27 La città-ombra

Ducon dovette lottare per aprirsi la strada nella fessura che era la porta invisibile della Perla Nera. All’interno del palazzo, perfino l’aria negli interstizi tra le assi e le pietre sembrava schiacciata da una forza misteriosa. Respinse con fermezza il timore che le travi crollassero e s’insinuò tra i mattoni mentre lottavano per chiudersi, in quello stretto corridoio temporale che comunicava con la camera segreta della donna.

Abbandonando là tutte le sue cose, lei lo aveva lasciato in una trappola. La porta alla fine di quel corridoio stava diventando sempre più piccola, con strani angoli che si chiudevano su cieche iridi e bordi in fusione. Ducon la raggiunse giusto prima che fosse troppo piccola per consentire il passaggio.

Quando emerse da quella piccola tasca temporale ebbe la sorpresa di sentire che il pavimento tremava sotto i suoi piedi. Dunque, oltre l’attacco della maga, stava accadendo qualcos’altro. L’antico edificio si contorceva e mugolava come un animale che si era svegliato in preda agli incubi. Uscì dall’anticamera nei passaggi segreti dove la Perla Nera aveva costruito la porta e quello che vide lo indusse a fermarsi, deglutendo a vuoto. Da lì era passata la morte. Nel corridoio giaceva suo cugino coperto di sangue. Si vedeva ancora il graffio che la sua spada gli aveva lasciato sul collo. Ducon raccolse l’arma dalle sue dita fredde e tese le orecchie. Ma nei corridoi non si udiva altro che il tintinnio dei prismi di cristallo di un grande candeliere. In fretta corse via, verso il cuore del palazzo.

Non si aspettava che sarebbe stato attaccato dalle guardie della Perla Nera. La prima che si trovò davanti lo aggredì subito, e per poco non riuscì ad affondargli la spada nella spalla. Ducon dovette così constatare che la reggente, non avendo più niente da perdere, aveva ordinato agli uomini che teneva sotto incantesimo di uccidere anche lui. Si difese con la forza della disperazione, ma la sua immagine, trasmessa da quegli occhi privi di mente, attirò altre guardie. Il giovane udì le loro grida in qualche corridoio non molto lontano, e il rumore di passi in corsa sui pavimenti polverosi. Il palazzo si scrollò ancora. I vecchi candelabri appesi ai muri si accesero all’improvviso. Ducon si chinò per evitare un fendente diretto al volto e sentì uno stupefacente odore di viole.

Ma era un sogno, una favola da bambini. La soglia attraversata da Lydea l’aveva portata alla morte; il silenzioso individuo col suo volto, imprevedibilmente uscito dal passato, era solo un fantasma. Lui aveva visto abbastanza spettri in casa della maga da saperne riconoscere un altro. Il soffitto sopra di lui cigolò; una trave che prima aveva ceduto si era raddrizzata tornando integra. Distratto da quella circostanza, Ducon fu costretto a ricordare che lui ne rischiava una molto sgradevole, quando la spada della guardia gli squarciò una manica spillandogli sangue dal braccio. Balzò indietro. La spada lo mancò, mentre il pavimento sussultava ancora, e la guardia scivolò al suolo. Lui ne approfittò per voltarsi, e fuggì.

Prese le scale più vicine e corse al piano di sopra. Da lì proseguì fino alle antiche soffitte dai tetti che lasciavano passare la pioggia e il vento, dove i piccioni avevano fatto il nido tra le travi. Ora non udiva più le guardie correre lungo i corridoi e spalancare a calci porte chiuse da secoli. Ma sapeva che alla fine lo avrebbero raggiunto, come avevano raggiunto Lydea, e anche lui sarebbe stato costretto a saltare nell’ignoto. Poco dopo trovò la porta con un montante danneggiato e l’altro dipinto con i colori dell’arcobaleno. Era ancora lì. La tenebra oltre la soglia appariva assoluta.

«Te l’avevo detto», disse la voce della Perla Nera, dietro di lui. «Lo sapevo, che sarebbe venuto qui.»

Ducon si girò di scatto, dando le spalle al buio, e alzò la spada. La donna si era rivolta a Camas Erl, il quale lo guardava con bruciante curiosità, come se non lo considerasse umano bensì una forza innominabile di cui non si potevano prevedere i movimenti. La Perla Nera, che continuava a perdere pezzi come se avesse messo insieme il suo corpo con dozzine di frammenti di cadavere male incollati, lo fissava con astio.

«Lui ha disegnato questa porta molte volte», continuò la donna. «Qualcosa lo attirava qui. Disegna per noi, Ducon. Disegna una porta per noi, al suolo. Tu hai quel carboncino. Lo porti sempre con te.»

Il grande palazzo tremò. La città visibile oltre i vetri polverosi della finestra si annebbiò, poi tornò di nuovo nitida. Lì, in quell’antica stanza da cui lo sguardo spaziava sul dedalo di stradicciole contorte, e sui moli che marcivano sotto il sole abbagliante in riva al mare, Ducon sentì che il cuore gli cedeva.

«Questo non è un posto per voi», le disse, stancamente. «È qui che Lydea e Kyel sono morti. Credete forse di poter andare là dentro e tornare alla vita?»

«Disegna una porta.»

«La porta c’è già, ed è aperta.»

«Ne sei sicuro?» domandò Camas Erl, scrutandolo. «Tu hai visto posti del genere tutta la vita. Li sai riconoscere. Cosa ti attira fino a essi?» Ducon non rispose, con la spada ancora sollevata come a proteggere l’ingresso di un altro e più tranquillo mondo dove i suoi fantasmi erano andati a vivere. «Sono ombre», proseguì il cortigiano. «Tu disegni ombre. La città-ombra.»

«Sì», rispose Ducon, «ombre. La città ne è piena.»

«Come si arriva là?» Camas fece un passo verso di lui, eccitato. La spada si alzò a fermarlo. Domina Pearl sputò saliva verde e l’arma volò via dalle mani del giovane, mezza fusa, andando a rotolare in fondo alla stanza.

«Forse io sto morendo», lo avvertì, «ma ho ancora i miei poteri. Per te è la fine. Morirai da questa parte della soglia, oppure dall’altra. Puoi scegliere.»

«Può darsi, ma non disegnerò nessuna porta per voi.»

«Sì, lo farai, invece», disse dolcemente Camas. «Perché per tutta la vita hai disegnato porte per trovare questa. E sai che non puoi morire senza sapere se avevi ragione nel sospettare che se quella è la porta, la soglia tra i mondi, tu sei la chiave. Kyel e Lydea sono vivi o morti? Potrebbe esser vera una qualsiasi di queste due cose, là oltre quel buio. Disegna la porta-ombra lì per terra, e scoprilo.»

Ducon sentì che una porta si apriva da qualche parte, dentro i suoi pensieri; attraverso quella soglia vide se stesso. Il palazzo si scosse ancora, facendoli barcollare. Lui se ne accorse come da grande distanza, anche se aveva perso l’equilibrio ed era caduto in ginocchio. Restò in quella posizione, lasciando una ditata di sangue sul pavimento. Non rispose, ma tirò fuori di tasca il carboncino e cominciò a tracciare il contorno di una porta davanti all’altra, dove l’ombra di quel rettangolo sarebbe caduta se il buio avesse potuto gettare un’ombra.

Mentre disegnava ripensò agli strani posti, agli inaspettati vicoli, alle tortuose stradicciole che aveva visitato. I disegni e i vagabondaggi di una vita l’avevano portato a quel momento, inginocchiato lì ai piedi della Perla Nera, per darle l’ultimo disegno che avrebbe mai fatto. Lei e Camas avevano concepito l’idea della porta-ombra; a lui non sarebbe mai venuta in mente. Ma era stato lui, con le sue misteriose compulsioni, col suo occhio per ciò che era oscuro, ambiguo, paradossale nelle loro vite, era stato lui col suo carboncino a condurli a quella conclusione. Forse Lydea era saltata nel vuoto e morta oltre quella porta scura. Ma la Perla Nera voleva un’altra porta: l’ombra di quella porta, aperta alla luce.

Le dita della sua mano destra diventarono nere, spargendo carbone sull’ombra. L’unico punto su cui non lo passò fu dove appoggiava l’altra sua mano, la cui impronta perfetta rimase chiara sul rettangolo nero nel punto dove poteva esserci la serratura. Questo lo fece perché sperava che Domina Pearl gli permettesse di essere lui ad aprire quella porta.

Aveva visto giusto. Non appena la forma sul pavimento fu piena di tenebra e il suo carboncino esitò, non sapendo dove metterne altra, Ducon sentì alla gola la lama della spada che lo costringeva ad alzarsi. La Perla Nera aveva chiamato le sue guardie, ed esse lo circondarono, spiando con i loro folli occhi privi di emozione ogni suo gesto.

«Scegli, nobile Ducon», disse la donna. «La morte immediata qui, oppure la lunga caduta verso l’ignoto… o forse, chissà, la salvezza in una cantina del palazzo, se sarà quello il posto che ti aspetta oltre la soglia.»

Alzandosi, lui si voltò a guardare il buio, per non portare con sé nell’oblio il ricordo del viso di lei. Il pavimento si contorse come se il palazzo volesse strapparsi via dalle fondamenta e allontanarsi dalla città condannata. L’oscillazione gettò di nuovo Ducon in ginocchio sul carbone. La sua mano sinistra cercava soltanto un punto d’appoggio quando lui la protese, disperato, a incontrare la sua ombra chiara su quella porta.

Essa si aprì.

La luce fiottò intorno a lui, abbagliandolo. Sentì Camas gridare di stupore. La Perla Nera sbottò qualcosa. Un insostenibile raggio di fulgore argenteo avvolse Ducon, e sotto la luminosa energia su cui si trovò inginocchiato non c’era niente che lui potesse vedere o capire, a parte il fatto che si trattava dell’opposto dell’ombra.

Poi una mano lo afferrò, tirandolo fuori dalla luce. Sbatté le palpebre per scacciare il bagliore, e vide se stesso.

E non se stesso.

Per la prima volta Ducon poté vedere lo scintillante flusso di potere che seguiva come un mantello l’uomo liberato dal suo carboncino in una taverna di Ombria. Era anche dentro i suoi occhi argentei, e dava loro una sfumatura più scura. Il giovane cercò di parlare ma non poté. L’uomo lo studiava in silenzio. Il tempo e la sofferenza gli avevano scavato rughe intorno alla bocca, lasciandogli ombre di stanchezza nelle orbite. Teneva ancora Ducon per un braccio, e le sue dita lo strinsero un poco, quando disse: «Non somigli per niente a tua madre».

«Somiglio a te», sussurrò lui.

«Puoi vedere come sono.»

«Sì.» Lui smise di deglutire. «Ora ti vedo. Prima non ci riuscivo bene.»

«Tu mi hai disegnato, in città. Ma creato da te, io ero l’ombra di me stesso. Essendo polvere di carbone non potevo parlare. Potevo solo vegliare su di te.»

«Vegliare su di me», annuì Ducon. Si accorse che intorno a loro altre figure, uscite da altri disegni, avevano riempito la stanza e si stavano battendo con le guardie affatturate. La porta-ombra, accesa come un sole, aveva illuminato l’impenetrabile nero dinanzi a essa. Sembrava che ne uscisse un esercito, accompagnato dall’odore della pioggia e dell’erba, e dall’aspro gracchiare dei corvi. Tenendogli una mano su un braccio, suo padre protendeva all’indietro una spada, per guardargli le spalle. Ducon udiva i rumori del combattimento come da lontano; non riusciva a distogliere lo sguardo dal volto del mago.

«Mia madre ti ha ritrovato?» gli domandò. «O tu hai trovato lei?»

«Tua madre passò oltre la soglia per cercarmi. Come te, era stata attirata da questa porta.»

Una mano di Ducon si strinse bruscamente sul polso del padre, mescolandosi con la sua aura. «E sopravvisse?»

«Sopravvisse tanto da concepirti e darti alla luce. Ciò che le accadde dopo, io non l’ho mai saputo. Lei fece ritorno alla soglia, per mostrarti a me. Poi non la rividi più, anche se feci di tutto per ritrovarla… finché sentii che era morta. Sapevo che tu vivevi, nel mondo di lei, ma finché non mi hai disegnato io non avevo mai rivisto il tuo viso.»

«Il giorno che tu apparisti qui, io ti venni dietro. E tu mi guidasti a…» Un’ombra scomparve dai pensieri di Ducon; il baluginante mantello di potere lo illuminò. «Mi guidasti da Faey.»

«È così che si chiama? La maga che abita nel sottosuolo? Noi non l’abbiamo mai saputo.»

«Tu cosa sei, nel tuo mondo?»

«Io governo, nel mondo riflesso. Non vivo nel sottosuolo, e anche se ho poteri magici non sono immortale.» L’uomo lasciò il braccio di Ducon. «Tu sembri aver ereditato il mio potere. Puoi riconoscerlo, ed emerge dai tuoi disegni. Ma tu non sei un mago, vero?»

«No. Sono solo un uomo con un carboncino da disegno.» Ducon sussultò quando dietro di lui cominciò a svolgersi un furioso duello di spade. L’elusivo e scintillante mantello di potere si strinse intorno a loro, offuscando le figure che si battevano e il rumore.

«La porta è aperta per sempre, ora?» domandò, senza sperarci troppo. «Tu puoi restare?»

«Noi siamo venuti perché nella tua disperazione hai trovato il modo di aprire una porta tra i nostri due mondi. Il mondo-ombra è la tua speranza. Quando non sarai più disperato e non avrai bisogno di noi, svaniremo e tu ci dimenticherai. Ogni volta che la maga del sottosuolo è abbastanza disturbata da uscire nel mondo di sopra, travagliato e sconvolto, questo altera l’equilibrio tra la disperazione e la speranza, tra la luce e l’ombra. Così, lei ci trascina nel vostro mondo, per ristabilire l’antico equilibrio tra noi. Ma sei stato tu a cercarci con i tuoi disegni, tu a vedere nell’ombra, tu ad aprire la porta.»

«Camas aveva intuito qualcosa di simile», disse Ducon, con amarezza. «Ti dimenticherò, allora? È successo anche a mia madre? È per questo che non parlava mai di te?»

«Forse», rispose suo padre. «O forse no. Io non l’ho mai dimenticata. Altri figli dei due mondi sono nati prima di te. Essi restano sempre nel loro mondo natale. Ma, come te, sono attratti dal mondo al quale in parte appartengono.»

«Mia madre tornò nel nostro mondo attraverso questa porta?»

«Sì. Era il posto a cui sentiva di appartenere.»

«Il mio giovane cugino…» Ducon aveva un groppo in gola; si sforzò di ignorarlo. «Mio cugino è… o era… il principe di Ombria, e la donna che voleva portarlo in salvo si è gettata con lui oltre quella soglia. Anche loro appartengono a questo mondo. È possibile riportarli qui… vivi?»

Suo padre ci pensò un poco. Il velo di luce che li circondava tornò abbastanza trasparente da consentire a Ducon di vedere che qualcuno si batteva ancora nella soffitta. Due o tre guardie s’intestardivano a ubbidire agli ordini della Perla Nera. Ma lei non si vedeva da nessuna parte. Anche Camas Erl se n’era andato, nei labirinti segreti del palazzo oppure nelle strade di Ombria, dove la sua padrona non avrebbe trovato porte che potessero salvarla, né letti, fuorché quello che sarebbe stato l’ultimo della sua vita.

«Disegnali», suggerì suo padre. Ducon si avvicinò al muro dove si apriva la porta e alzò il carboncino.

Le prime linee che tracciò raffiguravano però un viso che non era quello di Kyel, né di Lydea. Il giovane alzò l’altra mano per cancellarlo, ma quegli occhi sembravano guardarlo per dargli un messaggio, e dopo una pausa, stupito, ricominciò a disegnare. Quando il carboncino diede forma a uno spillone infilato tra i capelli si fermò ancora, preoccupato da ciò che poteva esserle accaduto e chiedendosi se anche lei fosse in qualche modo svanita oltre la porta. Poi l’oscura aura di colori che aleggiava intorno al carboncino diede a quegli occhi un’espressione che gli fece capire come stavano le cose.

«Chi è questa ragazza?» domandò suo padre. «Ha qualcosa, dentro, che ti somiglia.»

«È Mag», rispose Ducon. «Ci sta guardando.» Si spostò sull’altro lato della porta, dove l’arcobaleno ornava il montante intatto, e raccontò a suo padre la storia di una bambola di cera, mentre la sua mano disegnava le altre due facce che aveva nel cuore, e il mondo che lui aveva conosciuto trovava la sua conclusione.

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