12 Specchio, specchio

Dopo che il carboncino ebbe cominciato il suo viaggio mortale senza di lei, Mag spese tutto il suo tempo libero alla ricerca di Ducon in ogni taverna che poté trovare tra i moli del porto e il palazzo.

Quando vide che in quel modo non otteneva niente, gettò alle ortiche la prudenza. Abbandonò in mezzo a una strada affollata il cesto con cui faceva la spesa, pieno delle anguille che Faey le aveva ordinato di acquistare per cena, raggiunse il campo di girasoli e scese nel sottosuolo. Impacciata dall’antico abito di seta verde pieno di pizzi, nastri e perle cucite nella stoffa, decise di procurarsi innanzitutto qualcosa di più adatto da mettersi addosso. Mentre si muoveva rapida e silenziosa nel labirintico scantinato del palazzo, strani rumori la raggiunsero. C’erano echi di voci e d’acqua smossa, come se in qualche magico salone delfini e balene sguazzassero insieme a giovani donne in grandi vasche. Quando giunse all’origine di quei rumori, i pesci si rivelarono essere panni sporchi di lavanderia, che venivano sbattuti e strizzati in calderoni fumanti a opera di serve sciatte dal viso cupo, bagnate fradice. Lei rubò un indumento scuro da una pila di roba asciutta, e si nascose nella cantina dei vini per cambiarsi. L’abito che aveva scelto era molto modesto, adatto a una lavapiatti da taverna. Ma la copriva dal collo ai piedi, e le consentiva di passare inosservata da chiunque non la guardasse con troppa attenzione.

Trovò la stretta scala che dalla lavanderia portava su al pianterreno, e salì in fretta. Il lungo stanzone in cui sbucò era pieno di indumenti ammucchiati ovunque. Maglie, mutande e calze venivano rammendate; berretti e colletti sottoposti a inamidatura. I ferri da stiro a carbone arroventavano l’aria come piccole fornaci e, posati sui panni umidi, emanavano nuvole di vapore che bagnavano le facce arrossate delle stiratrici. Gli indumenti sporchi finivano in lavanderia, quelli puliti venivano piegati e stirati, e poi consegnati alle eleganti cameriere personali dei cortigiani, che si presentavano con aria altezzosa e controllavano capo per capo in cerca di strappi, bottoni saltati via e macchie residue. Era un posto molto indaffarato.

Mag scivolò dietro un massiccio armadio, carico di asciugamani e lenzuola in attesa di essere trasferite nelle camere da letto e nei bagni.

I pettegolezzi delle serve, in quel momento, vertevano sulle lenzuola. Sembrava che le si potesse leggere come foglie di tè; le loro macchie predicevano la buona e la cattiva fortuna. Mag colse cinici e indecifrabili commenti su coloro che dormivano tra quelle di seta.

«Deve averlo perduto, con tutto questo sangue. Non torneranno pulite mai più.»

«Allora non dovrà preoccuparsi che qualcuno dica che somiglia a questo o a quello.»

Ci fu un clicchettio di forbici, il sibilo di un ferro da stiro su una stoffa umida.

«Il sangue sulla seta è più facile da togliere del vino rosso. La cosa peggiore è la mostarda, credo. Il Nobile Picot dev’essersela spalmata addosso, ieri notte, al posto della pomata per l’artrosi.»

«La cioccolata», aggiunse una serva. «Niente è più difficile da lavare.»

«E il carbone no?» intervenne un’altra. «Quando Ducon Greve si butta sul letto, dopo una notte trascorsa a disegnare, lascia lo stampo sulle lenzuola.»

«Così puoi dire in quali altri letti è stato.»

«Se venisse nel mio, non m’importerebbe del carbone.»

«Io mi farei lasciare le sue impronte dappertutto, e in cambio gli lascerei addosso le mie.»

«Mi chiedo con chi…»

«Mi chiedo se gli piacerebbe…»

«Be’, le sue lenzuola sono quelle laggiù, e lui non c’è stato dentro questa notte. Neanche lei ha dormito nel suo letto.»

La voce si era abbassata nel pronunciare l’ultima frase. Ci fu un breve silenzio gravido di tensione. Poi una donna azzardò, in un cauto mormorio: «Con lei è difficile dirlo. Non lascia segni sul letto».

«Forse non va mai a dormire.»

Era di Domina Pearl che le serve parlavano sottovoce, comprese improvvisamente Mag.

«Io credo che lei dorma in un altro posto. Un posto segreto. È per questo che le sue lenzuola non sono mai stropicciate, senza un capello o una briciola. Non ci si trova niente che appartenga al suo corpo, neppure l’impronta.»

«Ma se ha delle lenzuola segrete, chi le lava?»

Già, chi? si domandò Mag. E dove può essere questo suo posto segreto? Ma nessuna serva fece ipotesi. La loro conversazione era tornata alle macchie. Per le più testarde: «Usate il sale». Per le più strane: «Strofinatele con l’aglio, per non contagiarvi col malocchio». E in un caso inquietante: «Lei scrisse il suo nome col sangue proprio lì, dove aveva dormito». Ma non si parlò più di Ducon Greve e della Perla Nera.

Mag poteva muoversi finché quelle serve curiose non fossero andate via. Appoggiò la testa sul retro dello scaffale e si domandò quanto durava la loro giornata lavorativa. Poi dei passi rapidi attraversarono lo stanzone verso di lei. Gli sportelli dell’armadio furono chiusi con un tonfo che la fece sussultare.

«Ecco qua. Le lenzuola di domani sono pronte. E giusto in tempo per la cena. Vai giù a chiamare le altre, che si lavino.»

Indolenzita e stanca, Mag dovette aspettare finché le donne del mondo acquatico sotterraneo salirono al pianterreno, grugnendo e lamentandosi, e si cambiarono con uniformi asciutte. Poi uscirono, lasciando una solitaria candela accesa per i lavori imprevisti del dopocena.

Mag non perse altro tempo. Se Ducon Greve non era stato trovato moribondo nel suo letto, forse giaceva da qualche parte nei passaggi segreti all’interno dei muri. Se fosse stato malato, ma visibile a tutti, i pettegolezzi delle serve avrebbero indugiato su di lui, invece che sulle lenzuola. Lei non lo aveva trovato nelle strade, dunque doveva essere nel palazzo: sporco di polvere di carbone, colpito da qualche misteriosa disfunzione fisica, in un posto dove nessuno udiva le sue grida di aiuto. Fluttuando come un pipistrello in quel largo abito nero, Mag corse lungo corridoi male illuminati nei quartieri della servitù, finché ritrovò la grossa urna presso la quale giorni addietro aveva perduto Ducon.

Stavolta scoprì la piccola rosetta bianca scolpita nel legno che poteva essere trovata solo infilando una mano tra l’urna e il muro. La spinse. La porticina si aprì senza rumore. Staccò una candela dal candelabro più vicino ed entrò nei passaggi segreti del palazzo.

C’era un labirinto di cunicoli, vuoti e non sorvegliati. Lei camminava a passi cauti, attenta a non far scricchiolare i listelli del pavimento. Molte piccole porte si aprivano su stanzette disadorne. Alloggi dei servi, pensò lei, non usati da chissà quanto tempo. Erano pieni di polvere e ragnatele, con mobili dallo stile arcaico e oggetti strani: un minuscolo cuscino di seta, un dipinto ad acquerello raffigurante un bambino, una saponetta a forma di cigno lucida e dura come l’avorio. Ma nessuna stanza ospitava un artista condannato a morte da un carboncino.

Si chiese se ci fossero scale segrete che portavano a camere più grandi e lussuose, piene dei ricordi delle eleganti dame e dei nobili del passato. Forse il veleno aveva confuso la mente di Ducon. Perduto nel dedalo di quei passaggi dimenticati poteva essere salito ai piani superiori, in cerca del suo alloggio.

Andò a cercare le scale. A dispetto della sua provata capacità di mantenere la calma, aveva le mani stranamente fredde; i suoi pensieri continuavano a frullare qua e là come foglie al vento. Il volto di Ducon, nitido nella luce della candela, la tormentava. Avrebbe potuto essere in qualsiasi posto o in nessuno, perché non gli era restato un posto al mondo dove andare; aveva origini incerte e nessun cognome. Come lei, si aggirava ovunque senza paura ed era attirato dai segreti. Avrebbero potuto essere parenti, benché lui abitasse nel palazzo sopra il mondo e lei sotto di esso. Mag non si era mai sentita così simile a un altro essere umano. E ora, nonostante l’aiuto che aveva pensato di dargli, lui stava morendo da qualche parte, molto probabilmente solo e inerme, e del tutto stordito.

Quando alla fine trovò la scala nascosta dietro uno specchio corroso e incrinato, sul fondo di una stanza, Mag gettò al vento ogni prudenza. Corse su per una rampa dopo l’altra, proteggendo la fiamma della candela con una mano, verso il buio in cima alle scale.

A un tratto file di parole balzarono verso di lei, d’oro, d’argento, rosse. Si voltò. La fiammella ondeggiante illuminava innumerevoli manoscritti, massicci e rilegati in pelle, che le parlavano in lingue conosciute e sconosciute. Altre candele emersero dal buio svegliate dalla sua; lei le accese tutte e guardò il posto in cui si trovava.

Il birraio aveva una stanza come quella: tappezzata di libri. Li chiamava ‘Tomi’, e le aveva mostrato immagini di streghe, alambicchi, elaborati diagrammi che rivelavano, simbolo dopo simbolo, la strada verso la conoscenza perfetta. Anche in questa stanza, come nella sua, c’era odore di cose antiche. Ma a differenza della sua, questa era sorvegliata.

I guardiani sembravano abbastanza reali, tra gli scaffali della piccola stanza ovale. Le belle superfici lisce delle loro armature, delle fibbie, e i ricami d’argento delle cinture, brillavano come fredde stelle alla luce delle candele. Le loro facce severe avvertirono Mag che da un momento all’altro avrebbero potuto sguainare le spade per avventarle su ogni estraneo non autorizzato, e che lei avrebbe fatto meglio a scappar via subito e in fretta. Ma lei era cresciuta in compagnia dei fantasmi i cui occhi guardavano sempre il passato, appena illuminati dalla debole brace dei loro pensieri. Questi, erano stranamente passivi; non sbattevano mai le palpebre. Le stavano dicendo che non era in pericolo lei, bensì i libri, a causa sua. Indossavano l’uniforme delle guardie di palazzo; non erano antichi spettri, ma soltanto immagini incorporee, mai vissute.

Quella stanza apparteneva a Domina Pearl. Mag sentì ancora quella secca palpitazione di farfalla nelle vene del collo. Si era imbattuta nella biblioteca della Perla Nera. Lì c’erano le conoscenze che lei considerava importanti, i suoi incantesimi, forse la sua storia. Ma Ducon Greve non le lasciava tempo per pensare alla storia di quella donna; lui doveva essere già alla fine della sua. Stava per uscire e riprendere la ricerca del giovane, quando quel pensiero irritante che aveva cercato di seppellire in fondo alla mente balzò alla superficie. Se lo avesse trovato ormai moribondo, cosa avrebbe potuto fare per lui? Portarlo da Faey?

«Qui», sussurrò, «ci sono gli incantesimi.»

La prudenza, che lei aveva lasciato in fondo alle scale, la raggiunse di nuovo. Prima di toccare i libri si avvolse una mano nel bordo della gonna; se erano stati cosparsi dell’unguento che faceva brillare le dita di chi li sfiorava, quella gonna poteva restare nel palazzo; le sue mani, no. Lesse le copertine di alcuni, per sapere di cosa trattavano prima di correre rischi avventurandosi tra le loro pagine.

Su uno c’era scritto:


MAPPE DEL MONDO CONOSCIUTO.

Gli altri avevano titoli diversi:


PIANTE UTILI DELLE ISOLE ULTIME E COSA FARE CON ESSE;
LA STORIA DI OMBRIA DALL’INIZIO DEL MONDO;
COME MANTENERE I CAPELLI, I DENTI E LE UNGHIE
DOPO LA MORTE ACCIDENTALE.

Quest’ultimo fu sul punto di aprirlo. Ma ora non aveva tempo per Domina Pearl. Poi il titolo dorato di un volume in pelle chiara attrasse il suo sguardo:


VELENI NATURALI, ARTIFICIALI E ANTIDOTI.

Stava per prenderlo dallo scaffale, quando sentì dei passi nel corridoio al piano di sotto.

Ancor prima d’imprecare per la sorpresa Mag corse a soffiare su tutte le candele che aveva acceso, cercando un posto dove nascondersi.

Chissà che non sia Ducon, si disse speranzosa, mentre ricordava di rimettere il libro al suo posto. Poi scivolò attraverso una delle guardie, augurandosi di non aver lasciato niente di sé in quell’immagine incorporea, e scoprì che c’era dello spazio tra gli scaffali e i muri.

Fu là che andò a infilarsi, e spostò due rotoli di pergamena per guardare la stanza attraverso il loro interno, come cannocchiali. Poi sentì la voce della Perla Nera, in fondo alle scale, e chiuse gli occhi.

«Guarda questa porta», stava dicendo la donna, «e questo specchio. Entrambi sono stati lasciati aperti. È lui che si aggira in questi passaggi. È lui che ficca il naso dappertutto. E cosa va cercando, secondo te, se non i miei segreti?»

«Non saprei, Domina», rispose la voce di un uomo, rispettosa, ma non servile.

«Domandaglielo. Lui si è sempre fidato di te. Voglio che sia tenuto d’occhio. Voglio sapere dove va. Nessuno ha ancora saputo dirmi dove sia finito. Non si fa vedere da giorni. È in città, oppure tra queste mura. Il bambino sta ricominciando a fare i capricci.»

Mag cercò di non far muovere col respiro i rotoli di pergamena. Sentì che i due salivano per le scale. Desiderò essere senza ossa, un’ombra, meno di un fantasma, un niente. La Perla Nera entrò nella stanza ovale. Mag aprì di colpo gli occhi, allarmata dal pensiero che la donna potesse avvertire l’odore di fumo e cera calda delle candele spente. Ma anche quei due avevano una candela, e la sua luce si avvicinò agli scaffali pieni di libri e pergamene.

A reggerla era l’uomo, evidentemente, perché la figura di Domina Pearl si spostò tra la candela accesa e lo scaffale dietro cui stava Mag. Lei chiuse di nuovo gli occhi, ordinando a se stessa: io sono nessuno. Sono niente.

«Ma dov’è quel libro…» La Perla Nera era così vicina che la sua voce arrivava a Mag come se le parlasse all’orecchio. «Sono sicura che lui viene anche qui dentro. Fruga tra i miei libri. Quali porte conosce, oltre a quella dietro lo specchio nella stanza della bambinaia? Te ne ha parlato?»

«No.»

Mag la sentì sbuffare spazientita. «Io l’avevo messo qui, su questo scaffale, dopo aver fatto fuori quel rompiscatole di Gamelyn.» La sua voce si abbassò, maligna come il sibilo di una serpe. «Se me lo ha rubato lui, lo accecherò. È astuto, infido e senza scrupoli. Potrebbe ucciderci nei nostri letti. Se fossimo così sciocchi da dormire lì.»

«Non parla mai di cose più pericolose dell’arte. La pittura e il giovane principe sono le uniche cose che sembrano interessargli. Non sarebbe saggio fargli del male inutilmente. Potremmo aver bisogno dei suoi occhi. Dimmi che libro vuoi. Ti aiuterò a cercarlo.»

«Veleni Naturali e… ah! Eccolo qui.» Il libro scivolò fuori dallo scaffale, e nel varco che aveva lasciato rimase il nero di una manica di Mag. Domina Pearl si voltò, e Mag scorse il volto dell’uomo, magro e pensoso. Aveva capelli brizzolati, quasi bianchi, e occhi gialli che brillavano come quelli di un gatto.

«Per chi ti serve questo libro, adesso?» domandò, incuriosito.

«Per Kyel», rispose la Perla Nera con raggelante calma. «Niente che possa ucciderlo. Mi occorre qualcosa che lo istupidisca, che gli spenga lo spirito, rendendolo malinconico e mite come si addice a chi ha appena avuto una perdita come la sua. Tu lo troverai molto più docile, quando comincerai le tue mansioni di tutore.»

L’uomo strinse leggermente la bocca, ma non disse niente. Si volse e seguì la Perla Nera fuori dalla stanza. La luce si spostò sulle scale. Mag la seguì con lo sguardo; tutti i suoi pensieri, come quelli di una falena, danzavano dietro di essa. In fondo alle scale, la Perla Nera si fermò.

«Ora metterò un incantesimo sulla serratura di questa porta», disse. «Nessuno, a parte noi due, potrà aprirla.»

La donna mormorò qualcosa. Mag sentì un leggero clic. Passi e voci si allontanarono, e lei rimase lì a guardare il buio.

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