stato d’animo. Non si doveva essere capaci di incanalare per riconoscere l’operato del Tenebroso, e se poteva toccare il mondo in questo modo, se poteva toccarlo... «Stiamo vincendo?» mormorò, a voce troppo bassa perché Min la sentisse.

La residenza non era ancora terminata, le pareti del soggiorno composte da alti pannelli di legno erano chiare e immacolate, ma Faile ni Bashere t’Aybara teneva corte ogni giorno, come era appropriato che facesse la moglie di un signore, su una sedia enorme decorata da incisioni che rappresentavano dei falchi, sistemata proprio davanti a un camino di pietra spoglia, gemello di quello sul lato opposto della stanza. La sedia vuota al suo fianco, decorata con dei lupi e con una grande testa anch’essa di lupo in cima allo schienale, avrebbe dovuto essere occupata dal marito, Perrin t’Bashere Aybara, Perrin Occhidoro, signore dei Fiumi Gemelli.

Chiaramente la tenuta era solo una grossa fattoria, il soggiorno era lungo meno di quindici passi — come l’aveva guardata Perrin, quando Faile aveva insistito perché fosse così grande! Lui era ancora abituato a pensarsi come un fabbro, forse addirittura un apprendista — e il nome di battesimo di lei era Zarine, non Faile. Quelle cose al momento erano irrilevanti. Zarine era il nome di una donna languida che sospirava tremante sui poemi composti per guadagnarsi i suoi sorrisi. Faile era il nome che si era scelta quando aveva prestato giuramento come Cercatrice del Corno di Valere, e significava ‘falco’ nella lingua antica. Chiunque osservasse con attenzione quel naso prominente, gli zigomi alti e gli occhi scuri a mandorla che lampeggiavano quando era arrabbiata, sapeva subito quale dei due nomi le si addicesse. Per il resto, contavano molto le intenzioni. Come anche ciò che era giusto e appropriato.

In quel momento, gli occhi di Faile lampeggiavano, ma la cosa non aveva nulla a che fare con la testardaggine di Perrin e poco con il caldo irragionevole. Per la verità, il futile lavorio con il ventaglio di piume, nella speranza che impedisse al sudore di colarle sulle guance, non contribuiva affatto a migliorare il suo umore.

A quell’ora tarda del pomeriggio di quella folla che era venuta a chiederle di risolvere le dispute erano rimasti in pochi. In realtà i più volevano essere ascoltati da Perrin, ma l’idea di giudicare persone con le quali era cresciuto lo disgustava. A meno che Faile non riuscisse a chiuderlo in un angolo, svaniva come un lupo nella nebbia quando giungeva il momento dell’udienza. Per fortuna alla gente non dispiaceva che fosse lady Faile ad ascoltare anziché lord Perrin, e i pochi di parere contrario erano abbastanza saggi da nasconderlo.

«Siete state voi a parlarne» disse atona. Le due donne che sudavano copiosamente davanti a lei cambiarono posizione a disagio, fissando il pavimento di legno lucido.

Le curve floride di Sharmad Zeffar dalla pelle ramata erano coperte, anche se non nascoste, da un abito domanese a collo alto ma decisamente trasparente, in seta chiara color oro, consumato intorno al colletto e ai polsini, con ancora qualche macchia dovuta al viaggio. La seta era seta, e in quel luogo era una rarità. Pattuglie inviate sulle montagne della Nebbia alla ricerca dei superstiti dell’invasione Trolloc dell’estate precedente avevano scoperto poche delle creature bestiali — e nessun Myrddraal, grazie alla Luce — ma in compenso trovavano dei profughi quasi ogni giorno, dieci in una zona, venti da un’altra parte, cinque ancora altrove. La maggior parte proveniva dalla piana di Almoth, ma molti erano di Tarabon e, come Sharmad, dell’Arad Doman, tutti in fuga da terre sconvolte dall’anarchia oltre che dalla guerra civile. Faile non voleva pensare a quante persone erano morte sulle montagne. Senza strade o sentieri, i picchi non erano facili da attraversare in tempi buoni, e quelli attuali erano tempi tutt’altro che buoni.

Rhea Avin non era una profuga, anche se aveva addosso la copia di un abito di Tarabon in lana fine, con delle morbide pieghe grigie che enfatizzavano la figura quasi quanto l’abito sottile di Sharmad. Quelli che sopravvivevano alla lunga traversata delle montagne portavano con sé voci non solo inquietanti, ma anche inedite nei Fiumi Gemelli e altre mani per lavorare nei campi spopolati dai Trolloc. Rhea era una donna graziosa dal viso rotondo, nata a meno di due chilometri da dove sorgeva la tenuta, e aveva i capelli scuri raccolti in una lunga treccia che le arrivava fino alla vita. Nei Fiumi Gemelli le ragazze non intrecciavano i capelli fino a quando la Cerchia delle Donne dichiarava che fossero abbastanza grandi per sposarsi, avessero quindici o trent’anni, anche se poche superavano i venti. Rhea aveva almeno cinque anni più di Faile e portava i capelli raccolti in una treccia da quattro anni, ma in questo momento pareva che avesse ancora i capelli sciolti sulle spalle e si era appena accorta di come quella che le era sembrata un’idea fantastica nel momento in cui l’aveva pensata era in effetti la cosa più stupida che avesse potuto fare. Per inciso, Sharmad pareva vergognarsi più di lei, anche se aveva un anno o due più di Rhea. Per una Domanese trovarsi in una simile situazione doveva essere umiliante. Faile avrebbe voluto prenderle entrambe a schiaffi — solo che una lady non poteva farlo.

«Un uomo» disse con la voce più neutrale che riuscì a trovare «non è un cavallo o un campo. Nessuna di voi può possederlo e chiedermi di decidere chi ne ha il diritto...» sospirò. «Se però Wil al’Seen vi ha frequentate entrambe, ho qualcosa da dire.» A Wil piacevano le donne e loro lo ricambiavano — aveva davvero dei bei polpacci — ma non faceva mai promesse. Sharmad pareva pronta a sprofondare nel pavimento: dopotutto le Domanesi avevano la reputazione di rigirarsi gli uomini fra le dita, non di subire raggiri. «Per come stanno le cose, questo è il mio giudizio. Andrete entrambe dalla Sapiente e le spiegherete la faccenda, senza tralasciare nulla. Se ne occuperà lei. Mi aspetto di essere avvisata di quell’incontro prima del tramonto.»

Le due batterono le ciglia. Daise Congar, l’attuale Sapiente di Emond’s Field, non avrebbe tollerato quel tipo di insensatezze. Sarebbe andata ben oltre, ma le due fecero la riverenza, mormorando «Sì, mia signora» in tono sconsolato. Se non lo stavano già facendo, presto si sarebbero pentite amaramente di aver sprecato il tempo di Daise Congar.

E il mio, pensò Faile seccata. Tutti sapevano che Perrin non amava presenziare alle udienze e le evitava, o non avrebbero presentato problemi tanto sciocchi. Se quella volta ci fosse stato, se ne sarebbero andati via piuttosto che confessarli davanti a lui. Faile sperava che il caldo avesse reso Daise nervosa. Peccato che non c’era modo di consegnarle Perrin.

Cenn Buie prese il posto delle donne poco prima che queste uscissero dalla sala. Benché si appoggiasse pesantemente a un bastone da passeggio nodoso quasi quanto lui, riuscì a fare un bell’inchino, per poi rovinarlo subito passandosi le dita nodose fra i capelli lisci. Come sempre, pareva che avesse dormito nei vestiti. «Che la Luce splenda su di te, mia signora Faile, e sul tuo onorevole marito lord Perrin.» Quelle parole grandiose parevano strane, provenendo da lui. «Permettimi di aggiungere i miei auguri per un futuro felice a quelli del Consiglio. La tua intelligenza e bellezza illuminano le nostre vite, come la giustizia delle tue decisioni.»

Faile tamburellava con le dita sul bracciolo della sedia senza accorgersene. Complimenti fioriti invece del solito brontolio acido. Per ricordare che lui sedeva al Consiglio e quindi era un uomo influente al quale era dovuto rispetto. Cercando di ottenere simpatia con il bastone. L’impagliatore era vivace come poteva essere uno della sua età. Voleva qualcosa. «Che mi proponi oggi, mastro Buie?»

Cenn si tirò su, dimenticando di fare uso del bastone. Nonché di mantenere il tono di voce amichevole anziché acido. «Tutti questi stranieri che ci invadono e che portano un mucchio di cose che qui non vogliamo...» Sembrava aver dimenticato che neanche lei era del posto, come del resto la maggior parte degli abitanti dei Fiumi Gemelli. «Strane usanze, mia signora. Abiti indecenti. Sentirai dalle donne cosa indossano quelle sgualdrine domanesi, se non te lo hanno già detto.» Lo aveva già sentito da qualcuna di loro, anche se un lampo estemporaneo negli occhi di Cenn diceva che avrebbe avuto dei rimpianti se Faile avesse accettato le loro richieste. «Gli stranieri ci tolgono il cibo di bocca e ci sottraggono gli affari. Quel tizio di Tarabon e le sue stupide tegole, per esempio. Si è preso braccia che avrebbero potuto essere usate per qualche lavoro utile. Non gli importa della brava gente dei Fiumi Gemelli. Perché lui...»

Faile smise di ascoltare facendo però finta di prestare attenzione, mentre continuava a sventolarsi. Era un trucco che le aveva insegnato il padre, necessario in momenti simili. Ma certo. Le tegole di Hornvald avrebbero posto fine al lavoro di Cenn.

Non tutti provavano gli stessi sentimenti nei confronti dei nuovi arrivati. Haral Luhan, il fabbro di Emond’s Field, si era associato con un coltellaio domanese e uno stagnaio della piana di Almoth, mastro Aydaer aveva assunto tre uomini e due donne che sapevano costruire i mobili, intagliarli e dorarli, anche se non c’era oro a disposizione per quell’operazione. La sua sedia e quella di Perrin erano opera loro, un bel lavoro, come quelli che aveva visto in altri luoghi. Anche Cenn aveva assunto una mezza dozzina di aiutanti, e non tutti dei Fiumi Gemelli. Molti tetti erano stati incendiati con la venuta dei Trolloc e ovunque venivano costruite nuove case. Perrin non aveva alcun diritto di farle ascoltare da sola tutte quelle insensatezze.

Il popolo dei Fiumi Gemelli lo aveva proclamato suo signore — era il minimo, dopo che aveva sconfitto i Trolloc — e Perrin doveva cominciare a capire che non poteva cambiare la situazione: doveva accettarla, visto che tutti s’inchinavano e lo chiamavano lord Perrin apertamente, anche dopo che aveva chiesto loro di non farlo. Eppure lui se ne infischiava di tutto ciò che comportava l’essere un signore, come di ciò che la gente si aspettava dai propri governanti. Peggio ancora, era refrattario ai doveri di un signore. Faile invece li conosceva perfettamente, in quanto unica sopravvissuta adulta dei figli di Davram t’Ghaline Bashere, lord di Bashere, Tyr e Sidona, Guardiano dei confini della Macchia, Difensore della terra del Cuore e capitano generale della regina Tenobia di Saldea. Certo, lei era fuggita per diventare una Cercatrice del Corno — rinunciandovi poi per un marito, cosa che a volte ancora la stupiva — ma certe cose le ricordava; Perrin l’ascoltava quando spiegava e annuiva al momento giusto, ma spingerlo a fare una qualsiasi di quelle cose era come cercare di far ballare la sa’sara a un cavallo.

Finalmente Cenn concluse farfugliando, ricordandosi all’ultimo momento di trattenere le invettive che avrebbe voluto sputare.

«Io e Perrin abbiamo deciso di usare la paglia» rispose Faile con calma. Mentre Cenn annuiva compiaciuto, aggiunse: «Non hai ancora finito il tuo lavoro.» L’uomo sobbalzò. «Sembra che tu abbia preso più tetti di quanti sei in grado di gestirne, mastro Buie. Se il nostro non viene terminato presto, temo che dovremo chiedere a mastro Hornvald di fornirci le sue tegole.» Cenn mosse la bocca senza emettere alcun suono; se avessero messo le tegole sul tetto della tenuta, altri avrebbero seguito l’esempio. «Ho gradito il tuo discorso, ma sono certa che preferisci terminare il mio tetto anziché perdere tempo in conversazioni oziose, per quanto piacevoli.»

Cenn la guardò torvo per un istante, con le labbra serrate, quindi fece un inchino frettoloso, borbottando qualcosa di incomprensibile, apparentemente un soffocato «Mia signora» e uscì battendo il bastone da passeggio a terra. La gente trovava sistemi incredibili per sprecare tempo. Perrin avrebbe assolto alla sua parte di udienze, a costo di legarlo mani e piedi.

Le restanti richieste non furono altrettanto provocatorie. Una donna, un tempo robusta, con addosso un abito a fiori rattoppato che adesso pendeva come un sacco vuoto, giunta da Capo Toman, oltre la piana di Almoth, che voleva avviare un commercio di erbe curative. Il grosso Jon Ayellin che si strofinava la testa calva e il magro Thad Torfinn che giocava con il bavero della giacca, in contesa per i confini di un terreno. Due scuri uomini domanesi con le lunghe vesti di cuoio e le barbe corte, minatori che credevano di aver scorto tracce d’oro e argento mentre attraversavano le montagne, come anche ferro, benché quello li interessasse meno. E infine una magra Tarabonese, con il velo trasparente davanti al viso assottigliato e i capelli chiari acconciati in una moltitudine di treccine, che dichiarava di essere stata maestra tessitrice di tappeti e di saper costruire anche i telai.

Faile indirizzò alla Cerchia delle Donne la signora interessata al commercio delle erbe; se Espara Soman conosceva davvero il proprio mestiere, le avrebbero trovato una posizione con una delle Sapienti del villaggio. Fra tutta la nuova gente che arrivava, molti erano malconci per via del viaggio e nessuna delle Sapienti dei Fiumi Gemelli aveva più di un’apprendista o due. Forse non era proprio ciò che Espara voleva, ma era pur sempre un punto di partenza. Qualche domanda rese chiaro che né Thad né Jon si ricordavano davvero quali fossero i confini originali — apparentemente avevano discusso fin da quando erano nati —, quindi li consigliò di dividere a metà la differenza, la stessa decisione che i due si aspettavano dal Consiglio del Villaggio, nonché il motivo per il quale avevano protratto la discussione fra loro tanto a lungo.

Agli altri Faile concesse i permessi che avevano chiesto. Non ne avevano davvero bisogno, ma era meglio insegnare loro fin dall’inizio dove risiedeva l’autorità. In cambio del permesso e del denaro per comperare gli attrezzi, Faile stabilì con i due Domanesi che avrebbero consegnato a Perrin un decimo dei loro ritrovamenti e gli avrebbero rivelato la posizione della miniera di ferro. A Perrin non sarebbe piaciuto, ma nei Fiumi Gemelli non c’era nulla che somigliasse alle tasse e da un lord ci si aspettava che intervenisse in diverse faccende e provvedesse a questioni che comportavano spese. Il ferro sarebbe stato utile come l’oro. Per quanto riguardava Liale Mosrara, se le conoscenze che professava non erano vere la sua impresa non sarebbe durata a lungo; in caso contrario... Tre tessitrici avevano già assicurato che i mercanti avrebbero trovato ben altro che lana grezza quando l’anno seguente sarebbero scesi da Baerlon, e dei bei tappeti avrebbero significato nuova merce di scambio e più denaro. Liale promise il suo primo tappeto per la residenza e Faile annuì graziosamente, accettando il dono; avrebbe potuto concedere dell’altro solo una volta che fossero apparsi i tappeti. Alla fine tutti sembrarono soddisfatti. Anche Jon e Thad.

Mentre la donna di Tarabon arretrava inchinandosi, Faile si alzò contenta di aver finito, quindi si fermò quando altre quattro donne fecero il loro ingresso dalla porta accanto a uno dei camini, tutte sudate e con addosso robusta lana dei Fiumi Gemelli. Daise Congar, alta come la maggior parte degli uomini e più grossa, torreggiava sulle altre Sapienti e si fece avanti per prendere il comando. Edelle Gaelin, di Watch Hill, sveglia e con la treccia grigia rese chiaro con la sua postura, schiena dritta e volto teso, che riteneva che il posto di Daise spettasse a lei, per età ed esperienza, se non per altre ragioni. Elwinn Taron, la Sapiente di Deven Ride, era la più bassa, una donna rotondetta con un gradevole sorriso materno che manteneva sempre anche quando costringeva gli altri a fare cose che non gradivano. L’ultima del gruppo, Milla al’Azar di Taren Ferry, le seguiva in coda. Era la più giovane, avrebbe potuto essere quasi la figlia di Edelle, e appariva sempre insicura quando si trovava con le altre.

Faile rimase in piedi, sventagliandosi lentamente. Adesso avrebbe tanto voluto che Perrin fosse con lei. Davvero. Quelle donne avevano nei villaggi la stessa autorità del sindaco — a volte superiore — e dovevano essere affrontate con cautela, con la dignità e il rispetto dovuti. La situazione era difficile. Con Perrin si comportavano come ragazzine sorridenti, impazienti di compiacerlo, ma con lei... Nei Fiumi Gemelli non si era presentata una nobile per secoli; non avevano mai visto un rappresentante della regina di Caemlyn, per almeno sette generazioni. Tutti stavano ancora cercando di capire come rapportarsi con un signore e una signora, incluse quelle quattro, ma a volte dimenticavano che lei era lady Faile e vedevano solo una giovane donna che si era sposata appena qualche mese addietro con la benedizione di Daise. Le rivolgevano riverenze e sembravano docili, il tutto, però, dandole precise direttive su cosa fare, senza scorgervi alcuna incongruenza. Non mi lascerai più sola in quest’affare, Perrin, pensò.

Le donne fecero la riverenza, con diversi livelli di destrezza, dicendo: «La Luce splenda su di te, mia signora» una dopo l’altra.

Finite le formalità, Daise iniziò a parlare prima ancora di essersi tirata su. «Sono scappati altri tre ragazzi, mia signora.»

Il tono di voce era a metà fra il rispetto e un ‘adesso Stammi a sentire, ragazzina’. «Dav Ayellin, Ewin Finngar ed Elam Dowtry. Fuggiti per vedere il mondo dopo aver ascoltato i racconti di lord Perrin.»

Faile batté le palpebre, sorpresa. Quei tre non erano dei ragazzini. Dav ed Elam avevano la stessa età di Perrin, Ewin la sua. Le storie di Perrin, che lui raccontava raramente e con riluttanza, non erano l’unico modo in cui i giovani dei Fiumi Gemelli venivano a conoscenza dei fatti del mondo. «Posso chiedere a Perrin di parlare con voi, se volete.»

Le donne si agitarono: Daise lo aspettava piena di speranze, Edelle e Milla si lisciarono automaticamente gli abiti, Elwinn si sistemò inconsapevolmente la treccia lanciandola poi dietro le spalle. Di colpo si accorsero di cosa stavano facendo e si immobilizzarono senza guardarsi fra di loro o posare gli occhi su di lei. Il vantaggio che Faile aveva su di loro era che sapeva quale effetto suo marito facesse a quelle donne. Aveva visto tante volte una o l’altra ricomporsi dopo un incontro con Perrin, giurando tra sé e sé che non sarebbe accaduto mai più; aveva anche visto molte volte quella risoluzione volare fuori dalla finestra alla sola comparsa del marito. Nessuna era sicura di voler trattare con lui piuttosto che con Faile.

«Non sarà necessario» rispose Edelle dopo un istante. «I ragazzi che scappano sono una seccatura, nient’altro.» Il tono di voce era leggermente più duro di quello di Daise, e la paffuta Elwinn aggiunse un sorriso come quello che una madre poteva rivolgere a una figlia.

«Visto che ci troviamo qui, mia cara, tanto vale che parliamo di qualcos’altro. Acqua. Alcune persone sono preoccupate.»

«Non piove da mesi» aggiunse Edelle, e Daise annuì. Stavolta fu Faile a battere le ciglia. Erano troppo intelligenti per credere che Perrin potesse intervenire in merito. «Le fonti non sono ancora inaridite e Perrin ha ordinato di scavare altri pozzi.» Per la verità lo aveva solo suggerito, ma fortunatamente il risultato era stato lo stesso. «Molto prima del momento della semina, i canali d’irrigazione ricavati dal Waterwood verranno terminati.» Quella invece era stata una sua idea; metà dei campi della Saldea erano irrigati, ma nessuno dei Fiumi Gemelli ne aveva mai sentito parlare. «Comunque prima o poi dovrà piovere, i canali sono solo una soluzione d’emergenza.» Daise annuì nuovamente, con lentezza, e lo stesso fecero anche Elwinn ed Edelle. Ma sapevano già tutto.

«Non si tratta della pioggia» mormorò Milla. «Non proprio. Non è naturale. Vedi, nessuna di noi può ascoltare il vento.» Sollevò le spalle mentre le altre la guardavano cupe. Chiaramente stava rivelando troppo, svelava i loro segreti. In teoria, tutte le Sapienti sapevano prevedere che tempo avrebbe fatto ascoltando il vento, o se non altro sostenevano di poterlo fare. Ma Milla proseguì. «Be’, non possiamo! Osserviamo le nuvole, il comportamento degli uccelli, le formiche, i millepiedi e...» sospirando profondamente si tirò su, sempre evitando gli sguardi delle altre Sapienti. Faile si chiese come facesse a vedersela con la Cerchia delle Donne di Taren Ferry, o con il Consiglio del Villaggio, ma i membri delle due istituzioni erano tutti nuovi come Milla. Quel villaggio aveva perso l’intera popolazione con la venuta dei Trolloc. «Non è naturale, mia signora. La neve avrebbe dovuto cominciare a cadere qualche settimana fa, invece sembra di essere in piena estate. Non siamo preoccupate, mia signora, siamo terrorizzate! Se nessun altro vuole ammetterlo, lo farò io. Resto sveglia la maggior parte delle notti. Non dormo bene da un mese e...» Si interruppe, arrossendo improvvisamente, forse rendendosi conto di aver esagerato. Una Sapiente doveva mantenere il controllo in ogni circostanza, non se ne andava certo in giro a dire di essere spaventata.

Le altre spostarono lo sguardo da Milla a Faile. Non dissero nulla: i loro volti erano inespressivi come quelli delle Aes Sedai.

Adesso Faile capiva. La ragazza aveva rivelato una semplice verità. Il clima non era naturale, per niente. Anche Faile spesso rimaneva sveglia, pregando per la pioggia o, meglio ancora, la neve, cercando di non pensare a cosa si nascondesse dietro il caldo e la siccità. Ma le Sapienti in teoria dovevano tenere tranquilli gli altri, altrimenti a chi avrebbero potuto rivolgersi gli abitanti del villaggio quando erano loro per prime ad avere bisogno di essere rassicurate?

Quelle donne forse erano confuse, ma si erano recate nel posto giusto. Parte del legame fra nobili e gente comune, inculcato in Faile fin dalla nascita, dipendeva dal fatto che i primi procurassero sicurezza e salvezza. E la sicurezza consisteva anche nel rammentare alla gente che i tempi cattivi non duravano per sempre. Se oggi era brutto, domani sarebbe stato migliore, e se non domani, forse il giorno seguente. Faile avrebbe preferito essere certa lei per prima, ma le era stato insegnato a dare forza anche quando lei non ne aveva, placare le paure degli altri, non infettarli con le proprie.

«Perrin mi ha raccontato della sua gente molto prima che giungessi qui» disse. «Mi ha raccontato di quando la grandine ha rovinato i raccolti, o dell’inverno che ha ucciso metà delle pecore. Vi siete rimboccati le maniche e siete andati avanti. Quando i Trolloc hanno invaso i Fiumi Gemelli avete combattuto, e una volta finito con loro avete incominciato a ricostruire senza perdere tempo.» A questo non avrebbe creduto se non lo avesse visto con i propri occhi: non se lo sarebbe mai aspettato dai meridionali. Quella gente se la sarebbe cavata molto bene in Saldea, dove le incursioni Trolloc erano all’ordine del giorno, almeno a nord. «Non posso promettere che il tempo si rimetterà a posto domani. Posso dirvi che Perrin e io faremo quanto va fatto, qualunque cosa sia possibile, e non devo essere io a ricordarvi che voi accetterete qualsiasi cosa vi porterà il nuovo giorno, qualunque essa sia, pronti ad affrontare il futuro. La gente nata nei Fiumi Gemelli è fatta così. Voi siete così.»

Erano davvero donne intelligenti. Se non avevano ammesso con se stesse il motivo della loro visita a Faile, adesso dovevano farlo. Se fossero state meno intelligenti, si sarebbero offese. Ma anche le parole che potevano aver detto a se stesse in precedenza avevano un altro effetto, se pronunciate da qualcun altro. Era ovvio che fossero imbarazzate. Era un bel pasticcio e avevano tutte le guance rosse: desideravano ardentemente di trovarsi altrove.

«Ma certo» rispose Daise. Poi, dopo essersi piantata le mani sui fianchi, fissò le altre Sapienti, sfidandole a contraddirla. «È quello che avevo detto, no? La ragazza è sensata. Ho detto proprio così quando è arrivata qui. Ha la testa sul collo.»

Edelle tirò su con il naso. «Qualcuno ha forse sostenuto il contrario, Daise? Io non l’ho sentito. Sì, se la cava molto bene.» Per Faile, aggiunse: «Te la cavi davvero molto bene.»

Milla le fece la riverenza. «Grazie, lady Faile. So di aver detto la stessa cosa almeno a cinquanta persone, ma sentirlo da te in qualche modo...» Daise sbuffò e la interruppe: si stava dilungando troppo. La ragazza arrossì.

«Davvero un bel lavoro, mia signora.» Elwinn si protese in avanti per toccare la gonna con lo spacco da cavallerizza che era la preferita di Faile. «C’è una sarta di Tarabon a Deven Ride che potrebbe fare anche di meglio per te, se non ti spiace che te lo dica. Le ho parlato e adesso cuce solo abiti decenti, se non sono per donne sposate.» Il sorriso materno le riapparve in viso, indulgente e ferreo allo stesso tempo. «O in fase di corteggiamento. Crea indumenti meravigliosi. Senza dubbio le piacerebbe lavorare con i tuoi colori e la tua figura.»

Daise cominciò a sorridere compiacente prima che l’altra donna finisse. «Therille Marza, proprio qui a Emond’s Field, sta già preparando una dozzina di vestiti per lady Faile, incluso un bellissimo abito da cerimonia.» Elwinn si tirò su, Edelle si umettò le labbra e anche Milla sembrò pensierosa.

Per quanto riguardava Faile, l’udienza era finita. La sarta domanese aveva bisogno di una mano ferma e di controllo costante se si voleva evitare che vestisse Faile per la corte di Ebou Dar. L’abito da cerimonia era stato un’idea di Daise, una sorpresa, e anche se era nello stile della Saldea e non domanese, Faile non aveva idea di quando lo avrebbe indossato. Sarebbe trascorso molto tempo prima che nei Fiumi Gemelli vi fossero balli e sfilate. Lasciate a loro stesse, le Sapienti avrebbero iniziato a competere per vedere quale villaggio le cucisse il vestito più bello.

Offrì loro del tè, osservando disinvolta che avrebbero potuto discutere su come rincuorare la gente sulle condizioni del tempo. Fu un po’ troppo, dopo gli ultimi minuti, e le donne quasi inciamparono per la fretta di andare via, dichiarando di avere lavori urgenti che non permettevano loro di trattenersi ulteriormente.

Faile le guardò allontanarsi, pensierosa. Milla uscì per ultima come sempre, una bambina che seguiva le sorelle maggiori. Forse sarebbe stato possibile scambiare qualche parola con la Cerchia delle Donne a Taren Ferry. Ogni villaggio aveva bisogno di un sindaco e una Sapiente forti, per difendere gli interessi degli abitanti. Parole calme e serene. Quando Perrin aveva scoperto che si era recata a Taren Ferry a parlare con gli uomini prima delle elezioni del sindaco — se un uomo era stato forte e sensato nell’aiutare lei e Perrin, perché quelli che avrebbero votato non dovevano sapere che adesso loro due avrebbero ricambiato quel supporto? — quando lo aveva scoperto... Perrin era un uomo gentile, difficile da far arrabbiare, ma giusto per sicurezza si era barricata in camera da letto fino a quando non era stato di nuovo calmo. Cosa che non era successa fino a quando Faile non aveva promesso di non ‘interferire’ nuovamente in nessuna elezione, apertamente o alle sue spalle. L’ultimo punto era stato ingiusto da parte sua. Per fortuna non gli era venuto in mente di parlare delle elezioni della Cerchia delle Donne. Be’, ciò che non sapeva sarebbe tornato a vantaggio suo e di Taren Ferry.

Pensare a Perrin le fece ricordare la promessa che si era fatta. Il ventaglio aumentò velocità. Oggi non era stato il giorno peggiore quanto alle richieste sciocche, e nemmeno con le Sapienti — non c’erano state domande su quando lord Perrin avrebbe potuto aspettarsi un erede, che la Luce fosse benedetta! — ma forse il caldo incessante l’aveva irritata più del solito. Perrin avrebbe assolto ai suoi doveri, oppure...

Il tuono rombò sopra la tenuta e un fulmine illuminò la finestra. La speranza crebbe in Faile. Se avesse piovuto...

Corse silenziosa alla ricerca di Perrin. Voleva condividere la pioggia con lui e aveva ancora intenzione di dirgli qualche parola. Più di qualche parola, se necessario.

Lui era dove si era aspettata di trovarlo, al terzo piano, sulla veranda coperta dal lato anteriore della casa, un uomo riccio con addosso una semplice giubba marrone, spalle ampie e braccia forti. Era affacciato e le rivolgeva le spalle, appoggiato a una colonna. Guardava il terreno da un lato della tenuta, non il cielo. Faile si fermò sulla soglia.

Il tuono risuonò di nuovo e il fulmine riempì il cielo. Un fulmine di calore in un cielo privo di nuvole. Non un messaggero di pioggia. Niente pioggia, per spezzare il calore. Niente neve. Il sudore le imperlava il viso, ma Faile rabbrividì.

«Sono finite le udienze?» chiese Perrin e lei sobbalzò. Non aveva sollevato il capo. A volte era difficile ricordare quanto fosse sensibile il suo udito. O forse l’aveva fiutata. Sperava che si trattasse del profumo e non del sudore.

«Credevo di trovarti con Gwil o Hal.» Quello era uno dei problemi maggiori. Faile cercava di addestrare gli inservienti, mentre per lui erano solo compagni con cui scherzare e bere un boccale di birra. Se non altro non aveva il vizio di guardare le donne, come facevano molti uomini. Perrin non si era mai accorto che Calle Coplin aveva preso servizio alla tenuta perché sperava di fare ben altro che sistemare il letto di lord Perrin. Non si era nemmeno accorto di quando Faile l’aveva cacciata a bastonate.

Dopo essersi avvicinata a lui, vide cosa stava osservando. Due uomini a torso nudo, che si addestravano con le spade di legno da esercitazione. Tarn al’Thor era robusto e aveva i capelli grigi. Aram era magro e giovane. Imparava rapidamente. Molto. Tarn era stato un soldato e un mastro spadaccino, ma Aram lo teneva sotto pressione.

Gli occhi di Faile si diressero automaticamente sulle tende raggruppate in un accampamento recintato da pietre a un chilometro dal Bosco Occidentale. Gli altri Calderai erano accampati fra carri mezzi costruiti, simili a piccole case su ruote. Adesso non accettavano più Aram come uno di loro, non da quando aveva preso la spada. I Tuatha’an non commettevano mai alcuna violenza, per nessun motivo. Si chiese se sarebbero andati via come pianificato, una volta rimpiazzati i vagoni bruciati dai Trolloc. E dopo aver riunito tutti quelli che si erano nascosti nel bosco, poco più di cento. Forse si sarebbero lasciati Aram alle spalle. I Tuatha’an non si trattenevano mai a lungo nello stesso posto.

La gente dei Fiumi Gemelli sosteneva che non cambiava mai nulla dalle loro parti, eppure molto era cambiato dopo l’avvento dei Trolloc. Emond’s Field, a soli cento passi dalla residenza, era più grande della prima volta che l’aveva vista. Le case incendiate erano state ricostruite e altre se ne erano aggiunte. Qualcuna era stata edificata con i mattoni, un’atra novità. Altre avevano il tetto di tegole. Alla velocità con cui venivano innalzate le nuove abitazioni, presto la tenuta sarebbe finita al centro del villaggio. Si parlava anche di mura di cinta, nel caso fossero tornati i Trolloc. Un cambiamento. Un pugno di ragazzini seguivano Loial lungo una delle strade del villaggio. Erano passati pochi mesi da quando la vista dell’Ogier, orecchie pelose e naso largo quasi quanto il viso, alto una volta e mezzo un uomo, aveva fatto rimanere tutti i bambini del villaggio a bocca aperta per la meraviglia e le madri terrorizzate nel tentativo di proteggerli. Adesso erano loro a mandarli da Loial perché raccontava favole ai piccoli. Gli stranieri con i loro indumenti dai tagli esotici, mischiati agli abitanti di Emond’s Field, spiccavano quasi quanto Loial, e nessuno li guardava due volte, né destavano più stupore tre Aiel del villaggio, strana gente alta che vestiva solo di marrone e grigio. Fino a poche settimane prima si erano trattenute anche due Aes Sedai e avevano ricevuto solo inchini e riverenze. Un altro cambiamento. Le due aste portabandiera del parco comune, non lontano dalla Fonte del Vino, erano visibili da sopra i tetti. Su una sventolava la bandiera con la testa rossa di lupo che era diventata il sigillo di Perrin, sull’altra l’aquila rossa in picchiata che rappresentava il Manetheren, una nazione scomparsa durante le Guerre Trolloc circa duemila anni prima; ma quel territorio ne aveva fatto parte, e i Fiumi Gemelli erano fieri di quella seconda bandiera. Cambiamenti, e gli abitanti del villaggio non avevano idea di quanto fossero stati grandi e inesorabili. Perrin li avrebbe guidati attraverso qualsiasi cosa ne fosse risultata. Con il suo aiuto, lo avrebbe fatto.

«Andavo a caccia di conigli con Gwil» spiegò Perrin. «Ha solo qualche anno più di me e a volte mi portava a caccia con sé.»

Faile ebbe bisogno di un istante per capire di cosa stesse parlando. «Gwil sta cercando di imparare a fare il valletto. Non lo aiuti quando lo inviti a fumare la pipa con te nelle stalle per discutere di cavalli.» Faile sospirò profondamente. Non sarebbe stato facile. «Hai dei doveri nei confronti di quelle persone, Perrin. Nonostante sia duro per te, anche se non vuoi, devi assolvere ai tuoi doveri.»

«Lo so» rispose lui sottovoce. «Posso sentirlo che mi tira per la giacca.»

La voce di Perrin era talmente strana che Faile si accostò per tirargli la barba e costringerlo a guardarla. Gli occhi color oro, ancora strani e misteriosi per lei come lo erano stati la prima volta, sembravano tristi. «Cosa vuoi dire? Forse sei affezionato a Gwil, ma lui...»

«Si tratta di Rand, Faile. Ha bisogno di me.»

Il nodo che lei aveva in gola, anche se cercava di negarlo, si strinse maggiormente. Si era convinta che quel pericolo fosse andato via con le Aes Sedai. Sciocca. Era sposata con un ta’veren, un uomo destinato a piegare le vite degli altri attorno a sé per modellare il Disegno a seconda dei bisogni; inoltre Perrin era cresciuto con altri due ta’veren, uno dei quali era il Drago Rinato in persona. Era una parte del marito che Faile doveva condividere con gli altri. Non le piaceva, ma era una realtà. «Cosa intendi fare?»

«Raggiungerlo.» Perrin distolse lo sguardo dopo un istante e gli occhi di Faile lo seguirono. Appoggiati alla parete c’erano un pesante martello da fabbro e un’ascia con una perfida lama a mezzaluna e il manico lungo mezzo passo. «Non riuscivo...» La voce di Perrin era quasi un sussurro. «Non riuscivo a trovare il modo di dirtelo. Andrò via stanotte, quando tutti dormono. Non credo sia rimasto molto tempo e potrebbe essere un viaggio lungo. Mastro al’Thor e mastro Cauthon ti aiuteranno con i sindaci, se ne avessi bisogno. Ho parlato con loro.» Cercò di rendere il tono di voce spensierato, ma fu uno sforzo pietoso. «Comunque non dovresti avere grossi problemi con le Sapienti. Buffo, quando ero piccolo le Sapienti parevano sempre temibili, ma se sei deciso, sono facili da controllare.»

Faile serrò le labbra. Quindi aveva parlato con Tarn al’Thor e Abell Cauthon, giusto? Ma non con lei. E le Sapienti! Le sarebbe piaciuto cedergli il suo posto per un giorno perché constatasse di persona quanto fosse facile avere a che fare con quelle donne. «Non possiamo andare via così presto. Ci vorrà del tempo per organizzare un seguito appropriato.»

Perrin socchiuse gli occhi. «Non possiamo? Ma tu non verrai! Sarebbe...» Tossì, proseguendo con un tono di voce più pacato. «Sarebbe meglio se uno di noi rimanesse qui. Se il lord va via, la lady dovrebbe prendersi cura degli affari. È sensato. Ogni giorno arrivano nuovi profughi. Tutte quelle discussioni da appianare. Se vai via anche tu, sarebbe peggio che avere di nuovo i Trolloc.»

Come poteva pensare che lei non avrebbe notato un sotterfugio tanto goffo? Stava per dirle che era pericoloso. Come facevano i suoi tentavi di tenerla lontano dal pericolo farle provare quella bella sensazione di calore e, al tempo stesso, farla infuriare? «Faremo ciò che ritieni sia la cosa migliore» rispose Faile docilmente, facendo insospettire Perrin, che si grattò la barba e alla fine annuì.

Adesso doveva solo fargli capire quale fosse davvero la cosa migliore. Se non altro non le aveva risposto subito che lei non poteva andare. Una volta che puntava i piedi, diventava più facile spostare un granaio a mani nude che lui, ma se fosse stata cauta avrebbe evitato il problema. Ci riusciva quasi sempre.

Faile gli gettò improvvisamente le braccia al collo affondando il viso nel suo ampio petto. Le mani forti di lui le carezzarono i capelli con delicatezza; probabilmente credeva che fosse preoccupata per la sua partenza. Be’, a modo suo lo era. Non voleva che andasse via senza di lei. Perrin non aveva ancora imparato cosa significasse avere una moglie della Saldea. Andavano così d’accordo lontano da Rand al’Thor. Perché adesso il Drago Rinato aveva bisogno di Perrin, con tale forza che lui poteva percepirlo nonostante tutti i chilometri che li separavano? Perché doveva muoversi così in fretta? Perché? Perrin aveva la camicia appiccicata addosso dal sudore e il caldo insolito lo faceva letteralmente grondare, ma Faile tremava.

Con una mano poggiata sull’elsa della spada, Gawyn Trakand stava giocando con una pietra, mentre ripeteva l’ispezione dei suoi uomini, controllando la loro posizione attorno alla collina sormontata dagli alberi. Il vento caldo portava la polvere sopra la distesa erbosa e faceva sventolare il semplice mantello verde che gli scendeva dietro le spalle. Nulla in vista, se non erba secca, gruppi sparsi di alberi e cespugli inariditi. Se si fosse scatenata una battaglia da quelle parti, avrebbe avuto troppi pochi uomini per difendere tutto. Li aveva riuniti in gruppi di cinque spadaccini, con gli arcieri a cinquanta passi sui pendii della collina. Altri cinquanta soldati attendevano con le lance e i cavalli vicino agli accampamenti in cima al rialzo, per intervenire in caso di necessità. Lui sperava che oggi non sarebbe servito.

All’inizio c’erano stati pochi Cuccioli, ma la loro reputazione aveva attirato nuove reclute. I nuovi arrivi sarebbero stati d’aiuto. A nessuno era permesso di lasciare Tar Valon prima della fine dell’addestramento. Gawyn non si aspettava una battaglia proprio in quel giorno, ma aveva imparato che giungevano sempre inaspettate. Solo le Aes Sedai attendevano fino all’ultimo minuto per informare un uomo su eventuali accadimenti, come era accaduto quel giorno.

«Tutto a posto?» chiese, fermandosi accanto a un gruppo di spadaccini. Anche se faceva caldo, alcuni indossavano i mantelli verdi, per mostrare il cinghiale bianco in piena carica ricamato sulla parte anteriore.

Jisao Hamora era il più giovane, con un sorriso puerile stampato in viso, ma era anche il solo dei cinque con la piccola torre d’argento appuntata al colletto, che ne faceva un veterano di battaglia della Torre Bianca. Rispose: «Tutto bene, mio signore.»

I Cuccioli meritavano quel nome. Gawyn, poco più che ventenne, era fra i più grandi. Per regola non accettavano nessuno che avesse prestato servizio in un altro esercito, che avesse difeso qualche signore o dama, o che avesse anche solo lavorato come guardia di un mercante. I primi Cuccioli si erano recati alla Torre quando erano ancora fanciulli per l’addestramento da Custodi, erano i migliori spadaccini, i migliori combattenti, e volevano mantenere parte di quella tradizione, anche se non erano più i Custodi ad addestrarli. Essere giovane non era un problema. Avevano svolto una piccola cerimonia sono una settimana addietro per i primi baffi che Benji Dalfor si fosse mai rasato, e il ragazzo aveva già una cicatrice sulla guancia guadagnata durante la battaglia nella Torre. Le Aes Sedai erano state troppo ‘impegnate per la guarigione, nei giorni successivi alla deposizione di Siuan Sanche dallo scanno dell’Amyrlin Seat. La donna sarebbe stata ancora Amyrlin se i Cuccioli non avessero affrontato e battuto così tanti dei loro ex maestri nelle sale della Torre.

«C’è qualche senso in tutto questo, mio signore?» chiese Hal Moir. Aveva due anni più di Jisao e, come molti che non avevano conseguito la torre d’argento, rimpiangeva di non essere stato presente in quell’occasione. Avrebbe imparato. «Non c’è traccia di Aiel.»

«Lo credi davvero?» Senza dare alcun segnale allarmante, Gawyn lanciò con forza il sasso contro l’unico cespuglio abbastanza vicino, una pianta in condizioni pietose. Il rumore delle foglie secche fu l’unico suono che ne provenne, ma il cespuglio si mosse un po’ più di quanto avrebbe dovuto, come se un uomo nascostosi dietro fosse stato colpito in un punto debole. I due nuovi arrivati tra i Cuccioli esclamarono per la sorpresa. Jisao allentò la spada. «Un Aiel, Hal, può nascondersi in una crepa del suolo nella quale tu nemmeno inciamperesti.» Gawyn non sapeva molto degli Aiel a parte quanto aveva studiato nei libri, ma aveva letto tutti quelli che aveva trovato nella biblioteca della Torre Bianca, scritti da uomini che avevano combattuto, da soldati che parevano sapere di cosa parlassero. Un uomo doveva prepararsi al futuro e, a quanto pareva, quello di Fawyn sarebbe stato la guerra. «Ma con l’aiuto della Luce, oggi non ci saranno combattimenti.»

«Mio signore!» Il grido provenne dalla cima della collina mentre anche Gawyn avvistava l’oggetto di tanta agitazione. Tre donne emerse da un gruppo sparuto di alberi, un centinaio di passi a ovest, che si dirigevano verso la collina ovest; una sorpresa. Ma agli Aiel piacevano le sorprese.

Gawyn aveva letto delle donne aiel che combattevano insieme agli uomini, ma quelle non avrebbero mai potuto farlo, con le loro gonne ingombranti e le bluse bianche. Avevano degli scialli sulle braccia malgrado il caldo, ma come avevano fatto a raggiungere quel gruppo di alberi senza essere viste? «Tenete gli occhi aperti e non su di loro» ordinò, disobbedendo a se stesso per guardare le tre Sapienti che camminavano. Emissarie degli Aiel Shaido e con degli interessi: non poteva essere altrimenti.

Camminavano con incedere maestoso e non pareva che si stessero avvicinando a un gruppo considerevole di uomini armati. Avevano i capelli lunghi fino alla vita — lui aveva letto che le Aiel li portavano corti — trattenuti indietro da fasce. Indossavano molti bracciali e collane d’oro, d’argento e avorio, e il solo luccichio avrebbe dovuto farle scoprire a un chilometro di distanza.

Schiene dritte e volti orgogliosi, le tre Aiel oltrepassarono gli spadaccini senza nemmeno guardarli e si incamminarono su per la collina. A capo del gruppo vi era una donna con i capelli biondo oro e la blusa slacciata a far intravedere un seno considerevole e abbronzato. Le altre due avevano i capelli grigi e i volti rugosi. La prima doveva avere la metà dei loro anni.

«Non mi dispiacerebbe invitarla a ballare» disse uno dei Cuccioli ammirato, mentre la donna lo oltrepassava. Aveva almeno dieci anni meno di lei.

«Non lo farei se fossi in te, Arwin» ripose asciutto Gawyn. «Potresti essere frainteso.» Aveva letto che gli Aiel chiamavano la battaglia ‘la danza’. «E poi si mangerebbe il tuo fegato per cena.» Aveva lanciato un’occhiata agli occhi verde chiaro della donna, e non ne aveva mai visti di più severi.

Guardò le Sapienti fino a quando raggiunsero la cima della collina, dove una mezza dozzina di Aes Sedai le attendevano con i Custodi. Quelle che ne avevano. Due appartenevano all’Ajah Rossa e le Rosse non volevano uomini. Quando le donne scomparvero in una delle alte tende bianche e i Custodi iniziarono a fare la guardia, Gawyn proseguì nel suo giro intorno alla collina.

I Cuccioli erano all’erta fin da quando si era sparsa la voce dell’arrivo degli Aiel, ma avrebbero dovuto esserlo da prima. Anche molti di quelli che non avevano la torre d’argento avevano assistito alla battaglia intorno a Tar Valon. Eamon Valda, il lord capitano, Comandante dei Manti Bianchi, aveva portato quasi tutti i suoi uomini a ovest da più di un mese e il gruppo che si era lasciato alle spalle cercava di tenere a bada i briganti e i rissosi che lo stesso Valda aveva riunito. Se non altro i Cuccioli erano riusciti a cacciarli via. Gawyn voleva credere che avessero allontanato anche Valda — la Torre aveva sicuramente tenuto i suoi soldati lontano dalla schermaglia, anche se la sola ragione per la presenza dei Manti Bianchi era provare ad attaccare la Torre — ma sospettava che Valda avesse i suoi motivi per essersene andato. Forse l’uomo era partito su ordine di Pedron Niall, e Gawyn avrebbe pagato oro per sapere dove si trovasse ora. Luce, quanto odiava non sapere. Era come camminare al buio.

Gawyn doveva ammettere di essere irritato. Non solo per gli Aiel, ma per non essere stato avvisato della riunione fino a quella mattina. Non gli era nemmeno stato detto dove si sarebbero recati, fino a quando non era stato preso da parte da Coiren Sedai, la Sorella Grigia che guidava le Aes Sedai. Elaida aveva sempre tenuto la bocca chiusa e un’espressione imperiosa quando era stata consigliera di sua madre a Caemlyn; da quando era stata eletta Amyrlin Seat, faceva sembrare la vecchia Elaida aperta e calorosa. Era stata senza dubbio lei a fare pressione per creare quella scorta, affinché lui si allontanasse da Tar Valon.

I Cuccioli erano rimasti dalla sua parte durante la battaglia — la vecchia Amyrlin era stata spogliata della stola e la staffa dal Consiglio, e il tentativo di liberarla era stato un’azione contro la legge — ma Gawyn aveva avuto dubbi sulle Aes Sedai in generale molto prima di avere sentito le accuse ufficiali contro Siuan Sanche. Aveva sentito dire che manovravano le persone e facevano ballare i troni tante volte che nessuno vi aveva mai prestato attenzione, ma adesso le vedeva farlo. Vedeva gli effetti delle loro macchinazioni: sua sorella Elayne era una delle vittime, lontano dalla sua vista, fuori dall’esistenza, per quanto ne sapesse. Lei e un’altra. Gawyn aveva combattuto per mantenere Siuan in prigione, quindi le aveva voltato le spalle per lasciarla fuggire. Se Elaida lo avesse scoperto, nemmeno la corona della madre lo avrebbe mantenuto in vita.

Eppure lui aveva scelto di rimanere, perché la madre aveva sempre sostenuto la Torre e perché sua sorella voleva essere Aes Sedai. E perché lo voleva un’altra donna, Egwene al’Vere. Non aveva il diritto di pensare a lei, ma lasciare la Torre sarebbe equivalso ad abbandonarla. A volte un uomo sceglieva il proprio destino per ragioni inconsistenti. Saperlo non cambiava i fatti.

Gawyn guardò la distesa d’erba secca spazzata dal vento e passò alla postazione seguente. Adesso era lì, sperando che gli Aiel non decidessero di attaccare nonostante — o forse a causa — l’argomento della discussione tra le Sapienti Shaido e Coiren e le altre, qualsiasi esso fosse. Sospettava che gli Aiel fossero abbastanza numerosi da prendere il sopravvento su di loro, malgrado la presenza delle Aes Sedai. Lui doveva dirigersi a Cairhien e non sapeva cosa pensare. Coiren gli aveva fatto giurare di mantenere segreta la missione, e pareva spaventata da ciò che stava dicendo. Be’, forse lo era davvero. Era sempre meglio esaminare attentamente quanto dicevano le Aes Sedai — non potevano mentire, ma potevano distorcere la verità — ma Gawyn non aveva visto motivi segreti nelle parole della donna. Le sei Aes Sedai avrebbero chiesto al Drago Rinato di tornare con loro alla Torre, e i Cuccioli, comandati dal figlio della regina di Andor, sarebbero stati la sua scorta d’onore. Poteva esserci solo una ragione per quello, una che aveva talmente colpito Coiren da permetterle appena di suggerirla. Stupiva anche Gawyn. Elaida voleva annunciare al mondo che la Torre Bianca appoggiava il Drago Rinato.

Era quasi incredibile. Elaida era stata Rossa prima di diventare Amyrlin. Le Rosse odiavano ogni uomo che potesse incanalare. Non avevano una grande opinione neppure degli uomini in generale. La caduta della Pietra di Tear aveva fatto avverare le Profezie confermando che Rand al’Thor era il Drago Rinato, e anche Elaida sosteneva che l’Ultima Battaglia fosse imminente. Gawyn non riusciva a conciliare il contadino spaventato che era letteralmente caduto nel giardino del palazzo reale a Caemlyn con il personaggio delle storie che dal fiume Erinin si erano riversate a Tar Valon. Si diceva che avesse fatto impiccare dei sommi signori Tarenesi e lasciato gli Aiel nella Pietra. Sicuramente aveva guidato gli Aiel oltre la Dorsale del Mondo, la seconda volta dopo la Frattura, per saccheggiare Cairhien. Forse era impazzito. A Gawyn era piaciuto Rand al’Thor; rimpiangeva che fosse diventato ciò che era.

Quando fece ritorno al gruppo di Jisao, c’era qualcun altro in vista a ovest. Un ambulante con un cappello floscio che guidava un mulo da soma. Si stava dirigendo proprio verso la collina; li aveva visti.

Jisao si mosse, quindi si immobilizzò quando Gawyn gli toccò un braccio. Sapeva cosa stesse pensando il giovane, ma se gli Aiel avessero deciso di uccidere l’ambulante, non ci sarebbe stato nulla che loro potessero fare. Coiren non sarebbe stata contenta se avessero iniziato una battaglia contro le persone con le quali stava negoziando.

L’ambulante procedeva con fare incerto e stava passando proprio vicino al cespuglio che Gawyn aveva disturbato con il sasso. Mentre il mulo cercava di brucare l’erba marrone l’uomo si tolse il cappello, fece un inchino e iniziò a tamponarsi il viso con un fazzoletto lercio. «Che la Luce risplenda su di voi, miei signori. Siete ben preparati per viaggiare di questi tempi, è evidente, ma se avete bisogno di qualcosa probabilmente il vecchio Mil Tesen ce l’ha. Non troverete prezzi migliori per dieci chilometri, miei signori.»

Gawyn dubitava che ci fosse anche solo una fattoria in dieci chilometri. «Tempi pericolosi, mastro Tesen. Non hai paura degli Aiel?»

«Aiel, mio signore? Sono tutti a Cairhien. Il vecchio Mil può fiutare gli Aiel, dico sul serio. Vorrei che ce ne fossero. Con loro si commercia bene. Hanno molto oro. Da Cairhien. E non disturbano gli ambulanti. Tutti lo sanno.»

Gawyn si astenne dal chiedere come mai, se commerciare con gli Aiel a Cairhien era un tale buon affare, l’uomo non si stesse dirigendo a sud. «Che notizie ci porti, mastro Tesen? Noi le riceviamo solo da nord, e forse potresti sapere cosa impedisce che ce ne giungano da sud.»

«Grandi avvenimenti a sud, mio signore. Hai sentito parlare di Cairhien? Di quello che si fa chiamare il Drago?» Gawyn annuì e l’uomo andò avanti. «Be’, adesso ha preso Andor. La maggior parte. La regina è morta. Un giorno conquisterà tutto il mondo prima che...» L’uomo si interruppe con un gridolino prima che Gawyn si accorgesse di averlo afferrato per il bavero.

«La regina Morgase morta? Parla! Subito!»

Tesen roteò gli occhi alla ricerca di aiuto, ma parlò, e rapidamente. «È quello che si dice, mio signore. Il vecchio Mil non lo sa per certo, ma ne è quasi convinto. Tutti lo dicono, mio signore. Tutti dicono che sia stato il Drago. Mio signore? Il collo del vecchio Mil, mio signore! Mio signore!»

Gawyn rilasciò la presa di scatto, come se l’uomo bruciasse. Si sentiva incendiare. Era un altro il collo che avrebbe voluto avere fra le mani. «L’erede al trono.» La voce pareva distante. «Qualcuno sa dove si trova l’erede al trono, Elayne?»

Una volta libero, Tesen fece diversi passi indietro. «Il vecchio Mil non lo sa, mio signore. Alcuni dicono che sia morta anche lei. Altri raccontano che l’abbia uccisa il Drago, ma il vecchio Mil non lo sa.»

Gawyn annuì lentamente. I pensieri parevano provenire dal profondo di un pozzo. Il mio sangue versato prima del suo, la mia vita sacrificata prima della sua, rammentò. «Grazie, mastro Tesen. Io...» Il mio sangue versato prima del suo... era il giuramento che aveva prestato quando poteva appena guardare nella culla di Elayne. «Puoi commerciare con... alcuni dei miei uomini hanno bisogno di...» Gareth Bryne aveva dovuto spiegargli il significato di quelle parole per quanto era piccolo, ma anche allora aveva capito che avrebbe dovuto mantenere il giuramento anche se avesse fallito in ogni altra cosa in vita sua. Jisao e gli altri lo guardavano preoccupati. «Prendetevi cura dell’ambulante» disse duro a Jisao, voltandosi per andare via.

Sua madre era morta. Ed Elayne. Solo delle voci, ma le voci sulle labbra di tutti a volte si rivelano vere. Risalì il fianco della collina per una dozzina di passi verso l’accampamento delle Aes Sedai prima di rendersene conto. Le mani gli facevano male. Dovette guardare per accorgersi che stava stringendo l’elsa della spada e dovette sforzarsi per allentare la presa. Coiren e le altre volevano portare Rand al’Thor a Tar Valon, ma se sua madre era morta... Elayne. Se erano veramente morte voleva proprio vedere come avrebbe fatto il Drago Rinato a vivere con una spada conficcata nel cuore!

Katerine Alruddin, assieme alle altre donne nella tenda, si alzò dai cuscini aggiustandosi lo scialle dalle frange rosse. Tirò quasi su con il naso quando Coiren, paffuta e pomposa, intonò: «Come abbiamo concordato, così sarà fatto.» Era una riunione con delle selvagge, non la conclusione di un patto fra la Torre e un governante.

Le donne aiel non reagirono in alcun modo, nessun cambiamento di espressione rispetto a quando erano arrivate. Quella fu una sorpresa; re e regine tradivano i loro sentimenti più profondi quando erano a confronto con due o tre Aes Sedai, ancor più se fossero state sei; delle selvagge ignoranti avrebbero dovuto tremare da capo a piedi. Forse neanche quello sarebbe stato difficile da fare. Il loro capo — si chiamava Sevanna, il nome era seguito da qualche idiozia che includeva le parole ‘setta’, ‘Aiel Shaido’ e ‘Sapiente’ — rispose: «È concordato solo se riuscirò a vederlo in faccia.» Aveva un’espressione severa e la blusa sbottonata per attirare l’attenzione degli uomini; che gli Aiel avessero scelto una come lei per guidarli mostrava quanto fossero rozzi. «Voglio vederlo e voglio che lui mi veda, quando verrà sconfitto. Solo a queste condizione la vostra Torre sarà alleata con gli Shaido.»

La punta d’impazienza nella voce dell’Aiel indusse Katerine a reprimere un sorriso. Sapiente? Quella Sevanna era davvero una sciocca. La Torre Bianca non aveva alleati; c’erano quelli che cooperavano volontariamente e quelli che venivano indotti a farlo, e basta.

Una leggera tensione agli angoli della bocca di Coiren tradì una certa irritazione. La Grigia era una buona negoziatrice, ma le piaceva che le cose venissero fatte a modo suo, con ogni passo che cadeva esattamente dove lei aveva progettato che dovesse cadere. «Senza dubbio i vostri servizi meritano quanto chiedi.»

Una delle Aiel dai capelli grigi — Tarva o qualcosa di simile — socchiuse gli occhi, ma Sevanna annuì, una volta sentito ciò che voleva da Coiren.

Questa accompagnò le donne aiel fino ai piedi della collina assieme a Erian e Nesune, una Verde e una Marrone, più i cinque Custodi di cui le due disponevano in tutto. Katerine rimase ai margini del boschetto a guardare. All’arrivo avevano lasciato che le Aiel salissero da sole, come delle supplicanti, ma adesso veniva reso loro ogni onore, affinché credessero davvero di essere amiche e alleate. Katerine si chiese se fossero abbastanza civilizzate da riconoscere certi sotterfugi.

Gawyn si trovava in fondo alla collina seduto su una roccia, e fissava la distesa erbosa. Cosa avrebbe fatto quel giovane uomo se avesse scoperto che lui e i suoi ragazzi le avrebbero accompagnate solo per essere allontanati da Tar Valon? Né Elaida né il Consiglio gradivano avere intorno un branco di lupacchiotti che rifiutavano di farsi mettere il guinzaglio. Forse gli Shaido potevano essere spinti a risolvere il problema. Elaida lo aveva lasciato intendere. In quel modo la morte di Gawyn non sarebbe andata contro la Torre, con la madre di lui.

«Se lo fissi ancora un po’ a quel modo, Katerine, comincerò a pensare che avresti dovuto essere una Verde.»

Katerine provò un lampo di rabbia ma chinò rispettosamente il capo. «Stavo solo ragionando su alcuni argomenti, Galina Sedai.»

Quello era il minimo del rispetto da osservare in un luogo pubblico, forse anche qualcosa di più. Galina Casban pareva più giovane di Katerine, ma aveva almeno il doppio della sua età. Per diciotto anni la donna dal viso rotondo era stata a capo dell’Ajah Rossa. Un fatto non noto al di fuori dell’Ajah stessa; certe cose riguardavano solo il gruppo d’appartenenza. Era anche una delle Adunanti e rappresentava l’Ajah Rossa nel Consiglio della Torre; Katerine sospettava che lo fossero anche molte delle donne a capo delle altre Ajah. Elaida avrebbe voluto nominare lei come capo di quella spedizione invece della boriosa Coiren, ma Galina stessa aveva fatto presente che una Rossa avrebbe potuto insospettire Rand al’Thor. L’Amyrlin Seat in teoria rappresentava tutte le Ajah come nessuna, e rinunciava alle vecchie affiliazioni. Elaida non rispettava nessuno — indiscutibilmente vero — tranne Galina. «Verrà spontaneamente come crede Coiren?» chiese Katerine.

«Forse» fu la risposta asciutta di Galina. «L’onore che quella delegazione gli rende dovrebbe essere sufficiente per indurre un re a portarsi il trono sulla schiena fino a Tar Valon.»

Katerine non si prese il disturbo di annuire. «Quella Sevanna lo ucciderà se ne avrà la possibilità.»

«Allora non deve esserle offerta.» La voce di Galina era fredda e le sue labbra carnose, tese. «L’Amyrlin Seat non sarà compiaciuta nel vedere i suoi piani rovinati, e tu e io prima di morire dovremo trascorrere molti giorni gridando al buio.»

Katerine fu scossa dai brividi e di riflesso sollevò lo scialle sulle spalle. Nell’aria c’era polvere: avrebbe preso il mantello leggero. Non sarebbe stata la furia di Elaida a ucciderle, anche se la donna poteva essere terribile. Katerine era stata Aes Sedai per diciassette anni, ma solo la mattina prima della partenza da Tar Valon aveva scoperto di condividere ben più dell’Ajah Rossa con Galina. Lei apparteneva da dodici anni all’Ajah Nera, senza mai sapere che anche Galina ne era membro e da molto prima. Le Sorelle Nere mantenevano per necessità le loro identità segrete, anche fra loro. Le rare riunioni erano tenute a viso coperto e con le voci camuffate. Prima di Galina, Katerine ne aveva conosciute solo altre due. Gli ordini le venivano lasciati sul cuscino o in una tasca del mantello, l’inchiostro era pronto a svanire se qualsiasi altra mano tranne la sua avesse toccato la carta. Lei aveva un luogo segreto dove lasciare i messaggi e l’ordine preciso di non provare a scoprire chi andava a raccoglierli. Non aveva mai disobbedito. Avrebbero potuto esserci delle Sorelle Nere fra le Aes Sedai che le avrebbero seguite a un giorno di distanza, ma non lo sapeva.

«Perché?» chiese. Gli ordini di proteggere il Drago Rinato erano insensati, anche se lo avessero consegnato a Elaida.

«Le domande sono pericolose, per una che ha giurato di obbedire senza domandare.»

Katerine rabbrividì una seconda volta e si trattenne appena dal fare la riverenza. «Sì, Galina Sedai.» Ma non poteva fare a meno di chiedersi perché.

«Non mostrano alcun rispetto né onore» gridò Therava. «Ci hanno fatte entrare nel loro accampamento come se fossimo cani sdentati e poi ci hanno accompagnate fuori con la scorta, come se fossimo ladre sospette.»

Sevanna non si guardò intorno. Non lo avrebbe fatto fino a quando non si fosse trovata al sicuro fra gli alberi. Le Aes Sedai probabilmente le stavano osservando alla ricerca di tracce di nervosismo. «Hanno acconsentito, Therava» rispose. «Per ora è abbastanza.» Per ora. Un giorno quelle terre sarebbero state a disposizione degli Shaido, per essere saccheggiate. Inclusa la Torre Bianca.

«Niente di tutto ciò è stato progettato accuratamente» intervenne la terza donna, con voce tesa. «Le Sapienti evitano le Aes Sedai, è sempre stato così. Forse per te le cose sono andate bene, Sevanna — come vedova di Couladin e di Suladric sei portavoce del clan fino a quando non invieremo qualcun altro nel Rhuidean — ma il resto di noi non dovrebbe prendere parte ai tuoi piani.»

Sevanna si costrinse a continuare nella marcia. Desaine non aveva voluto che lei divenisse una Sapiente, sostenendo che non aveva seguito l’apprendistato e nemmeno visitato il Rhuidean, e spiegando che la sua pretesa di assumere la posizione di capoclan la squalificava. Inoltre, come vedova di non uno, ma due capi defunti, era probabile portasse anche sfortuna. Almeno, la maggior parte delle Sapienti Shaido avevano ascoltato Sevanna e non Desaine. Era stata una disgrazia che Desaine avesse troppe seguaci per cavarsela senza correre rischi. Le Sapienti in teoria non venivano attaccate — facevano avanti e indietro fra gli Shaido dei clan traditori, a Cairhien — ma Sevanna voleva trovare un sistema.

Therava iniziò a mormorare, parlando quasi da sola, come se i dubbi di Desaine l’avessero infettata. «Quello che mi sembra malfatto è andare contro le Aes Sedai. Le servivamo prima della Frattura e le abbiamo deluse; è il motivo per cui fummo mandati nella terra delle Tre Piegature. Verremo distrutte se le deludiamo nuovamente.»

Quello era quanto tutti gli Aiel credevano; faceva parte delle vecchie favole, quasi una tradizione. Sevanna non ne era sicura. Ai suoi occhi le Aes Sedai apparivano deboli e sciocche, disposte a viaggiare con poche centinaia di uomini come scorta attraverso terre dove i veri Aiel, gli Shaido, potevano attaccarle con migliaia di armati. «È giunto un nuovo giorno» rispose acida, ripetendo parte di uno dei discorsi delle Sapienti. «Non siamo più legati alla terra delle Tre Piegature. Chiunque riesce a vedere che i tempi sono cambiati. Dobbiamo cambiare anche noi, o saremo sterminati e spariremo come se non fossimo mai esistiti.» Chiaramente non aveva mai spiegato quanto profondo doveva essere a suo parere il cambiamento. Le Sapienti Shaido non avrebbero mai mandato un uomo nel Rhuidean se Sevanna fosse riuscita a fare a modo suo.

«Nuovo o vecchio giorno,» grugnì Desaine «cosa dobbiamo fare con Rand al’Thor se riusciamo a sottrarlo alle Aes Sedai? Sarebbe meglio, o più facile, infilargli un pugnale fra le costole mentre lo scortano a nord.»

Sevanna non rispose. Non sapeva cosa dire. Non ancora. Ma era certa che, con il cosiddetto Car’a’carn, il capo dei capi di tutti gli Aiel, incatenato davanti alla sua tenda come un cane rognoso, quella terra sarebbe davvero appartenuta agli Shaido. E a lei. Lo aveva saputo ancor prima che lo strano abitante delle terre bagnate la trovasse fra le montagne che chiamavano il pugnale del Kinslayer. Le aveva consegnato un cubo di una strana pietra dura decorato con intagli intricati e le aveva detto cosa farne, una volta che avesse avuto al’Thor fra le mani, con l’aiuto dalle Sapienti che potevano incanalare. Lo custodiva tutto il tempo nel sacchetto appeso alla cintura. Non aveva deciso se servirsene o meno, ma sino a ora non aveva raccontato a nessuno dell’uomo o del cubo. Camminò a testa alta sotto quel sole cocente nel cielo autunnale.

Se ci fossero stati degli alberi, i giardini del palazzo avrebbero potuto avere una parvenza di freschezza, ma le piante più alte erano potate in fogge innaturali di cavalli, orsi che facevano capriole o altre trovate simili. I giardinieri senza camicia correvano cercando di salvare le loro creazioni con secchiate d’acqua sotto il rovente sole pomeridiano. Con i fiori si erano arresi, e li avevano rimpiazzati tutti con erba che adesso stava seccandosi allo stesso modo.

«Questo caldo è un vero peccato» disse Ailron. Estrasse il fazzoletto ricamato da una manica bordata di merletto della sua giubba di seta gialla e si tamponò delicatamente il viso, quindi lo buttò via. Un inserviente con la livrea color giallo oro lo raccolse dal vialetto di ghiaia e scomparve nuovamente. Un altro uomo in livrea ne pose uno pulito fra le mani del re, per consentirgli di riporlo nella manica. Ailron non fece cenno di aver notato il gesto. «Quei tipi di solito riescono a mantenere tutte le piante in vita fino a primavera, ma potrei perderne qualcuna quest’inverno. Anche se a quanto pare non ne avremo uno. Sarebbe meglio il freddo della siccità. Non credi che siano molto belle, mia cara?»

Ailron, Unto dalla Luce, re Difensore di Amadicia, Guardiano dei cancelli meridionali, non era attraente come le voci raccontavano, ma Morgase aveva sospettato fin dal primo incontro, anni addietro, che fosse lui stesso la fonte di quelle dicerie. I capelli erano folti e ondulati — e definitivamente in ritirata sulle tempie. Il naso un po’ troppo lungo, le orecchie un po’ troppo grandi. L’intero viso suggeriva una certa morbidezza. Un giorno gliel’avrebbero chiesto. Cosa custodivano i cancelli meridionali?

Mentre agitava il ventaglio d’avorio la donna guardò uno dei giardinieri che... creava. Pareva si trattasse di tre donne nude enormi che lottavano contro dei serpenti giganti. «Sono decisamente eccezionali» rispose. A volte si era costretti a dire quel che si doveva, se si voleva ottenere qualcosa.

«Sì, sì, lo sono davvero, sì? Ah, sembra che gli affari di stato mi reclamino. Temo si tratti di questioni urgenti.» Una dozzina di uomini, con le giubbe colorate come i fiori che non erano più lì, erano apparsi sulla corta scala di marmo dall’altro lato della passeggiata, e attendevano davanti ad alcune colonne scanalate che non sostenevano nulla. «A stasera, mia cara. Parleremo ancora dei tuoi terribili problemi e di quanto possiamo fare a riguardo.»

Si chinò sulla mano della donna fermandosi poco prima di baciarla, e lei ricambiò con una piccola riverenza, mormorando frasi di circostanza; quindi il re andò via, seguito da tutti gli inservienti che lo accompagnavano ovunque, tranne uno.

Lontana dal re, Morgase agitò il ventaglio con maggior energia di quanto avesse fatto in sua presenza — l’uomo faceva finta che l’aria calda non lo disturbasse, lasciando che il sudore gli colasse sul viso — e si diresse verso i suoi appartamenti. Suoi per tacito consenso, come l’abito azzurro chiaro che aveva addosso, ricevuto in dono. Aveva insistito nel volere il collo alto malgrado il caldo; aveva delle idee precise sulle scollature.

Il servitore solitario la seguì a breve distanza insieme a Tallanvor, ovviamente, sempre alle sue calcagna, che insisteva nell’indossare la giubba verde con la quale aveva viaggiato e portava la spada al fianco come se si aspettasse un attacco nel palazzo di Seranda, a nemmeno due chilometri da Amador. Morgase cercò di ignorare l’alto giovane, ma, come sempre, lui non glielo permise.

«Avremmo dovuto recarci nel Ghealdan, Morgase. A Jehannah.»

Morgase aveva trascurato alcuni dettagli per troppo tempo. La gonna frusciò mentre si voltava di scatto verso di lui e gli occhi avvamparono. «Durante il viaggio certe discrezioni erano necessarie, ma quelle persone sanno chi sono. Anche tu lo terrai a mente e mostrerai il debito rispetto per la tua regina. In ginocchio!»

Con sommo stupore di Morgase, Tallanvor non si mosse. «Sei la mia regina, Morgase?» Se non altro abbassò la voce, per non permettere al cameriere di sentire e raccontare l’accaduto agli altri, ma quegli occhi... Morgase riuscì appena a resistere al desiderio. E alla rabbia. «Non ti abbandonerò adesso, Morgase, ma tu hai rinunciato a molto quando hai lasciato Andor e Gaebril. Se ritroverai di nuovo quanto hai perso mi inginocchierò ai tuoi piedi, e se vorrai potrai farmi decapitare, ma sino ad allora... Avremmo dovuto andare nel Ghealdan.»

Quel giovane sciocco sarebbe morto combattendo contro l’usurpatore perfino dopo che Morgase avesse scoperto che nessuna casata di Andor l’avrebbe supportata e, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, da quando aveva deciso che la sola scelta che aveva era cercare aiuto fra gli stranieri, era diventato sempre più insolente e insubordinato. Lei avrebbe potuto chiedere la testa di Tallanvor ad Ailron e riceverla senza alcuna obiezione. Ma anche se non venivano espresse, non vuol dire che certe cose non venissero pensate. Morgase stava implorando sul serio e non poteva permettersi di chiedere un favore a meno che non fosse davvero necessario. E poi, senza Tallanvor non si sarebbe trovata lì. Sarebbe stata una prigioniera — o peggio — di lord Gaebril. Quelle erano le sole ragioni per cui Tallanvor avrebbe mantenuto la testa sul collo.

Il suo piccolo esercito faceva la guardia alle porte ornate dei suoi appartamenti. Basel Gill era un uomo dalle guance rubizze e i capelli grigi acconciati con un riporto per tentare di nascondere invano una discreta calvizie. Aveva addosso un giustacuore di cuoio, coperto da dischi di metallo e teso sul punto vita, e portava una spada che non aveva toccato in vent’anni prima di riprenderla per lei. Lamgwin era grosso e massiccio, ma gli occhi con le palpebre pesanti lo facevano sembrare mezzo addormentato. Anche lui aveva una spada, ma le cicatrici sul viso e il naso rotto più di una volta rendevano chiaro come fosse più abituato a usare pugni e manganelli. Un locandiere e un uomo di strada; a parte Tallanvor, quello era l’esercito che aveva radunato fino a quel momento per riconquistare Andor e il trono sottrattole da Gaebril.

I due fecero degli inchini impacciati, ma lei li oltrepassò sbattendo loro la porta in faccia. «Il mondo» annunciò gridando «sarebbe un posto molto migliore senza uomini.»

«Sicuramente più vuoto» aggiunse la vecchia nutrice di Morgase seduta accanto alla finestra dell’anticamera protetta da drappi di velluto. La testa era china sopra il telaio da ricamo e la crocchia grigia ondeggiava in aria. Sottile come una canna, Lini non era affatto fragile come appariva. «Immagino che Ailron oggi non fosse disponibile. O si tratta di Tallanvor, bambina? Devi imparare a non permettere agli uomini di farti innervosire. Il nervosismo ti copre le guance di macchie.» Lini si rifiutava di ammettere che Morgase era uscita dal giardino d’infanzia, benché lei avesse fatto da balia anche alla figlia della regina.

«Ailron è stato delizioso» rispose Morgase con cautela. La terza donna presente nella stanza, in ginocchio mentre prendeva delle lenzuola, tirò su con il naso e Morgase evitò con grande sforzo di guardarla furiosa. Breane era la... compagna di Lamgwin. La bassa donna abbronzata lo seguiva ovunque andasse, ma era originaria di Cairhien e Morgase non era la sua regina, come aveva chiarito in diverse circostanze. «Un altro giorno o due» continuò Morgase «e credo che otterrò un impegno da parte sua. Oggi alla fine ha concordato che ho bisogno di soldati per riprendere Caemlyn. Una volta cacciato via Gaebril, i nobili ritorneranno da me.» Sperava che lo avrebbero fatto; adesso si trovava in Amadicia perché si era lasciata accecare da Gaebril: aveva maltrattato anche la più vecchia e cara amica che apparteneva a una delle casate ai suoi ordini.

«Un cavallo lento non sempre raggiunge la fine del viaggio» rispose Lini, sempre impegnata con il ricamo. Le piacevano molto i proverbi, e Morgase sospettava che alcuni se l’inventasse sul momento.

«Questo ce la farà» insisté. Tallanvor aveva torto sul Ghealdan; secondo Ailron la nazione era quasi in preda alla totale anarchia per via di quel Profeta di cui tutti i servitori parlavano, il tizio che predicava la rinascita del Drago. «Gradirei bere qualcosa, Breane.» La donna la guardò fino a quando lei aggiunse: «Per favore.» Anche allora obbedì con una certa riluttanza.

La mistura di vino e succo di frutta era fredda e tonificante con tutto quel caldo; il calice d’argento rilasciò una sensazione piacevole sulla fronte di Morgase. Ailron aveva fatto trasportare neve e ghiaccio dalle montagne della Nebbia, benché fossero serviti molti carri per portarne abbastanza per tutto il palazzo.

Anche Lini ne prese un calice. «Per quanto riguarda Tallanvor...» iniziò a dire dopo un sorso.

«Lascia perdere, Lini!» scattò Morgase.

«È più giovane di te» intervenne Breane. Si era versata una coppa di bevanda anche per sé. La donna era davvero sfacciata! Doveva impersonare la sua serva, qualsiasi cosa fosse successa a Cairhien. «Se lo vuoi, prendilo. Lamgwin dice che ti ha giurato fedeltà, e ho notato come ti guarda.» Rise rauca. «Non rifiuterà.»

Le Cairhienesi erano disgustose, ma almeno la maggior parte di loro teneva nascoste certe abitudini dissolute con una parvenza di pudore.

Morgase stava per ordinare a Breane di lasciare la stanza quando qualcuno bussò. Senza attendere alcun permesso, entrò un uomo che aveva i capelli bianchi e pareva tutto incurvato e ossuto. Il mantello candido come la neve era adornato con un sole d’oro raggiato ricamato sul petto. Morgase aveva sperato di evitare i Manti Bianchi fino a quando lei e Ailron avessero raggiunto un accordo. La frescura del vino le penetrò d’improvviso nelle ossa. Dove si erano cacciati Tallanvor e gli altri per aver consentito a quest’uomo di entrare nelle sue stanze in maniera tanto spudorata?

Gli occhi scuri puntarono direttamente la regina, e l’uomo fece un inchino appena accennato. Aveva il volto segnato e la pelle tesa, ma era debole quanto poteva esserlo un martello. «Morgase di Andor?» chiese con voce ferma e profonda. «Mi chiamo Pedron Niall.» Non uno dei Manti Bianchi; il lord capitano Comandante dei Figli della Luce in persona. «Non temere, non sono venuto per arrestarti.»

Morgase restò dritta. «Arrestarmi? Con quale accusa? Non posso incanalare.» Non appena le parole le lasciarono la bocca, si morse quasi la lingua per l’esasperazione. Quel mettersi subito sulla difensiva era un’indicazione di quanto fosse agitata. Era vero quanto aveva detto, per quanto la riguardava. Aveva tentato cinquanta volte di percepire la Fonte riuscendoci in una sola occasione, seguita da venti tentativi di aprirsi a saidar per coglierne una sola goccia. Una Sorella Marrone di nome Verin le aveva detto che la Torre non avrebbe avuto bisogno di trattenerla se avesse imparato a gestire la sua piccola capacità di incanalare, ma dovette restarci comunque. Eppure, anche quella minima abilità era fuori legge in Amadicia, pena la morte. Il Gran Serpente, l’anello che Morgase portava al dito e che tanto aveva affascinato Ailron, adesso pareva incandescente.

«Addestrata alla Torre» mormorò Niall. «Anche questo è vietato. Ma, come ho detto, non sono qui per arrestarti, bensì per aiutarti. Manda via le tue donne e parleremo.» L’uomo si mise a suo agio su una comoda poltrona appoggiando il mantello sullo schienale. «Vorrei qualcosa da bere prima che vadano via.» Con dispiacere di Morgase, Breane scattò porgendogli immediatamente un calice, con gli occhi bassi e il volto inespressivo come una tavola.

La regina fece lo sforzo di riprendere il controllo. «Rimarranno, mastro Niall.» Non avrebbe dato a quell’uomo la soddisfazione di un titolo. La cosa non sembrò turbarlo. «Cosa è successo ai miei uomini di fuori? Ti considererò responsabile se è stato fatto loro del male. E perché credi che abbia bisogno del tuo aiuto?»

«I tuoi uomini sono incolumi» rispose lui distratto mentre beveva. «Credi che Ailron ti darà ciò che chiedi? Sei una donna molto bella, Morgase, e Ailron apprezza le belle donne con i capelli color oro. Si avvicinerà un po’ di più ogni giorno a quest’accordo che vai cercando senza mai raggiungerlo, fino a quando deciderai che forse, con... un certo tipo di sacrificio, potresti aver successo. Ma non ti darà quello che vuoi, qualunque cosa gli concederai. La teppaglia di quel cosiddetto Profeta sta saccheggiando il nord dell’Amadicia. A occidente abbiamo Tarabon devastata dalla guerra civile, briganti che hanno giurato fedeltà al così detto Drago Rinato, voci sulle Aes Sedai e il falso Drago in persona che terrorizzano Ailron. Concederti dei soldati? Se potesse trovare dieci uomini per ciascuno di quelli ora al suo servizio sarebbe pronto a vendersi l’anima. Ma io posso inviare cinquemila Figli della Luce a Caemlyn con te alla loro guida, se vuoi.»

Dire che era stupita avrebbe significato sminuire la reazione di Morgase. Con il dovuto contegno, si avviò verso la sedia dall’altro lato della camera e si sedette prima che le gambe le cedessero.

«Perché vuoi aiutarmi a spodestare Gaebril?» chiese. Ovviamente l’uomo sapeva tutto; senza dubbio aveva spie fra i servitori di Ailron. «Non ho mai concesso ai Manti Bianchi la libertà che volevano, in Andor.»

Stavolta fu l’uomo a fare una smorfia. Manti Bianchi non era un appellativo gradito. «Gaebril? Il tuo amante è morto, Morgase. Il falso Drago, Rand al’Thor, ha aggiunto Caemlyn alle sue conquiste.» Lini emise un verso sommesso come se si fosse punta, ma l’uomo mantenne gli occhi puntati sulla regina.

Dal canto suo, Morgase dovette afferrare il bracciolo della sedia per evitare di premersi una mano contro lo stomaco. Se l’altra mano con il calice non fosse stata appoggiata al bracciolo, avrebbe versato tutto in terra. Gaebril morto? L’aveva ingannata, l’aveva trasformata nella sua sgualdrina privata, usurpato la sua autorità, aveva oppresso il popolo in suo nome e alla fine si era nominato re di Andor, che non aveva mai avuto un re. Dopo tutto ciò, com’era possibile che lei provasse quella vaga sensazione di rimpianto nel sapere che non avrebbe mai più sentito il tocco delle sue mani? Era follia. Se non avesse saputo che era impossibile, avrebbe creduto che l’uomo in qualche modo aveva usato l’Unico Potere su di lei.

Adesso al’Thor aveva preso Caemlyn? In tal caso, sarebbe potuto cambiare tutto. Lo aveva incontrato una volta, un ragazzo di campagna spaventato che proveniva da occidente, e che aveva tentato di fare del suo meglio per mostrare rispetto alla sua regina. Un giovane con la spada marchiata con gli aironi dei maestri spadaccini. Ed Elaida era stata sospettosa con lui. «Perché lo chiami falso Drago, Niall?» Se voleva chiamarla per nome, allora poteva a sua volta fare a meno anche dell’appellativo comune di ‘mastro’. «La Pietra di Tear è caduta, com’era riportato nelle Profezie del Drago. I sommi signori di Tear in persona lo hanno acclamato Drago Rinato.»

Il sorriso di Niall era ironico. «È apparso ovunque fossero presenti le Aes Sedai. Incanalano per lui, credimi. Non è altro che una marionetta della Torre. Ho amici in molti posti,» intendeva spie «e mi riferiscono che ci sono prove che la Torre ha incastrato Logain, l’ultimo falso Drago. Forse ha superato i propri limiti, quindi hanno chiuso con lui.»

«Non c’è prova.» Fu contenta di avere la voce ferma. Aveva sentito delle voci su Logain durante il viaggio verso Amador. Ma erano solo voci.

L’uomo si strinse nelle spalle. «Credi quello che vuoi, ma io preferisco la verità a delle sciocche fantasie. Sarebbe tutta opera del vero Drago Rinato? I sommi signori lo hanno proclamato, dici? Quanti ne ha impiccati prima che il resto si inchinasse? Ha lasciato degli Aiel a saccheggiare la Pietra e tutta Cairhien. Dice che Cairhien avrà un nuovo governante, di sua nomina, ma il solo vero potere al momento è suo. Dice che anche a Caemlyn ci sarà un nuovo governante. Tu sei morta; lo sapevi? Credo che la pretendente più accreditata sia lady Dyelin. Al’Thor si è seduto sul trono del Leone durante le udienze, ma suppongo che fosse troppo piccolo, essendo stato costruito per le donne. Lo ha messo da parte come trofeo di conquista e lo ha fatto rimpiazzare con il suo trono, nella grande sala del ‘tuo’ palazzo reale. Ovviamente non tutto è andato bene per lui. Alcune delle casate andorane pensano che ti abbia uccisa; adesso che sei morta c’è simpatia per te. Quell’uomo tiene Andor in una morsa ferrea, con un’orda di Aiel e un esercito delle Marche di Confine che la Torre ha reclutato per lui. Ma se credi che ti darà il benvenuto a Caemlyn restituendoti il trono...»

Niall s’interruppe, ma il torrente di parole aveva colpito Morgase come una grandinata. Dyelin aveva diritto di successione al trono solo se Elayne fosse morta. Oh, Luce! Elayne! Era ancora in salvo alla Torre? Morgase provava una certa antipatia per le Aes Sedai soprattutto perché per un periodo di tempo avevano perso Elayne, e aveva addirittura chiesto che la figlia facesse ritorno, quando nessuno chiedeva nulla alla Torre; eppure, adesso sperava che fosse con loro. Si ricordava di una lettera di Elayne, dopo che aveva fatto ritorno a Tar Valon. Ce n’erano state altre? Molto di quanto era accaduto quando Gaebril l’aveva schiavizzata era vago. Certamente la ragazza doveva essere al sicuro, e lei doveva preoccuparsi anche di Gawyn e Galad — solo la Luce sapeva dove fossero — ma Elayne era la sua erede. La pace di Andor dipendeva da una successione regolare.

Doveva pensare attentamente. Anche se tutto il racconto reggeva, le bugie ben strutturate erano altrettanto efficaci della verità, e quest’uomo era un artista in tal senso. Lei aveva bisogno di fatti. Che Andor la credesse morta non la sorprendeva. Aveva dovuto lasciare il suo regno di nascosto per evitare Gaebril e quelli che forse lo avrebbero aiutato facendo la spia. Se ora alcuni provavano simpatia per lei, avrebbe potuto usarla una volta risorta dalla tomba. Fatti. «Ho bisogno di tempo per pensare» rispose.

«Ma certo.» Niall si alzò con un movimento fluido, e lei avrebbe voluto fare lo stesso per non consentirgli di torreggiare, ma non era certa che le gambe l’avrebbero sostenuta. «Ritornerò fra un giorno o due. Nel frattempo desidero essere certo della tua salvezza. Ailron è talmente preso dai propri problemi che non si sa mai chi potrebbe intrufolarsi nelle tue stanze, forse con cattive intenzioni. Mi sono preso la libertà di disporre qui alcuni dei Figli. Con il permesso di Ailron.»

Morgase aveva sempre sentito raccontare che i Manti Bianchi rappresentavano il vero potere in Amadicia, ed era certa di averne appena ricevuto la prova.

Niall fu leggermente più formale nell’andare via, facendole un inchino profondo. In un modo o nell’altro le stava facendo capire che non aveva scelta.

Non appena l’uomo fu uscito, Morgase si alzò, ma Breane fu ancora più veloce nello scattare verso la porta. Anche così, prima che una delle due donne avesse fatto tre passi, la porta si spalancò e Tallanvor e gli altri due uomini entrarono.

«Morgase,» disse il giovane, cercando di placarla con lo sguardo «temevo che...»

«Temevi?» rispose lei sdegnata. Era troppo; il ragazzo non avrebbe mai imparato. «Così mi proteggi? In questo modo avrebbe potuto farlo anche un ragazzino! Ma in fondo è proprio quello che sei.»

Lo sguardo ardente di Tallanvor rimase su di lei ancora un istante, quindi lui si voltò per passare fra Basel e Lamgwin.

Il locandiere rimase in piedi sfregandosi le mani. «Erano almeno trenta, mia regina. Tallanvor avrebbe combattuto, ha cercato di gridare per avvisarti, ma lo hanno colpito in testa con l’elsa di una spada. Il vecchio ha detto che non intendevano farti del male, ma che avevano bisogno solo di te e se avessero dovuto ucciderci per quello...» Lo sguardo del locandiere si posò su Lini e Breane, che stava esaminando Lamgwin dalla testa ai piedi come per accertarsi che non fosse ferito. L’uomo appariva altrettanto preoccupato. «Mia regina, se avessi pensato che potevamo servire a qualcosa... mi dispiace, ti ho delusa.»

«La medicina giusta è sempre la più amara» mormorò Lini. «Più ancora se è destinato a una bambina con un umore capriccioso.» Almeno per una volta, non si fece sentire da tutti.

Aveva ragione, e Morgase lo sapeva. Con l’esclusione dei capricci, ovviamente. Basel sembrava afflitto abbastanza da accettare a cuor sereno la decapitazione. «Non mi hai delusa, mastro Gill. Un giorno potrei chiederti di morire per me, ma solo se ne verrà un bene maggiore. Niall voleva solamente parlare.» Basel si rianimò subito, ma Morgase sentiva gli occhi di Lini su di sé. Molto arrabbiati. «Potresti chiedere a Tallanvor di venire da me? Io... vorrei scusarmi con lui per le mie parole frettolose.»

«Il modo migliore di scusarsi con un uomo» intervenne Breane «è portarlo in un luogo recondito di un giardino.»

Qualcosa scattò in Morgase. Prima di accorgersene lanciò il calice contro la donna, versando tutto il liquido sul tappeto. «Fuori!» gridò. «Tutti! Fuori! Mastro Gill, puoi riferire tu le mie scuse a Tallanvor.»

Breane si asciugò il vestito con calma, quindi si avviò lentamente verso Lamgwin per prenderlo sottobraccio. Basel pareva camminare sui tizzoni ardenti mentre cercava di farli uscire di corsa.

Con sorpresa di Morgase, anche Lini la lasciò. Non era sua abitudine. In un’altra occasione sarebbe rimasta per darle una lezione, come se avesse ancora dieci anni. Morgase non sapeva perché tollerasse ancora un tale comportamento da quella donna, eppure desiderò quasi che Lini fosse rimasta. Adesso però erano andati tutti via, la porta era chiusa e lei... aveva cose più importanti di cui preoccuparsi dei sentimenti feriti di Lini.

Camminando avanti e indietro sul tappeto cercò di pensare. Ailron avrebbe chiesto delle concessioni per il commercio — forse anche il ‘sacrificio’ di Niall — in cambio dell’aiuto. Lei gli avrebbe concesso le agevolazioni per il commercio, ma temeva che Niall avesse ragione sul numero dei soldati che Ailron le avrebbe dato in cambio. Le richieste di Niall invece sarebbero state facili da accontentare. Accesso libero in Andor per tutti i Manti Bianchi. La libertà di sradicare tutti gli Amici delle Tenebre che avessero trovato, sollevare sommosse contro donne prive di protezione che avrebbero accusato di essere Aes Sedai e di uccidere le vere Sorelle. Niall avrebbe anche potuto chiedere una legge contro la capacità di incanalare e contro le donne inviate alla Torre Bianca.

Sarebbe stato possibile — ma difficile e sanguinoso — espellere i Manti Bianchi, una volta che si fossero trincerati nella sua nazione, ma era davvero necessario farli entrare? Rand al’Thor era il Drago Rinato — di quello era certa, nonostante quanto sosteneva Niall; ne era quasi certa — ma governare le nazioni non faceva parte delle Profezie del Drago, non che lei sapesse. Drago Rinato o falso Drago, non poteva avere Andor. Ma come poteva Morgase esserne sicura?

Qualcuno bussò timidamente alla porta, distraendola. «Avanti» rispose lei severa.

La porta si aprì piano per far entrare un giovane sorridente con addosso la livrea rossa e oro e una caraffa di vino freddo in mano: l’argento era già coperto di condensa. Morgase aveva creduto si trattasse di Tallanvor. Lamgwin era di guardia da solo nel corridoio. O meglio, oziava appoggiato contro la parete come un beone da taverna. Fece cenno al giovane di appoggiare il vassoio.

Furiosa — Tallanvor avrebbe dovuto andare da lei; avrebbe dovuto! — riprese a camminare avanti e indietro. Basel e Lamgwin avrebbero potuto recarsi nei villaggi circostanti alla ricerca di notizie, ma si sarebbe trattato di voci, forse disseminate da Niall. Lo stesso valeva per il palazzo e la servitù.

«Mia regina, posso parlare?»

Morgase si voltò stupita. Era l’accento di Andor. Il giovane era in ginocchio, con un sorriso che variava tra l’incertezza e l’audacia. Avrebbe potuto essere di bell’aspetto se non fosse stato per il naso, che si era rotto e non era stato curato bene. Quello di Lamgwin pareva irregolare e basso; il ragazzo invece sembrava avesse inciampato e fosse caduto faccia in avanti. «Chi sei?» chiese Morgase. «Come sei giunto qui?»

«Mi chiamo Paitr Conel, mia regina. Di Market Sheran. In Andor» aggiunse, come se lei non lo avesse capito. La donna gli fece un cenno spazientito perché proseguisse. «Sono venuto ad Amador con mio zio Jen. È un mercante, viene da Quattro re e qui pensa di poter trovare dei colori di Tarabon. Sono costosi, con tutti i problemi a Tarabon, ma ha pensato che forse qui poteva pagarli meno...» Morgase serrò le labbra e il ragazzo andò avanti rapidamente. «Abbiamo sentito parlare di te, mia regina, e abbiamo saputo che ti trovavi al palazzo. Vista la legge in Amadicia e il tuo addestramento alla Torre Bianca abbiamo pensato che potevamo aiutarti...» deglutì, e a bassa voce concluse «...a scappare.»

«Sei pronto ad aiutarmi a... scappare?» Non era il migliore dei piani, ma poteva sempre cavalcare a nord verso il Ghealdan. Tallanvor ne avrebbe goduto. No, non lo avrebbe fatto, e questo sarebbe stato anche peggio.

Paitr scosse il capo, contrito. «Zio Jen aveva un piano, ma adesso ci sono Manti Bianchi ovunque. Non sapevo cos’altro fare se non venire da te come mi aveva suggerito lui. Penserà a qualcosa, mia regina. È furbo.»

«Ne sono certa» mormorò lei. A quel punto l’idea del Ghealdan si riaffacciò. «Da quanto tempo avete lasciato Andor? Un mese o due?» Il ragazzo annuì. «Quindi non sai cosa stia accadendo ora a Caemlyn» sospirò la regina.

Il giovane si inumidì le labbra. «Io... noi abitiamo con un uomo in Amador che ha dei piccioni viaggiatori. Un mercante. Riceve messaggi da ogni dove. Anche da Caemlyn. Ma sono solo cattive notizie, mia regina. Forse ci vorrà un giorno o due, ma mio zio troverà un sistema. Volevo solo farti sapere che l’aiuto è vicino.»

Be’, poteva essere vero. Una gara fra Pedron Niall e quel Paitr con suo zio Jen. Avrebbe preferito non essere così sicura su chi dei due scommettere. «Nel frattempo, potresti dirmi quant’è brutta la situazione a Caemlyn.»

«Mia regina, il mio compito è solo di metterti al corrente dell’aiuto in arrivo, mio zio si arrabbierà se racconto...»

«Sono la tua regina, Paitr,» rispose Morgase con fermezza «e anche di tuo zio. Non avrà niente da ridire se rispondi alle mie domande.» Paitr aveva l’aria di voler scappare, ma Morgase si sedette e iniziò a interrogarlo.

Pedron Niall si sentiva abbastanza bene dopo essere smontato da cavallo nel cortile principale della fortezza della Luce e aver consegnato le redini a uno stalliere. Aveva Morgase in pugno e non aveva mentito una sola volta. Non gli piaceva dire bugie. Aveva fornito la sua interpretazione degli eventi, ma era sicuro che fosse veritiera. Rand al’Thor era un falso Drago e uno strumento della Torre. Il mondo era pieno di sciocchi che non sapevano pensare. L’Ultima Battaglia non poteva essere uno scontro titanico fra il Tenebroso e il Drago Rinato, un semplice uomo. Il Creatore aveva abbandonato l’umanità ai propri vizi molto tempo addietro. No, quando fosse giunta Tarmon Gai’don sarebbe stato come durante le Guerre Trolloc, duemila anni prima e forse più, quando orde di Trolloc e altra progenie dell’Ombra erano state vomitate dalla Grande Macchia, tormentando le Marche di Confine e facendo quasi annegare l’umanità in un mare di sangue. Lui non intendeva lasciare che il mondo affrontasse di nuovo quell’evento diviso e impreparato.

Un’ondata di inchini dai Figli della Luce lo seguì attraverso i corridoi della fortezza dalle pareti di pietra, fino alla sala privata delle udienze. Nell’anticamera, il segretario dal viso sottile, Balwer, balzò in piedi con delle carte che dovevano essere firmate dal lord capitano, ma l’attenzione di Niall era tutta concentrata sull’alto uomo, che si alzò con eleganza da una delle sedie appoggiate contro la parete. Aveva il pastorale color cremisi dietro al sole dorato ricamato sul mantello, e tre nodi di rango d’oro al di sotto.

Jaichim Carridin, Inquisitore della Mano della Luce, appariva duro come sempre, ma con più capelli grigi dell’ultima volta che Niall lo aveva visto. Gli occhi scuri e infossati erano vagamente preoccupati, e non c’era da stupirsi. Le ultime due missioni che gli erano state assegnate si erano concluse con un disastro; esito non certo favorevole per un uomo che aspirava a diventare Sommo Inquisitore e forse anche lord capitano Comandante.

Dopo aver lanciato il mantello a Balwer, Niall fece cenno a Carridin di seguirlo nella sala delle udienze, dove le bandiere dei nemici conquistate in battaglia facevano bella mostra di sé come trofei, appese alle pareti coperte da pannelli di legno scuro e l’enorme sole raggiato brillava incastonato nel pavimento fatto con tanto oro che avrebbe stupito la maggior parte degli uomini. Per il resto la sala era semplice, la stanza di un soldato, il riflesso di Niall in persona. Il vecchio si sedette su una sedia dall’alto schienale, ben fatta ma semplice. I due camini gemelli ai lati opposti della stanza erano freddi e puliti in un periodo dell’anno nel quale avrebbero dovuto ospitare dei fuochi ruggenti. C’erano abbastanza prove che l’Ultima Battaglia fosse vicina. Carridin si inchinò profondamente e si inginocchiò sul sole raggiato, lucidato da secoli di piedi e ginocchia.

«Hai ragionato sul perché ti abbia mandato a chiamare, Carridin?» Dopo la piana di Almoth, Falme e Tanchico, l’uomo non sarebbe stato da biasimare se avesse temuto che la convocazione fosse mirata ad arrestarlo. Ma non lasciava trapelare alcun timore. Come sempre, dava a vedere di saperne più di ogni altro. Sicuramente più di quanto avrebbe dovuto.

«Le Aes Sedai in Altara, mio lord capitano Comandante. La possibilità di spazzar via la metà delle streghe di Tar Valon, proprio sulla soglia di casa nostra.» La sua era un’esagerazione; a Salidar si trovava forse un terzo delle Aes Sedai, non di più.

«E ne hai parlato ad alta voce, fra i tuoi amici?» Niall dubitava che Carridin avesse amici, ma qualcuno di tanto in tanto beveva con lui. Di recente, si ubriacavano con lui. Quell’uomo però aveva alcune qualità, che adesso tornavano utili.

«No, mio lord capitano Comandante. So bene che non devo farlo.»

«Giusto» rispose Niall. «Perché non ti avvicinerai a Salidar e nemmeno nessuno dei tuoi Figli lo farà.» Niall non avrebbe saputo dire se l’espressione che vide balenare sul viso di Carridin fosse di sollievo. In tal caso, non avrebbe calzato con il personaggio; quell’uomo non si era mai mostrato privo di coraggio. E il sollievo sicuramente non era adeguato alla sua risposta: «Aspettano solo di essere stanate. È la prova che le voci sono vere e la Torre è divisa. Possiamo distruggerle senza che le altre alzino una mano. La Torre potrebbe essere indebolita fino al punto di cadere.»

«Lo credi davvero?» osservò Niall. Incrociò le mani sullo stomaco e mantenne bassa la voce. Gli Inquisitori — la Mano disprezzava quel nome, ma anche lui lo usava — non vedevano mai nulla a meno che non gli venisse infilato sotto il naso. «La Torre non può venire allo scoperto per quel falso Drago, al’Thor. Cosa succede se lui si rivolta come ha fatto Logain? Ma un gruppo ribelle? Potrebbero supportarlo loro, lasciando pulite le gonne della Torre Bianca, qualsiasi cosa accada.» Era sicuro di aver ragione. In caso contrario, ci sarebbero sempre stati altri sistemi per usare la frattura e indebolire maggiormente la Torre. «In ogni caso, la cosa veramente importante è ciò che il mondo vede. Non lascerò che il mondo assista a un semplice conflitto fra i Figli e la Torre.» Non prima che il mondo avesse visto la Torre per quel che era, un pozzo di Amiche delle Tenebre immischiate con forze che la razza umana non avrebbe dovuto neanche toccare, forze che avevano provocato la Frattura del Mondo. «È la battaglia del mondo contro il falso Drago.»

«Allora se non devo andare in Altara, mio lord capitano Comandante, quali sono i miei ordini?»

Niall reclinò il capo, sospirando. Improvvisamente provò una forte stanchezza. Sentì tutto il peso dei suoi anni e anche di più. «Oh, ma tu andrai in Altara, Carridin.»

Aveva scoperto il volto e il nome di Rand al’Thor quasi subito dopo la presunta invasione di Falme da oltremare, un complotto delle Aes Sedai che era costato ai Figli un migliaio di uomini e aveva iniziato a disseminare i fautori del Drago e il caos in tutta Tarabon e nell’Arad Doman. Lui sapeva cosa fosse Rand al’Thor e credeva di poterlo usare come pungolo per costringere le nazioni a unirsi. Una volta federate, dietro la sua guida, avrebbero potuto eliminare al’Thor ed essere pronti per le orde Trolloc. Aveva inviato degli emissari da ogni governante di ogni terra per sottolineare il pericolo, ma al’Thor si muoveva più veloce di quanto lui credesse, anche ora. La sua intenzione era stata quella di lasciare il leone rabbioso a vagare per le strade abbastanza a lungo da spaventare tutti, ma il leone era diventato un gigante che si muoveva rapido come il fulmine.

Comunque non tutto era perduto: doveva continuare a ricordarselo. Più di mille anni addietro Guaire Amalasan si era proclamato Drago Rinato, un falso Drago che poteva incanalare. Amalasan aveva conquistato più di quanto al’Thor possedeva in questo momento, prima che un giovane re di nome Artur Paendrag Tanreall vincesse in campo contro di lui, dando il via alla propria ascesa. Niall non si considerava un altro Artur Hawkwing, ma era pur sempre tutto ciò che il mondo aveva a disposizione. Non si sarebbe arreso fino a quando fosse vissuto.

Aveva già iniziato a contrastare la forza crescente di al’Thor. Oltre agli emissari per i governanti, aveva inviato degli uomini a Tarabon e nell’Arad Domati. Alcuni elementi per trovare le orecchie giuste alle quali sussurrare tutti i problemi che potevano essere imputati ai fautori del Drago, gli stolti e gli Amici delle Tenebre che si erano votati a Rand al’Thor. E anche alla Torre Bianca. Da Tarabon già provenivano voci di Aes Sedai coinvolte nella battaglia, voci intese a preparare gli uomini per il momento della verità. Adesso era giunto il momento di lanciare la parte seguente del suo nuovo piano, per mostrare alle individualiste su quale carro salire o da quale scendere. Tempo. Ne aveva così poco. Eppure non poté fare a meno di sorridere. C’erano state persone, adesso morte, che una volta avevano detto: «Quando Niall sorride, vuol dire che sta puntando a una gola specifica.»

«L’Altara e il Murandy» spiegò a Carridin «stanno per essere tormentati dalla piaga dei fautori del Drago.»

La camera ricordava la sala delle udienze di un palazzo — i soffitti a volta erano coperti d’intonaco decorato, sul pavimento di mattonelle bianche erano disposti dei tappeti finemente lavorati, dei pannelli di legno intagliato coprivano le pareti — anche se il luogo era ben lontano da qualsiasi palazzo. In realtà, si trovava lontano da ogni posto che gli umani potessero comprendere. Il vestito rosso ruggine di Mesaana frusciò mentre lei girava intorno a un tavolo intarsiato di lapislazzuli: si stava divertendo a costruire una complessa torre con le pedine del domino, ogni piano più largo del precedente. La Reietta era fiera di riuscirci usando solo la sua conoscenza sulle tensioni e le leve, non un filo di potere. Adesso la torre era di nove piani.

In verità, più che divertirsi tentava di evitare la conversazione con la compagna. Semirhage era seduta su una sedia tappezzata di rosso dallo schienale alto, impegnata con il ricamo. Le dita lunghe e affusolate cucivano con destrezza piccoli punti che alla fine si trasformavano in un labirinto di fiorellini. Era sorprendente che alla donna piacesse un’attività così... ordinaria. L’abito nero era in netto contrasto con la sedia. Nemmeno Demandred osava insinuare in sua presenza che Semirhage usasse spesso il nero perché Lanfear aveva scelto il bianco per i suoi abiti.

Mesaana cercò di capire per la millesima volta perché fosse a disagio quando era nelle vicinanze dell’altra donna. Conosceva le proprie forze e debolezze, sia con l’Unico Potere che negli altri campi. Su molti punti era allo stesso livello di Semirhage e, quando non era così, aveva altre qualità da contrapporre alle carenze dell’altra. Non era quello il motivo. L’altra Reietta godeva della propria crudeltà, provava un gran piacere nel tormentare le sue vittime, ma nemmeno quello era il problema. Mesaana sapeva essere crudele quando era necessario e non le importava cosa facesse Semirhage agli altri. Doveva esserci un altro motivo, ma non riusciva a individuarlo.

Sistemò irritata un’altra pedina del domino e la torre cadde rumorosamente, spargendo in terra i piccoli pezzi d’avorio. Lei si allontanò dal tavolo schioccando la lingua, con le braccia incrociate sotto il petto. «Dov’è Demandred? Sono trascorsi diciassette giorni da quando si è recato a Shayol Ghul, ma ha atteso fino a ora per comunicare di avere un messaggio per noi, e ancora non si presenta.» Durante quel periodo la Reietta si era recata al Pozzo del Destino per due volte e aveva percorso anche lei il camminamento snervante, con il passaggio sotto le zanne di pietra che le avevano sfiorato i capelli, e alla fine aveva incontrato solo un Myrddraal troppo alto e molto taciturno. Aveva percepito il Foro, ma il Sommo Signore non le aveva risposto e lei non si era trattenuta a lungo. Non riteneva di essere paurosa, non era afflitta dal tipo di panico che scaturiva dallo sguardo dei Mezzi Uomini, eppure per ben due volte la presenza silenziosa del Myrddraal privo di occhi l’aveva fatta andare via a passi veloci; solo l’autocontrollo aveva impedito che si trasformassero in una corsa. Se incanalare in quel luogo non avesse significato morte certa avrebbe distrutto il Mezzo Uomo o avrebbe usato il talento chiamato Viaggiare per allontanarsi dal Pozzo. «Dov’è?»

Semirhage sollevò la testa dal ricamo e guardò con gli occhi fissi e scuri quel viso liscio e torvo, quindi mise da parte il lavoro e si alzò con grazia. «Verrà quando verrà» rispose con calma. Era sempre calma, sempre aggraziata. «Se non vuoi aspettare, vai pure via.»

Mesaana si alzò inconsciamente in punta di piedi, ma dovette comunque guardare verso l’alto. Semirhage era più alta di molti uomini, ma aveva proporzioni perfette che non venivano notate fino a quando non torreggiava sulle persone, guardando tutti dall’alto in basso. «Andare via? Me ne andrò. E lui può...»

Naturalmente non vi fu alcun preavviso. Non c’era mai, quando un uomo incanalava. Nell’aria apparve una linea luminosa, quindi si allargò quanto bastava per consentire a Demandred di passarvi attraverso; il Reietto fece un piccolo inchino. Era vestito di grigio scuro e aveva del merletto chiaro attorno al collo. Si era adattato bene alla moda e ai tessuti di quell’Epoca.

Il profilo aquilino era abbastanza attraente, anche se non proprio del tipo che faceva accelerare il cuore delle donne. In ogni modo, ‘abbastanza’ e ‘non proprio’ avevano sempre fatto parte della vita di Demandred. Aveva avuto la sfortuna di nascere un giorno dopo Lews Therin Telamon, che sarebbe diventato il Drago, e benché Barid Bel Medar, il suo nome a quei tempi, avesse trascorso anni eguagliando quasi le imprese di Lews Therin, non ne aveva mai raggiunto la fama. Senza Lews Therin lui sarebbe stato l’individuo più acclamato dell’Epoca. Se fosse stato designato per guidare gli altri al posto dell’uomo che considerava un suo inferiore intellettuale, uno sciocco troppo cauto che aveva avuto una fortuna eccessiva, oggi si sarebbe trovato in quella stanza? Era una congettura oziosa, anche se Semirhage vi aveva già pensato in precedenza. No, il punto importante era che Demandred disprezzava il Drago, e adesso che era Rinato, lui gli aveva riversato contro tutto quell’odio.

«Perché...»

Demandred sollevò una mano. «Aspettiamo di essere tutti presenti, Mesaana, così non dovrò ripetermi.»

La donna percepì il filamento di saldar un istante prima che la linea luminosa apparisse trasformandosi in un passaggio. Ne uscì Graendal — per una volta senza essere accompagnata da servitori seminudi — e lasciò svanire l’apertura rapidamente, come aveva fatto Demandred. Era una donna corpulenta con i capelli rosso oro acconciati in una elaborata torre di ricci. Aveva anche trovato, chissà dove, dello streith per il vestito a collo alto che indossava. Come il suo umore, il tessuto era etereo quanto la nebbia. A volte Mesaana si chiedeva se Graendal prendesse in considerazione qualcos’altro oltre il proprio piacere.

«Mi domandavo se sareste venuti» osservò spensierata la nuova arrivata. «Voi tre siete così misteriosi.» Rise allegramente. No, sarebbe stato un errore tremendo giudicare Graendal in base ai suoi comportamenti superficiali. Molti di quelli che lo avevano fatto erano morti da parecchio tempo, vittime della donna che avevano trascurato.

«Sammael viene?» chiese Demandred.

Graendal fece un cenno con la mano inanellata. «Oh, non si fida di te. Credo non si fidi nemmeno di se stesso.» Lo streith divenne scuro, una nebbia che adesso era così fitta da nascondere. «Sta conducendo i propri eserciti a Illian e si lamenta di non avere i fucili elettro-fulminanti per armarli. Quando non si occupa della sua armata, si dedica alla ricerca di un angreal o un sa’angreal utili. Qualcosa che sia dotato di una forza considerevole.»

Tutti gli occhi si volsero su Mesaana e la donna sospirò. Ognuno di loro avrebbe dato... be’, quasi tutto, per un angreal o sa’angreal decenti. Tutti i Reietti erano più forti di una qualunque di quelle bambine mezze addestrate che si facevano chiamare Aes Sedai, ma un numero giusto di quelle donne legate assieme avrebbe potuto schiacciarli. Per fortuna non sapevano come fare e non erano nemmeno consapevoli di averne il potere. Servivano anche degli uomini per estendere il legame oltre i tredici elementi, ben più di uno per andare oltre i ventisette. In verità quelle ragazze — la più vecchia ai suoi occhi era una ragazza; lei aveva vissuto oltre trecento anni lontano dai suoi tempi e sigillata nel Foro ed era stata considerata solo di mezza età — non erano un pericolo effettivo, ma ciò non riduceva il desiderio di ciascuno di loro di trovare un angreal, o meglio ancora un ben più potente sa’angreal. Con quei residui dei loro tempi avrebbero potuto incanalare una quantità di Potere che altrimenti li avrebbe ridotti in cenere. Ognuno di loro era pronto a rischiare molto per uno di quei premi. Ma non tutto. Non senza una necessità effettiva, benché la mancanza di una motivazione valida non calmasse il desiderio.

Mesaana assunse automaticamente il tono di voce di un insegnante. «Adesso la Torre Bianca ha disposto dei soldati e delle barriere protettive nella camera blindata, sia all’interno che all’esterno, che controllano ogni oggetto quattro volte al giorno. La Grande Proprietà nella Pietra di Tear è anch’essa protetta da uno stratagemma disgustoso che mi avrebbe trattenuta, se solo avessi cercato di oltrepassarlo o scioglierlo. Non credo che possa essere disattivato se non da chi l’ha creato e, sino ad allora, sarà una trappola letale per ogni donna in grado di incanalare.»

«Ho sentito dire che si tratta solo di un’accozzaglia polverosa di spazzatura inutile» rispose Demandred per chiudere l’argomento. «I Tarenesi raccolgono qualsiasi oggetto sospettino possa avere un legame con il Potere.»

Mesaana supponeva che l’uomo avesse in mano più che delle voci su cui basare quest’osservazione. Immaginava che esistesse anche una trappola per uomini intessuta attorno alla Grande Proprietà, o Demandred avrebbe avuto il suo sa’angreal e si sarebbe scagliato contro Rand al’Thor da molto tempo. «Senza dubbio ci sono alcuni potenti artefatti a Cairhien e nel Rhuidean, ma anche se non incontraste al’Thor, entrambi i luoghi sono infestati da donne che possono incanalare.»

«Ragazzine ignoranti.» Graendal tirò su con il naso.

«Se una sguattera ti infilasse un pugnale in mezzo alle scapole,» puntualizzò fredda Semirhage «saresti meno morta che perdendo in un duello sha’je a Qal?»

Mesaana annuì. «Allora ci restano solo tutti gli oggetti che possono essere sepolti fra vecchie rovine o dimenticati in una soffitta. Se contate di trovare qualcosa per caso, siete liberi di cercare. Io non lo farò. A meno che qualcuno non sappia dove trovare una scatola della stasi.» Da quest’ultima frase trapelò una certa aridità. Le scatole della stasi dovevano essere sopravvissute alla Frattura del Mondo, ma il terremoto probabilmente le aveva fatte finire tutte in fondo all’oceano o sepolte sotto una montagna. Era rimasto ben poco del mondo che avevano conosciuto, se non qualche nome leggendario.

Il sorriso di Graendal fu dolcissimo. «Ho sempre pensato che dovresti essere un’insegnante. Oh, chiedo scusa. Avevo dimenticato.»

Il volto di Mesaana si incupì. Il suo cammino verso il Sommo Signore era iniziato quando le era stata negata una posizione nel Collam Daan, molti, molti anni prima. Inadatta alla ricerca, le avevano spiegato, ma poteva comunque insegnare. Be’, lo aveva fatto, fino a quando non aveva trovato il modo di dare una lezione a tutti loro!

«Sto ancora aspettando di sentire cosa ti ha detto il Sommo Signore» mormorò Semirhage.

«Sì. Dobbiamo uccidere Rand al’Thor?» Mesaana si accorse di stringere la gonna con entrambe le mani e la lasciò. Strano. Non permetteva mai a nessuno di prenderla in contropiede. «Se tutto va bene, in due mesi, tre al massimo, si troverà indifeso in un luogo dove potrò facilmente raggiungerlo.»

«Dove potrai facilmente raggiungerlo?» Graendal inarcò le sopracciglia con fare interrogativo. «Dove ti sei costruita la tana? Non importa. Per quanto semplice, è il miglior piano che abbia sentito di recente.»

Demandred rimase a osservarle in piedi e in silenzio. No, non Graendal. Solo Semirhage e Mesaana. E quando parlò si rivolse in parte a se stesso e in parte a loro. «Quando penso a dove vi siete sistemate voi due, mi meraviglio. Da quanto tempo e di quante cose era al corrente il Sommo Signore? Quanto di tutto l’accaduto era stato un suo disegno fin dall’inizio?» A quella domanda non vi era risposta. Alla fine, Demandred disse: «Volete sapere cosa mi ha detto il Sommo Signore? Molto bene, ma che rimanga fra noi, deve restare un segreto. Visto che Sammael ha deciso di tenersi alla larga, non deve scoprire nulla, come anche gli altri, che siano vivi o morti. La prima parte del messaggio del Sommo Signore era semplice. ‘Lasciate che il Signore del caos governi.’ Sono state le sue parole esatte.» Gli angoli della bocca di Demandred ebbero un fremito, l’espressione più simile a un sorriso che Mesaana avesse mai visto sul volto di quell’uomo. Quindi aggiunse il resto.

Mesaana tremava, senza sapere se fosse per eccitazione o paura. Avrebbe potuto funzionare; avrebbe potuto ottenere tutto. Ma serviva molta fortuna, e scommettere la metteva a disagio. Demandred invece era un giocatore d’azzardo, però aveva ragione su un punto: Lews Therin aveva creato la propria sorte come il conio crea la moneta. Secondo lei, almeno sino ad allora, al’Thor aveva fatto lo stesso.

A meno che... il Sommo Signore avesse un piano oltre a quello che aveva rivelato, e quella prospettiva la spaventava più di ogni altra possibilità.

Lo specchio con la cornice dorata rifletteva l’immagine della stanza, il motivo inquietante a mosaico che copriva le pareti, i mobili dorati, i bei tappeti e gli altri specchi e la tappezzeria. La stanza di un palazzo senza una finestra o... una porta. Lo specchio rifletteva anche l’immagine di una donna che camminava avanti e indietro con addosso un vestito rosso sangue, il volto bellissimo una combinazione di rabbia e incredulità. Incredulità. Rifletteva anche l’immagine del proprio viso, e quella lo interessava molto più della donna. Non poté fare a meno di toccarsi per la centesima volta il naso, la bocca e le guance per accertarsi che fossero veri. Non era un volto giovane, ma lo era comunque più di quello che aveva avuto la prima volta, quando si era risvegliato dal lungo sonno con i suoi incubi infiniti. Si trattava di un volto ordinario e lui aveva sempre odiato essere ordinario. Riconobbe il suono che gli sgorgò dalla gola, ricordò il sorgere di una risata, e lo trattenne. Non era pazzo. Malgrado tutto, non lo era.

Durante quel secondo sonno, molto meno terrificante, gli era stato dato un nome, prima che si svegliasse con quel volto e quel corpo. Osan’gar. Un nome assegnato da una voce che lui conosceva bene e alla quale non osava disobbedire. Il suo vecchio nome, scelto per denigrarlo e adottato invece con orgoglio, era scomparso per sempre. La voce del suo maestro aveva parlato e lo aveva reso possibile. La donna si chiamava Aran’gar; l’identità precedente non esisteva più nemmeno per lei.

Quei nomi erano una scelta interessante. Osan’gar e Aran’gar erano le posizioni delle mani sinistra e destra nel duello con i pugnali, popolare in quell’edificio per un breve periodo di tempo dal giorno in cui il Foro era stato creato fino all’inizio della Guerra del Potere. I suoi ricordi erano frammentari — troppo era andato perduto durante il lungo sonno e quello breve — ma questo lo rammentava ancora. La popolarità era stata breve perché quasi sempre gli sfidanti morivano entrambi. Le lame dei pugnali erano intrise di un veleno mortale.

Qualcosa si mosse indistinta nello specchio e lui si voltò lentamente. Doveva tenere a mente chi fosse e accertarsi che anche gli altri facessero lo stesso. La porta ancora non c’era, ma adesso un Myrddraal condivideva la stanza con loro. Nulla di tutto ciò era inconsueto in quel luogo, anche se il Myrddraal era più alto di qualsiasi altro Osan’gar avesse mai visto prima.

Se la prese comoda, lasciando aspettare il Mezzo Uomo, e prima che lui potesse aprire bocca, Aran’gar chiese furiosa: «Perché mi è stato fatto tutto ciò? Perché sono stata infilata in questo corpo? Perché?» L’ultima domanda fu quasi un grido stridulo.

Osan’gar ebbe l’impressione che le labbra esangui del Myrddraal si torcessero leggermente in qualcosa di simile a un sorriso, cosa impossibile, lì come ovunque. Anche i Trolloc avevano il senso dell’umorismo, ma non i Myrddraal. «A entrambi è stato dato il meglio che potesse essere trovato nelle Marche di Confine» la voce della creatura ricordava il suono di una vipera che strisciava fra l’erba secca. «È un bel corpo, forte e sano. Meglio delle alternative.»

Il Myrddraal aveva ragione. Era un bel corpo, adatto a una ballerina daien dei vecchi tempi, morbido e rigoglioso, gli occhi verdi erano incorniciati in un viso ovale color avorio e i capelli erano neri e lucidi. Qualsiasi soluzione sarebbe stata migliore delle alternative.

Forse Aran’gar non era dello stesso parere. Quel volto bellissimo era chiazzato dalla rabbia. Stava per fare qualcosa di avventato. Osan’gar lo sapeva; aveva sempre avuto quel problema. Lanfear al confronto pareva cauta. Si protese verso saidin. Incanalare in quel luogo avrebbe potuto essere pericoloso, ma sempre meno che permettere alla donna di fare qualcosa di veramente stupido. Si protese verso saidin e... non trovò nulla. Non era stato schermato, lo avrebbe percepito e sapeva cosa fare per spezzare la protezione. Avendo tempo a disposizione, però: lui non era molto forte. Quella condizione assomigliava di più all’essere stato Troncato. Lo stupore lo pietrificò sul posto.

Non fu lo stesso per Aran’gar. Forse la donna aveva fatto la stessa scoperta, ma con un effetto diverso. Gridando come un gatto selvatico si scagliò contro il Myrddraal con le unghie protese.

Fu ovviamente un attacco futile. Il Myrddraal non cambiò nemmeno posizione. L’afferrò per la gola con scioltezza, la sollevò con il braccio teso fino a quando sentì i piedi di lei sollevarsi dal pavimento. Il grido divenne un gorgoglio e la donna afferrò con entrambe le mani i polsi del Myrddraal. Questi, con la donna che oscillava nella sua morsa ferrea, rivolse lo sguardo privo di occhi verso Osan’gar. «Non siete stati Troncati, ma non incanalerete fino a quando non vi verrà detto che potete farlo. E non mi attaccherete mai. Io sono Shaidar Haran.»

Osan’gar cercò di deglutire, ma aveva la bocca secca. Sicuramente la creatura non aveva nulla a che vedere con ciò che gli era stato fatto. I Myrddraal avevano diversi poteri, ma non quello. Eppure sapeva. Non gli erano mai piaciuti i Mezzi Uomini. Aveva aiutato a creare i Trolloc, incrociando umani e animali — di quello era fiero, delle conoscenze coinvolte nella creazione, delle difficoltà superate — ma questi strani esseri che spuntavano occasionalmente lo mettevano, nella migliore delle ipotesi, a disagio.

Shaidar Haran rivolse di nuovo la propria attenzione sulla donna che si agitava fra le sue mani. Il viso cominciava a diventare purpureo e i piedi scalciavano debolmente. «Ti abituerai. Il corpo si piega all’anima ma la mente si inchina davanti al corpo. Ti stai già adattando. Presto sarà come se non ne avessi mai avuto un altro. Oppure, se vuoi, puoi rifiutare. In quel caso un’altra prenderà il tuo posto e tu verrai consegnata a... i miei fratelli, bloccata come ora.» Le labbra sottili della creatura si torsero di nuovo. «Nelle Marche di Confine hanno nostalgia del loro sport preferito.»

«Non può parlare» osservò Osan’gar. «La stai uccidendo! Non sai dove ci troviamo? Mettila giù, Mezzo Uomo! Obbediscimi!» Quella creatura doveva obbedire a uno dei Prescelti.

Invece il Myrddraal, impassibile ancora per un lungo momento, studiò il volto di Aran’gar che diventava sempre più scuro, prima di lasciare che i piedi della donna toccassero il tappeto e allentare la presa. «Obbedisco al Sommo Signore e nessun altro.» La donna, appesa alla mano della creatura, tossiva tremante e respirava con affanno. Se il Myrddraal avesse tolto la mano, lei sarebbe caduta. «Ti sottometterai alla volontà del Sommo Signore?» Non era una domanda, solo una formula meccanica espressa con quella voce graffiante.

«Lo farò» rispose rauca Aran’gar, e Shaidar Haran la lasciò andare.

La donna vacillò massaggiandosi la gola e Osan’gar si mosse per aiutarla, ma lei lo minacciò con l’espressione furiosa e un pugno sollevato ancor prima che la toccasse. L’uomo si fece indietro con le mani alzate. Non voleva che si creassero inimicizie, ma la donna aveva proprio un bel corpo, era stato davvero un bello scherzo. Era sempre stato fiero del proprio senso dell’umorismo, ma questo superava ogni sua bravata.

«Non provi gratitudine?» chiese il Myrddraal. «Eri morta e adesso sei rinata. Pensa a Rahvin, la cui anima è oltre ogni salvezza, oltre il tempo. Tu hai la possibilità di servire ancora una volta il Sommo Signore e di farti perdonare per i tuoi errori.»

Osan’gar si affrettò a rassicurarlo che lui era grato, che non voleva niente di più che servire e ottenere il perdono. Rahvin morto? Cos’era successo? Non importava; un Prescelto in meno significava una possibilità in più per ottenere il vero potere una volta che il Sommo Signore si fosse liberato.

Gli bruciava umiliarsi davanti a una creatura che avrebbe potuto considerare una sua creazione quanto i Trolloc, ma ricordava la morte con troppa chiarezza. Avrebbe strisciato davanti a un verme pur di evitarla di nuovo. Notò che Aran’gar non era stata meno veloce, anche se gli occhi di lei erano colmi di rabbia. Ovviamente anche la donna ricordava perfettamente la situazione.

«Bene. In questo caso è giunto il momento che facciate ritorno nel mondo, ancora una volta al servizio del Sommo Signore» disse Shaidar Haran. «Solo io e il Sommo Signore sappiamo che siete vivi. Se avrete successo vivrete per sempre e verrete elevati al di sopra degli altri. Se fallirete... Ma non accadrà, vero?» Stavolta il Mezzo Uomo sorrise davvero. Fu come veder sorridere la morte.

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