24 Perduto e ritrovato

Quando era caduto nel sottomondo, Ducon aveva la mente ottenebrata dal veleno, così ricordava soltanto la porta da cui ne era uscito. L’insegna sopra quella porta raffigurava due eleganti mani guantate, che si separavano come per rivelare chissà quale meraviglia; tra di esse fluttuavano bollicine multicolori. Il piccolo negozio di guantaio era schiacciato tra due grossi magazzini, e sorgeva in un vicolo pieno di pozze d’acqua e di sangue proveniente dal macello che ne occupava l’altro lato, di fronte al quale erano posteggiati carri di pelli puzzolenti destinate alla conceria. Che il negozio avesse mai venduto un paio di guanti era cosa dubbia, almeno quanto lo era l’eventualità che qualcuno in vena di acquisti eleganti osasse avventurarsi in quella lurida stradicciola.

Nell’interno del negozio non c’era niente, a parte due muri spogli e una scala di mattoni che partiva dalla porta per scendere direttamente al fiume. Ducon vide che i lampioni sulle rive del corso d’acqua erano ancora accesi, a quell’ora del mattino. Un suono proveniente dal basso lo fece rallentare, finché il ricordo dei suoi giorni di convalescenza in casa della maga gli permise d’identificarlo: il ritmico susseguirsi di sospiri e poderosi grugniti che era il russare di Faey.

Si trovava a metà della scala quando il russare cessò.

La maga lo stava aspettando sul fondo. Era spettinata, ancora insonnolita, con un volto non troppo visibile nella fioca luce dei lampioni, e forse non si trovava neppure del tutto lì. Sbadiglio a lungo e rumorosamente, aggiustandosi con qualche gesto distratto la massa scarmigliata dei capelli. Quel mattino li aveva bianchi. Uno dei suoi occhi era turchese, l’altro rosso smeraldo, come se prima di metterli avesse dovuto cercarli al buio in una scatola piena di ricambi. Dietro di lei, nella penombra, Ducon poteva vedere l’inquieta corrente di fiochi bagliori dei suoi poteri, che non invecchiavano e non dormivano mai.

Faey borbottò qualcosa, tirò fuori dal nulla uno specchio e con attenzione ristrutturò la curva di un sopracciglio devastato. Poi fece sparire lo specchio.

«Ducon, che stai facendo qui, a quest’ora del mattino?» domandò.

«Sono venuto per Camas Erl.»

Lei sbuffò. «Non vale la pena di salvarlo. Lo lascerei perdere, se fossi te.»

«Domina Pearl mi ha mandato a riportarlo indietro», la informò lui, e vide una luce scintillare cupa sia negli occhi della maga che nel suo fluttuante manto di magia. Faey sedette su uno scalino e gli accennò di mettersi accanto a lei.

«Tiene tanto a quell’uomo?» si stupì. «L’ha tradita in minor tempo di quello che ci avrebbe messo a decidere se lavarsi i denti. È un vecchio idiota.»

«Forse, ma lei lo rivuole. E tu cosa farai? Mi fermerai?»

«No. Prenditelo pure. Io lo trovo irritante. Ma non ti sarà facile staccarlo da quegli spettri. È come perduto nella storia, e borbotta di non so quali trasformazioni. Dubito che ti guarderà due volte, salvo che tu sia morto.»

«Non potresti aiutarmi? Mi è stato ordinato di chiedertelo. Domina Pearl dice che non le hai mai rifiutato niente.»

Lei distolse lo sguardo. Si appoggiò all’indietro sugli scalini guardando pigramente qualcosa, forse i riflessi colorati della sua magia nel sottomondo. «Già, non le ho mai rifiutato niente», mormorò. «Ma non ti aiuterò. Quei due non mi piacciono, e non m’importa una scoreggia di gatto se Camas Erl e la Perla Nera si riuniranno o meno, nel mondo di sopra.» Alzò una mano per far girare la testa a Ducon e gli guardò l’escoriazione sulla tempia. I suoi occhi diventarono all’improvviso neri e senza pupille, vuoti come quelli delle statue antiche. «Anche tu menti», disse. «Anche tu.»

«Devo farlo, in quel palazzo.» Adesso le iridate correnti di magia emanavano dagli occhi di lei. Ducon non poté distogliere lo sguardo.

«Tu dici una cosa alla Perla Nera, un’altra a Kyel, un’altra all’uomo che per poco non è riuscito a ucciderti. Ci ha provato ancora?»

Lui annuì, ripensando al freddo metallo contro la gola e agli occhi folli della manticora. «Mi ha teso un agguato ed è fuggito in preda al panico. Da allora non l’ho più visto.»

«Ci sono altri.»

«Sì», Ducon udì se stesso dire, sottovoce. «Vogliono che io uccida quella donna e governi Ombria.»

«Lo farai?»

Lui esitò, pensando alla Perla Nera e ai suoi specchi che lo sorvegliavano. La maga sorrise. «Qui non può vederti. Ora sei nei miei specchi, nelle mie illusioni.» Poi aggiunse, come se gli leggesse nella mente: «E così, a questi altri, tu non hai mai detto di sì, e neppure di no».

«L’ho fatto per il bene di Kyel», sussurrò lui. Le sue mani si erano chiuse come per tenere strette tutte le possibilità, tutte quelle che lui gettava in aria e tratteneva dal cadere nel mondo superiore. «Loro non vedono come Kyel possa essere necessario; vogliono liberarsi di lui al più presto. Sono giovani, ambiziosi, disperati…»

«Dunque, tu sostieni il cielo sopra la testa del giovane principe.»

«Ci provo.»

«Ed ecco perché oggi ti trovi quaggiù, alla ricerca del suo tutore senza scrupoli, per conto della perversa reggente.»

«Per ora devo fare ciò che vuole lei», disse Ducon.

«Per il bene di Kyel. E per il bene di chi adesso mi stai imbrogliando?» Lui la guardò, attonito per lo stupore. E gli occhi di lei divennero bruni come noccioline. «Io vedo la mia figlia di cera nella tua mente?»

«Io non ho intenzione di imbrogliarti», protestò lui, sorpreso dalla sua percettività. Concentrato su Camas Erl, aveva dimenticato Mag. Faey lo interrogò inarcando un sopracciglio, e lui ammise: «Avrei lasciato che fosse Mag a dirti che ci eravamo conosciuti. L’ho trovata negli alloggi della servitù. Stava cercando me». A quelle parole, entrambe le sopracciglia s’inarcarono. Ma lei lo lasciò finire. «Voleva che io disegnassi con quel carboncino che ha nel medaglione. Pensava che avrei potuto tirare fuori il volto di sua madre.»

«E l’hai fatto?»

«Non ne avevo il tempo. L’ho lasciata ad aspettarmi nella stanza di Lydea.»

La maga sbuffò rumorosamente. «Le avevo detto di stare fuori da quel palazzo.»

«Le ho raccomandato di non andare in giro.» Ducon guardò Faey e la sondò, cautamente: «Tu sai chi è sua madre?»

«Non ne ho la minima idea», rispose lei. «È una faccenda a cui non mi sono mai interessata molto.» Ma adesso t’interessa, pensò Ducon. Faey aveva corrugato le sopracciglia e studiava qualcosa d’invisibile nell’aria tra di loro. Poi studiò lui. La luce e l’intensità dei suoi poteri avevano una bellezza segreta che lo colpì; di nuovo gli fu impossibile distogliere lo sguardo. «Tu mi vedi», la sentì dire, «in un modo impossibile a qualsiasi altro umano. Salvo Mag. Io le ho nascosto certe cose fin da quand’era piccola, affinché lavorasse per me senza quelle distrazioni. Ma quando la trovai vidi nei suoi occhi il riflesso dei miei poteri. Mag cercherà di fare da sola la magia che ha visto fare a te. La persona che le ha lasciato quel carboncino sapeva che ci sarebbe riuscita.»

«Che stai dicendo?» Ducon si accorse di avere un tono strano, teso. «Che lei e io siamo in qualche modo legati?»

«Tu cosa pensi?»

«Non l’ho mai vista prima di questa mattina. Ma quando l’ho guardata ho sentito che apparteniamo entrambi allo stesso luogo, non so immaginare quale.»

«Forse è vero.»

Faey lo lasciò così bruscamente che fuori dalla sua magica corrente lui vacillò stordito, come un pesce fuori dall’acqua. Gli occhi di lei avevano ora un colore umano. Lo contemplò con distacco, come se esaminasse un punto fuori posto in un vasto e complesso arazzo. «M’interesserà molto vedere cosa verrà fuori da quel carboncino. Però Mag avrebbe dovuto chiedermi di chiamarti qui, invece di avventurarsi nel palazzo e rischiare di finire sotto il naso della Perla Nera. A volte vorrei averla incoraggiata a pensare.» Faey si alzò.

«Aspetta», la pregò lui. «Qual è il luogo al quale lei e io apparteniamo? Dov’è?»

«Come posso saperlo? Forse il carboncino te lo dirà. Domina Pearl ha ragione su una cosa», aggiunse. «Io ti aiuterò, se vuoi. Ma non chiedermi aiuto per Camas Erl. Di lui occupatene tu.» Si alzò e s’incamminò verso casa sua, sbadigliando. «Io me ne torno a letto.»

Ducon seguì la strada illuminata dai lampioni, lungo il fiume. Ogni tanto sulla facciata di una delle grandi case si accendeva la luce in una finestra, come a prendere nota del suo passaggio, per poi spegnersi subito dopo. Il fiume si fece più stretto e rapido, con una superficie pervasa da movimenti come gli occhi dei sognatori. Si alzò il sole. Polverosi e dorati raggi di luce spiovevano dall’alto, filtrando da finestre dimenticate, scarichi fognari, e pavimentazioni sfondate di edifici in rovina. Il fiume scorreva profondo, e nel risalirlo Ducon sentiva di avanzare verso un tempo sempre più lontano nel passato. Le case sulle sue rive erano più piccole, più strette una all’altra; vecchie strade s’intrecciavano in un labirinto impenetrabile. A un certo punto ebbe la sorpresa di sentire l’odore dolce dell’erba appena tagliata; più avanti percepì un profumo di lavanda.

Camminò finché vide quanto sarebbe dovuto andare lontano, per raggiungere l’inizio temporale della sottocittà. Le memorie effimere, frammentate, di mura ombrose e torri, dove il fiume andava a confondersi in un vasto mare nero, sembravano troppo distanti per essere raggiunte se non in sogno. Forse, pensò mentre si chinava sulla riva del fiume per raccogliere una manciata d’acqua, Camas è già arrivato là, oltre il confine della storia.

Ma l’anziano cortigiano non era ancora giunto alla fine del tempo, e finalmente Ducon lo vide, sopra un rozzo ponte di pietra che s’inarcava sul corso d’acqua. A capo chino per la concentrazione, con le braccia conserte, Camas stava ascoltando un individuo corpulento vestito di seta e di pellicce, con una testa di volpe bianca che gli pendeva da una spalla e stivali ornati di code di ermellino. Camas appariva pelle e ossa, e ciocche di capelli spettinati gli ricadevano davanti al viso. I suoi abiti erano bagnati e sporchi di fango, come se fosse caduto nell’acqua, e aveva perso una scarpa. Tuttavia discorreva animatamente con lo spettro, come se questi fosse entrato nella biblioteca del palazzo per aiutarlo nelle sue ricerche.

L’improvvisa comparsa di Ducon a un’estremità del ponte non fece nessuna impressione a Camas Erl. Il cortigiano gli gettò appena un’occhiata distratta, e continuò a chiacchierare col suo interlocutore, avviandosi verso la riva opposta. «… e tutto questo accadde durante il regno di Sisal Greve, il quale, come voi mi avete riferito, contrariamente a ogni nostra documentazione scritta, non avrebbe mai…»

Ciò che Sisal Greve non avrebbe mai fatto rimase non detto, perché Ducon girò davanti al suo ex tutore e gli sferrò un pugno alla mandibola. Camas sbandò contro la balaustra del ponte e cadde a sedere. La sua attenzione era adesso tutta sul nuovo venuto.

Lo spettro, vedendosi ignorato, svanì. Nessun’altra figura immateriale prese il suo posto, dal momento che il cortigiano era ormai costretto a guardare soltanto Ducon. Il giovane si massaggiò le nocche delle dita, poi afferrò Camas per il malridotto colletto della blusa e lo tirò in piedi.

«Ducon», ansimò l’altro, sbigottito. «Che stai facendo, qui?»

«Domina Pearl mi ha incaricato di riportarvi indietro.»

«Ma sono nel pieno di una ricerca storica. Ducon, se tu sapessi cos’ho scoperto non ci crederesti mai…» L’uomo s’interruppe, confuso, forse perché (suppose Ducon) non sapeva bene che bugia inventare. Il giovane non mollò la presa, e sempre strattonandolo per il colletto lo spinse davanti a sé sulla riva del fiume, verso la casa della maga.

Camas Erl girò a mezzo la testa. «Così non riesco a respirare!» si lamentò.

«Voi non mi avete sentito.»

«Ti ho sentito. Hai detto che Domina Pearl ti ha mandato qui.»

«Mi ha mostrato la sua stanza segreta, quella dove fa i veleni e le fatture, e mette a letto il suo corpo in disfacimento perché la notte ricresca. Ho dovuto aiutarla a girare certi enormi specchi, con i quali vi ha cercato. Mi ha detto che di solito siete voi a fare quel lavoro. Ora però io so…» La sua mano lasciò il colletto e si strinse con forza brutale alla gola del suo ex tutore. Camas Erl piegò le gambe, annaspando in cerca d’aria. «Tutti questi anni», ringhiò il giovane, a denti stretti. «Mi avete mentito!»

«Io non ti ho mentito… Sei tu che non mi hai mai domandato…»

«L’avete aiutata a uccidere mio zio?» Ducon vide l’altro restare senza fiato per qualche istante. «Avete fatto questo?»

«Tu devi considerare le conseguenze», rantolò il cortigiano. «I vantaggi sono incalcolabili.»

Per quanto fosse malridotto, Camas aveva più energia di quello che Ducon si sarebbe atteso. All’improvviso l’uomo si gettò contro di lui e lo colpì al petto con una spallata, cercando di farlo cadere nel fiume. Un fantasma apparve lì accanto, e aspettò con calma di vedere cosa sarebbe successo. Ducon vacillò sotto lo spintone, ma girò su se stesso e riuscì ad afferrare il cortigiano, ancorandosi a lui. Fu Camas a cadere in ginocchio sulla riva.

Dietro di lui, con un braccio piegato intorno al suo collo, Ducon sbottò, seccato: «Non fate resistenza. Ditemi solo una cosa: perché tutto questo è così importante per voi da spingervi a uccidere un principe di Ombria e mettere in pericolo la vita del suo giovane erede? Se Ombria è la vostra passione, i Greve ne sono i governanti. Allora, perché?»

Lo spettro scomparve. Con le mani strette all’avambraccio di Ducon, l’uomo ansimò: «Ormai sono così vicino… così vicino a capire…»

«A capire cosa?»

«Tu devi lasciarmi qui. Io ho parlato con spettri che sono sopravvissuti all’ultima trasformazione di Ombria…»

«Voi avete parlato con le illusioni della maga», disse Ducon, con voce piatta.

«No… essi mi appaiono di loro volontà. Ascoltami. Tempi pericolosi, una città alla disperazione, la casa regnante nel caos e in pericolo… tutto questo indica il cambiamento, e lo provoca. Più Domina Pearl spinge i cittadini nella miseria e nel disordine, più la loro speranza e il desiderio di un futuro diverso diventano forti. Capisci? Quando il desiderio sarà sopraffacente, il cambiamento sarà inevitabile. È già successo prima e succederà ancora, e noi stiamo per raggiungere quel punto…» Tacque, semisoffocato, quando il braccio di Ducon lo strinse ancora.

«Per colpa vostra.» Lui era in preda a una rabbia fredda come una lama di ghiaccio. «Voi e la Perla Nera state distruggendo Ombria per una fantasia… una favola da bambini.»

«No…» Aggrappato al braccio del giovane, Camas lottò per un’altra boccata d’aria. «Ascoltami…»

«Ascoltate voi. Non vi riporterò da Domina Pearl. Favola o verità, non lo saprete mai; non sarete qui a vederlo, e se questo cambiamento ci sarà, a causarlo sarà la vostra assenza, piuttosto che le vostre assurde fantasie storiche.»

«Cosa…»

«Voi farete un lungo viaggio per mare, verso le isole tropicali dove le navi di Domina Pearl si fermano a raccogliere quelle strane piante e i rettili velenosi. Non tornerete mai più in questa città.»

«Domina te lo impedirà…» gorgogliò l’altro.

«Non quando le avrò spiegato che stavate cospirando con la maga contro di lei. Vi metterà su una nave con le sue stesse mani.»

«No!» Il bisogno di respirare diede al cortigiano la forza di reagire. Annaspando con una mano afferrò Ducon per la blusa. «Io devo vedere… io devo essere qui…» Con l’altra trovò un sasso e lo agitò dietro di sé. Ducon fu svelto a chinare la testa per evitarlo, ma la sua presa si allentò. Camas si voltò, con gli occhi brucianti di visioni disperate. «Nessuno…» disse, avventando ancora la pietra che aveva in pugno. La sua mano, appesantita, colpì Ducon in piena faccia. La luce delle lampade lontane esplose in un nugolo di scintille, e il giovane si sentì cadere dentro di esse, mentre la voce del suo ex tutore urlava ancora: «Nessuno mi fermerà!»

«Nessuno andrà da nessuna parte», sbottò Faey.

Ducon alzò la testa. Le scintille che roteavano nei suoi occhi lasciarono lentamente il posto al terreno umido e alla punta delle scarpe di seta azzurra della maga. Si girò di fianco e sputò una boccata di sangue. Il vecchio cortigiano, vedendo in quella bellezza dai lunghi capelli rossi un altro spettro, rimase a fissarla come trasognato, poi sbatté le palpebre, quando la sentì dire a un nobiluomo in velluto nero e catene d’argento, con voce irritata: «Vattene via. Tutti voi, tornate nel calderone».

Il volto di Camas s’imporporò. Lui aprì e chiuse la bocca un paio di volte senza emettere suono. «Tu hai osato…» riuscì infine a dire. «Non puoi esser stata tu a farli, tutti quanti…»

«Tu sei un povero sciocco, uomo», rispose lei, impietosita. Afferrò Ducon con una mano ingioiellata e lo tirò in piedi come se fosse una piuma. Poi squadrò il cortigiano con occhi metallici. «Non li ho fatti. Li ho richiamati dai miei ricordi.»

«Tu li hai conosciuti tutti?» domandò l’altro, con voce rauca.

«Oh, basta.» La maga era esasperata. «Sono giorni che sento le tue farneticazioni.» Gettò a Ducon un foglio ripiegato. Il sigillo era rotto, ma lui lo riconobbe. Aprì il foglio. Faey, con voce secca come le ruote dei carri nelle strade sopra le loro teste, gli riferì il contenuto prima che lui leggesse. «Quella donna ha preso Mag.»

Ducon sentì un’improvvisa fitta di dolore nel punto in cui Camas lo aveva colpito. «Quando l’ho lasciata era al sicuro», mormorò, addolorato. «Almeno, così credevo.»

«Lei non è capace di restarsene seduta ad aspettare. La Perla Nera vorrà sapere se la mia bambola di cera conta qualcosa per me, prima di distruggerla. E se io potrò considerare l’idea di offrirle qualcosa in cambio della sua salvezza.»

«Cosa farai?»

«Quello che devo», si limitò a rispondere lei. «Per ora le farò un’offerta. Gliela porterai tu, insieme a Camas Erl.»

«No», protestò lui, incredulo. «Non devi restituirle il Nobile Erl.»

«Date le circostanze, penso che sia meglio non offendere la reggente.» Faey si rivolse al cortigiano, ammorbidendo i suoi modi. «Scusa se sono stata un po’ brusca. Oggi sono nervosa. Spero che prima di andartene accetterai un paio di scarpe. D’accordo?»

«Te ne sarò grato», annuì cautamente lui. «Non riesco a ricordare come abbia potuto perdere una scarpa. Quanto a questo, non ho molto chiaro cosa io abbia detto e fatto negli ultimi…» Esitò, tastandosi la barba. «Giorni?»

«Gradisci anche una tazza di tè?»

«Sarà un piacere. Ancor più, se potrò parlare con te per qualche momento, circa i tuoi ricordi più antichi. So che la reggente ti sarà grata per qualunque cosa tu possa dirmi.»

«Ti dirò tutto ciò che vuoi sapere», rispose la maga.

«Io non ho nessuna intenzione», intervenne Ducon, in tono sofferente, «di riportare il Nobile Erl sotto lo stesso tetto di Kyel.» Fece un passo verso la maga, stringendo i pugni. «Ha aiutato Domina Pearl ad assassinare suo padre. Tu hai detto che devo essere io a occuparmi di lui. Lo ucciderò con le mie mani, prima di riportarlo a…»

Faey lo fissò con uno sguardo duro come la madreperla, privo di ogni espressione umana. I suoi occhi erano incolori, raggrinziti, due bianche luci che gli bruciavano i pensieri nella testa e la capacità di parlare.

«Io farò quello che devo fare per Mag», disse. La sua voce raggelava il cuore. «E tu farai quello che ti viene detto.»

La maga tornò a spogliarsi del peso dei secoli, prese a braccetto Camas Erl e s’incamminò lungo il fiume, adeguandosi all’andatura incerta del vecchio cortigiano. In quanto a Ducon, le cui gambe lo tradivano, per ubbidire al suo incantesimo, non poté far altro che tenerle dietro.

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