5 Il Re degli Incapaci

Ducon Greve alzò lo sguardo sul mausoleo della Casa di Greve. L’imponente cupola sostenuta da colonne quadrate sovrastava il cubo centrale, chiazzato di licheni, la cui poderosa porta era stata spalancata per ricevere un altro membro della dinastia regnante di Ombria. La bella costruzione di marmo bianco, scurita dalle intemperie durante i secoli, sorgeva al centro di una radura verde cinta da un filare di cipressi, sulla cima piatta di un’altura da cui si scorgeva una fetta di mare azzurro. La cancellata di ferro oltre i cipressi teneva fuori una nera marea di gente vestita a lutto. Solo i cortigiani del palazzo, i nobili e le loro famiglie, erano riuniti a semicerchio dinanzi al mausoleo. Tutti tacevano e stavano immobili, come se l’incessante suono delle campane a morto fosse un incantesimo che li paralizzava.

L’erede bambino di Ombria era accanto alla Perla Nera, in mezzo alla scorta che li circondava. Ducon non stava mai troppo lontano da lui, benché le guardie intorno a Kyel fossero così fitte da nasconderlo alla vista. Il giovane si disse che probabilmente Domina Pearl temeva una rivolta sanguinosa istigata dalle prozie dagli occhi arrossati e dai loro anziani consorti. Lui aveva scelto di fermarsi nel gruppo dei cugini e dei parenti più lontani, i cui nomi pendevano come ragni sui bordi dell’albero genealogico dei Greve. Stando tra loro poteva vedere un po’ meglio Kyel. Il bambino lo cercò con gli occhi, spaurito da tutti gli estranei che aveva attorno, e rosso in viso come sul punto di scoppiare in lacrime.

Ducon si mosse per attrarre il suo sguardo, e Kyel lo vide. Lui gli sorrise. Il panico abbandonò il volto del bambino. Poi Domina Pearl si mise tra loro.

Poco dopo, la bara del padre di Kyel fu portata a spalla nella semioscurità del mausoleo, dove brillavano file di candele. I cortigiani uscirono quasi subito; la salma del defunto rimase dentro con i suoi antenati. Dopo quello che parve un intervallo piuttosto lungo, durante il quale nulla si mosse fuorché il vento che spirava dal mare e i lunghi stendardi neri, Ducon si accorse che le campane avevano smesso di suonare.

«Il principe è morto», disse qualcuno dietro di lui. «Lunga vita al principe.»

Le trombe si alzarono riflettendo il sole in uno scintillio dorato, a cui seguirono le note dell’inno. La cerimonia era finita. Il Nobile Camas Erl, che anni addietro era stato il tutore di Ducon, stava fissando Domina Pearl con una luce indecifrabile negli occhi gialli.

La musica delle trombe, lenta e sonora, accompagnò i gruppetti degli intervenuti quando cominciarono a scendere dalla collina verso la fila di carrozze. Camas, un uomo alto e ossuto con la voce aspra e lunghi capelli brizzolati, viveva a palazzo fin da quando Ducon aveva cinque anni. Era sempre stato paziente e gentile col ragazzo senza padre e sembrava conoscere tutto ciò che valeva la pena di conoscere, dai nomi degli insetti alla storia di Ombria, dalle origini della Casa dei Greve alla tecnica — come Ducon aveva scoperto — dell’affresco e della pittura a olio.

«Siate prudente», lo consigliò Ducon che gli si era avvicinato. «Lei sta mettendo insieme la sua corte. Nessuno di noi è al sicuro.»

«Io lo sono», rispose Camas. «Lei mi ha chiesto di restare, nelle vesti di tutore del principe, come desiderava Royce Greve.»

«E voi resterete?»

«Per quanto sia strano, con cortigiani così indolenti, il palazzo ha una biblioteca straordinaria. Odierei l’idea di lasciarla. Sto ancora lavorando sulla mia Storia di Ombria.» Fece una pausa, studiando Ducon. «Voglio sperare», disse sottovoce, «che tu non stia progettando qualcosa di stupido».

«Non per il momento. La Perla Nera e io abbiamo raggiunto un compromesso. Io non le farò la guerra, e lei non mi farà ammazzare.»

«Capisco», disse Camas, accigliato. Proprio allora passò Domina Pearl, e lui non disse altro. La donna camminava accanto a Kyel, tenendogli una mano su una spalla. Ducon notò il portamento rigido del bambino, i suoi pugni chiusi. Non avrebbe pianto, e non avrebbe alzato lo sguardo verso di lei. Poco più avanti si voltò a gettare un’occhiata incredula al mausoleo, e Ducon poté vedere meglio il suo volto, pallido e sgomento. Un sasso fece inciampare Kyel. La mano di Domina Pearl s’indurì sulla sua spalla. Lui tenne lo sguardo fisso in avanti e continuò a camminare stancamente giù per la discesa. Rientrato a palazzo avrebbe dovuto fare le prove per l’incoronazione, in programma il mattino dopo.

Anche Ducon era teso. Seguendo il bambino con lo sguardo era percorso da impulsi e idee che non osava mettere in parole, neppure nell’intimità della sua mente. Il tocco leggero e familiare della lunga mano di Camas, appoggiata sulla sua spalla, gli comunicò solidarietà e un avvertimento.

«Non devi darle una scusa per attaccarti», mormorò il tutore.

«Lo so.»

«Il bambino ha bisogno di te.»

Lui respirò a fondo. «Lo so.»

«Promettimi una cosa.» Camas attese finché Ducon incontrò il suo sguardo. La sua voce era un sussurro. «Se deciderai di agire, informami. Prima di fare una mossa o di dire una parola ad altri. Così, se ti succedesse qualcosa, io saprò il perché. Ti conosco da quand’eri bambino, e sarebbe triste vederti sparire e non sapere neanche il motivo.»

Ducon scosse il capo, commosso. «Non ho un’idea coerente nella testa», assicurò a Camas. «A parte quella di prendere carta e carboncino dalla carrozza, e unirmi al resto di Ombria per la veglia in onore di mio zio.» Fece una pausa e strinse le labbra, ripensando al passato. «Lui era buono con me. E con mia madre. Sentirò la sua mancanza.» Nella sua mente si formò un’altra figura, dai lunghi capelli color delle foglie d’autunno, e con le unghie sempre smozzicate. Era possibile che anche lei fosse già morta, tanto completamente era svanita nella notte di Ombria. «Povero Kyel», mormorò.

«Tutti noi sentiremo la mancanza di suo padre.»

«Volete venire con me?»

«Io non ho la tua predilezione per le stradicciole maleodoranti e le taverne dei sobborghi», rispose pacatamente il tutore. «Preferisco trascorrere il pomeriggio in biblioteca, contemplando la storia e il posto che tuo zio ha in essa. Ma credo che Domina Pearl mi ordinerà di provvedere al cerimoniale dell’incoronazione, e di studiarne una versione modificata, adatta a un bambino di cinque anni. Tu sii prudente.»

«D’accordo», promise distrattamente Ducon, e si mescolò alla folla che si stava disperdendo verso le strade della città in cerca di posti adatti alla veglia.

Alcuni tra i nobili e i cortigiani più giovani condividevano la sua passione per i quartieri malfamati di Ombria. Costoro non avevano idea del perché Ducon si fermasse a eseguire schizzi di finestre i cui vetri sporchi e incrinati davano una dimensione indefinita, elusiva, del mondo dietro di essi. Criticavano i suoi disegni, lo seguivano da una taverna all’altra, bevevano con lui finché trovavano ciò che ciascuno di loro cercava, nel fondo del boccale o sul viso di una donna. Poi lo lasciavano andare via da solo, a cercare altre finestre, o vecchi portoni, o passaggi che sembravano infestati da ambiguità spettrali, come se potessero essere attraversati in una sola direzione o verso strane profondità.

Quel giorno una dozzina di nobili rimasero al suo fianco per tutto il pomeriggio, forse perché messi a disagio dall’atmosfera funebre che stagnava sulla città, pensò lui, e si rivelarono noiosamente rumorosi. Non vollero lasciarlo andar via in cerca di ombre. Lo trascinarono da una locanda all’altra, di preferenza quelle dove si beveva birra costosa e vini pregiati, e gli restarono attorno ridendo e schiamazzando, mentre lui buttava giù schizzi di avventori vestiti a lutto e donne velate. Ogni viso che prendeva forma sulla carta sembrava non tanto addolorato per il governante defunto, quanto intimorito per il suo successore. A un certo punto Ducon si chiese se non stesse ritraendo espressioni nate dai suoi pensieri.

Non fece caso al dipinto del goffo individuo che nuotava con assurda goffaggine sulla cresta di un’onda, con la corona d’oro che gli scivolava di traverso e gli occhi sporgenti come tuorli d’uovo. Aveva visto molte volte l’insegna di quella taverna. A quell’ora, sul nebuloso confine tra la notte e il giorno, tutti i locali pubblici gli sembravano uguali, e lui non sapeva più in quale zona di Ombria si trovasse. Si lasciava trasportare dal gruppo di giovani nobili, figli di cortigiani con le mani bucate e parenti alla lontana della sua famiglia, che apparivano solo quando c’erano funerali o incoronazioni. Trascorse un certo tempo in una locanda cercando di mettere su carta il loro grado di parentela con lui, visto che insistevano. Gli era venuto da pensare che il loro vero interesse stava nel grado di parentela che avevano con Kyel, e che molti davano per certo che il giovane principe non avrebbe vissuto a lungo, con quella reggente dagli occhi duri che già deteneva il potere a Ombria. Tutti si stavano chiedendo in che punto questo li avrebbe messi nella linea di successione. Una domanda pericolosa e affascinante, che nessuno comunque osava fare a Ducon.

Lui riconobbe la taverna quando entrarono. Sopra il caminetto c’era un affresco raffigurante una fila di persone che affogavano una dietro l’altra emettendo bolle d’aria dalla bocca corne collane di perle.

La clientela vestiva a lutto anche lì, con un’abbondanza di nastri neri fissati ai berretti e alle maniche, e i discorsi avevano il tono funebre che la lingua assume al termine di una lunga giornata in cui si è parlato di politica senza nessun ottimismo.

«Ombria è tra le fauci del drago», così Ducon udì qualcuno definire la situazione, perché in quel modo Royce Greve li aveva lasciati, sempre che fosse lecito paragonare quella coppia — il bambino e Domina Pearl — a due zanne capaci di stritolare la città.

«Non che Royce Greve abbia mai avuto a cuore le sorti di Ombria. Non come suo padre, comunque. Ma almeno lui costringeva la Perla Nera a fingere di essere onesta, mentre lei armava navi pirate e trafficava con la stregoneria. Ora la vecchia non si prenderà più neppure la briga di fingere.»

L’uomo che aveva parlato alzò il boccale. Ducon lo conosceva di vista: aveva posseduto una flotta di navi mercantili con le quali si era arricchito, fino a qualche anno prima, quando Domina Pearl aveva messo gli occhi su di lui. «Brindiamo a lei!» esclamò. «Alla Perla Nera, e alla ciurma di carogne che ha assoldato per impadronirsi dei moli di Ombria.»

Ducon andò a sedersi all’unico tavolo libero. «Ecco là un uomo morto», commentò.

Un boccale di vino gli apparve davanti magicamente, com’era successo per tutto il pomeriggio. Il giovane lo vuotò per metà, prima di accorgersi che nessuno dei suoi cugini e dei figli dei cortigiani beveva con lui. Non stavano neppure parlando. Erano attorno al tavolo e lo guardavano, con occhi stretti e speculativi. Le loro facce avevano perso l’espressione indifferente o ebbra. A lui parvero quelle di lupi affamati, e si chiese se lo vedessero come un pezzo d’arrosto servito caldo su un piatto.

A un tratto, un cugino di terzo o quarto grado scostò una sedia e si mise a sedere. Ducon cercò di ricordare il suo nome. Quei parenti gli sembravano tutti uguali, scuri di occhi e di capelli, vagamente somiglianti al defunto principe. Mimetismo protettivo, suppose lui.

«Tu potresti andare al governo, Ducon», disse il cugino seduto, a bassa voce. «Potresti essere tu il reggente, invece di Domina Pearl.»

Quelle parole gli schiarirono subito la mente. Spostò lo sguardo oltre i compagni, sulla folla degli altri avventori, accarezzando il foglio e preparando il carboncino, come in cerca di un’ispirazione. Quelli seduti ai tavoli accanto discutevano appassionatamente, dimentichi di tutto il resto. Nessuno aveva l’aria di ascoltare le conversazioni degli altri, salvo forse la donna snella che vestiva un abito di broccato nero fuori moda, dal cui enorme cappello simile alla testa di un fungo pendeva una veletta che le nascondeva il viso. Stava appoggiata al muro, a poca distanza da lui, e si faceva languidamente aria con una mano chiusa in un guanto di pizzo nero. Di fronte a lei due uomini con il volto arrossato e nastri neri sulle maniche chiacchieravano, a voce alta e con enfasi, di due argomenti del tutto diversi. Lei sembrava allontanare da sé le loro parole con la mano, come se fossero zanzare.

Ducon schizzò con gesti rapidi la sua figura, pur avendo solo quella mano e poco d’altro a identificarla come una persona umana. «Voialtri non conoscete Domina Pearl», disse. «È una vecchia tarantola astuta, e tesse la sua tela a Ombria da più tempo di quanto chiunque possa ricordare.»

«Non potrà vivere per sempre.»

Lui inarcò un sopracciglio, disegnando una delle spille del largo cappello nero. «Io credo che sia morta un secolo fa. Ma ha trovato il modo d’imbrogliare la morte e mandare in giro le sue ossa per i suoi scopi.»

Una mano si posò sul suo polso, fermando il carboncino. «Ducon…» Il cugino si piegò verso di lui e le sue dita si strinsero. Aveva occhi blu, freddi e brucianti allo stesso tempo. «Per quanto tempo lascerà vivere Kyel Greve? Chi salirà al trono dopo di lui? Te lo dico io: uno di quei decrepiti prozii del bambino, che cadrebbe a pezzi se Domina Pearl lo guardasse storto. E questo sarebbe forse un bene per Ombria? Può darsi che tu sia di discendenza dubbia, da parte di padre, ma hai cervello, conosci Ombria, e sai come agisce Domina Pearl. Strappale il potere. Noi ti aiuteremo. Trova un modo, mandaci a dire come, e noi faremo tutto quello che vuoi.»

Ducon prese il carboncino con la mano libera e delineò il contorno del viso che gli sembrava di poter indovinare sotto la veletta. «Lei mi ucciderebbe», disse seccamente. «Oppure ucciderebbe Kyel, se io la minacciassi.»

«In tal caso», disse il cugino, con un tono che sembrò un sospiro, «Kyel non ti starebbe più tra i piedi.»

Il carboncino di Ducon si fermò. Il giovane scrutò quei fieri occhi blu, chiari come il peltro del boccale e altrettanto inespressivi. Finì il vino con un gesto brusco e si alzò.

«Questo non è il posto adatto per parlarne. Lei ha orecchi dappertutto, li fa crescere come funghi.» Toccò un braccio dell’altro. «Venite con me.»

Condusse il gruppo fuori dal locale e lungo le stradicciole affollate, fino al mare.

All’estremità di un vecchio molo incrostato d’alghe, dove potevano vedere attraverso le tavole sconnesse le onde rompersi tra i pali consunti sotto di loro, li lasciò parlare ancora. I magazzini della riva erano vuoti, e così anche quella zona del porto, dove c’erano soltanto due barche da pesca e una delle nere navi pirate che stava per attraccare ai moli ben sorvegliati di Domina Pearl. Intorno a Ducon stava una dozzina di giovani nobili dall’aria frustrata, che per qualche ragione a lui incomprensibile sembravano aspettarsi che fosse in grado di salvarli dalla Perla Nera.

«Perché io?» domandò, di punto in bianco. «Io sono il bastardo della Casa di Greve, uno che non può neanche dire chi è suo padre. Perché non uno di voi? O volete solo usarmi per liberarvi di Domina Pearl, e poi dichiararmi illegittimo?»

Nei loro occhi vide una genuina sorpresa. «Lo sappiamo benissimo che sei un bastardo», rispose con franchezza uno di loro. «Ma nessuno di noi è molto in alto nella linea di successione. Se vogliamo una cosa, dovremo prendercela. Ecco chi siamo noi. E nessuno dei nostri padri è abbastanza forte da contrastare quella donna. Gli eredi più vicini al trono sono altri, dei vecchi con un piede nella fossa, che tremano di paura al pensiero della facilità con cui Domina Pearl li seppellirebbe vivi. Chi altro può sfidarla, se non tu?»

«E come? Con un pennello? A lei basterebbe dare il mio nome a uno dei suoi pirati, se sospettasse che sto complottando per toglierla di mezzo. E non so cosa potrebbe fare a Kyel.»

«Kyel è una cosa sua, adesso», disse il cugino dagli occhi spietati. «Domina Pearl ha dieci anni di tempo prima che a lui cominci a spuntare la barba. Per allora sarà diventato un burattino dipendente dalla volontà di quella donna. Kyel è perduto per noi. Non puoi contare su di lui in nessun modo.»

Ducon tacque, ammutolito dalla verità di quelle parole. Poi si rese conto che loro credevano che li stesse valutando e soppesando, mentre spostava lo sguardo dall’uno all’altro. Sospirò. «Lasciamo da parte Kyel. Consideriamo un momento la Perla Nera. Quella donna ha un’origine misteriosa, e poteri che nessuno capisce. È senza scrupoli, imprevedibile, e ha fatto marcire Ombria come questo molo.» Si chinò a raccogliere una conchiglia incastrata tra le assi, e la gettò in mare. «Vi aspettate che io mi batta contro i suoi masnadieri?»

«Sì.»

«E con quali armi? Quali uomini?»

Gli altri tacquero, ma non si lasciarono dissuadere. Dopo un momento uno di loro scrollò le spalle. «Anche tu hai origini misteriose. E sei l’unico tra quanti abitano nel palazzo a non essere terrorizzato dal solo pensiero di quella donna. Tu trova il modo di liberare Ombria da lei, e noi ti aiuteremo. Ti sosterremo anche contro il volere dei nostri genitori e della Casa di Greve. Tu diventerai principe di Ombria, e noi ti riconosceremo tale. Poi potrai rimettere a nuovo questi moli e fare ciò che vorrai. Una volta Ombria era una bella città, grande e nobile. Noi non l’abbiamo mai vista così, ma i nostri padri ricordano il passato. Vogliamo che quei tempi ritornino.»

La nave dalle vele nere si avvicinava a terra. Ducon si rese conto che tutti loro erano ben visibili e riconoscibili a un pirata munito di cannocchiale.

«Siete ubriachi, per caso?» domandò. «Voi non avete un’idea di quanto sia pericolosa. Può darsi che non viviate abbastanza per tornare ai vostri letti, questa notte.»

La mano che lo afferrò per una spalla era quella forte e decisa del cugino dagli occhi blu. «Libera Ombria dalla Perla Nera. Aiutaci a riavere la nostra città. Tu lo farai, se sei un vero erede della Casa di Greve. Oppure morirai nel tentativo. Trova il modo, Ducon Greve.»

«Kyel…»

La mano s’indurì. «Lascialo perdere», disse sottovoce il cugino. «Non pensare a lui. Fai quello che devi per salvare Ombria. Quella donna non deve avere potere su di te attraverso il bambino. Non deve dominarti usandolo come ostaggio. Agisci per te stesso e per Ombria, non per lui. Lei ha messo le mani sul cuore del bambino, e ci metterà radici. Ti conviene aver paura di lui. Kyel potrebbe portarti alla morte.»

Lui si scostò da quella fervida presa, e guardò la nave. «Quella potrebbe portarci alla morte tutti quanti.»

«Devi darci una risposta, adesso.» C’era sia una minaccia, sia una supplica in quella richiesta.

Lui abbassò lo sguardo. Attraverso le assi spaccate del molo vide gli ultimi riflessi del sole al tramonto morire tra le acque torbide, mentre su di loro scendevano le ombre della sera. «Andatevene a casa», disse. «Dimenticate tutto ciò che mi avete detto. Quando avrò bisogno di voi, vi troverò. Ho disegnato tutte le vostre facce.»

Vide che questo li lasciava di malumore e insoddisfatti, ma non c’era niente che qualcuno di loro potesse fare, e si avvicinava la notte di Ombria. Li seguì verso la banchina, dove i pilastri del molo spuntavano dalla sabbia. Uno strano refolo scuro gli fece abbassare lo sguardo, e scrutando attraverso un buco tra le assi ebbe l’impressione che un’ombra si spostasse sotto di lui. Ma era già scomparsa prima che se ne accorgesse, e quando andò a guardare giù oltre il bordo del molo non vide impronte sulla sabbia.

Загрузка...