8 Mascherata

La cerimonia dell’incoronazione fu semplice e breve, rispetto alle tradizionali usanze di Ombria, ma sembrò interminabile a Ducon Greve. Data l’età e la scarsa capacità di sopportazione del giovane principe, Camas Erl aveva tagliato molte parti secondarie del rituale, compresa la parata del governatore appena incoronato attraverso la sua città. Considerato l’umore cinico e disperato della gente, Ducon la giudicò una decisione prudente.

Nella grande sala, guardò i nobili sfilare l’uno dopo l’altro davanti a Kyel, per giurargli fedeltà e dichiarare che riponevano in lui tutta la loro fiducia. Quelle parole rituali, ripetute più volte, finirono per sembrargli monete false gettate al suolo nell’ombra della Perla Nera. Nessuno aveva più fiducia in niente, se non in un futuro incerto e sgradevole, e l’unica fedeltà che lì veniva offerta era veritiera quanto poteva esserlo quella nata dalla paura.

L’espressione torpida del bambino cambiò solo una volta, quando fu Ducon a inginocchiarsi dinanzi a lui. Nei suoi occhi apparve una luce di sollievo e di speranza. Ascoltò con attenzione il giuramento rituale, con l’aria di prendere alla lettera ogni parola e di aspettarsi che Ducon avrebbe tenuto fede a quell’impegno.

La vedova nera che giorno dopo giorno avvolgeva più strettamente Kyel nella sua tela stava accanto al trono, e Ducon intuì che non ascoltava neppure le parole dei nobili; ciò che le interessava era l’espressione delle facce, il tono delle voci, i sottintesi che c’erano dietro, e si stava stampando nella memoria il nome di tutti quelli che non le erano sembrati abbastanza spaventati da restare ben lontani da ogni forma di protesta.

La nervosa cerimonia d’incoronazione fu seguita da un pranzo ufficiale e poi dal ballo di gala, entrambi alquanto lugubri. Tutti danzarono doverosamente, per tenere in piedi l’illusione di continuità e di speranza; nessuno, per quanto disgustato da quell’atmosfera, pretese di sapere, con precisione, cosa si stesse celebrando. Ducon restò in un punto dove Kyel poteva vederlo, a un tavolo presso il trono. Camas Erl, con la lunga chioma castana scarmigliata come se per tutta la durata della cerimonia si fosse messo le mani nei capelli, venne a fermarsi accanto a lui.

«È stata anche troppo lunga», gli sussurrò, scrutando accigliato il nuovo pupillo. Kyel sedeva su un trono coperto di fiori e seta dorata, con i piedi penzoloni, gli occhi gonfi dopo i pianti di quella notte, e aveva in precario equilibrio sulla testa una corona frettolosamente modificata sulle sue misure. La Perla Nera continuava a stare accanto a lui. Negli occhi del bambino lampeggiava una rabbia trattenuta a stento. «Ho amputato i discorsi dei ministri e delle autorità cittadine; ho eliminato l’intero rituale dell’incoronazione del reggente, salvo quell’unica frase. Ho frugato nella storia di Ombria fino all’epoca più lontana; questa cerimonia è stata rozza come quelle dei primi principi barbari. E guardalo, adesso. Si può quasi sentire l’odore del fulmine che sta per esplodere.»

Ducon bevve un sorso di vino. «È stata un’esperienza dura, in queste circostanze», disse sottovoce. «Il mondo gli è appena crollato addosso.»

«Vai da lui.»

Il giovane scrollò le spalle. «A lei non piacerebbe.»

Il tutore lo guardò con aria di rimprovero. «Preferisci vederlo in preda a un attacco isterico?»

«Forse nessuno, qui, può permettersi di essere onesto», replicò Ducon, ma depose il boccale e andò accanto a Kyel. Poté sentire la Perla Nera rizzare il pelo nel vederlo lì; perfino la sua ombra sembrava essersi irrigidita. Lui si chinò ad appoggiare una mano sulla spalla del bambino, accostando il volto al suo. «Porta pazienza. Tra poco sarà tutto finito.»

Né Domina Pearl, né il principe aprirono bocca. La donna, con le labbra piegate in quello che lei pensava fosse un sorriso, gli lanciò un’occhiata d’avvertimento: Lui è mio, ora. Qui siamo in pubblico. I suoi occhi devono guardare me. Nelle pupille di Kyel brillava invece la luce minacciosa di un incipiente attacco di nervi, provocato dalla perdita del padre e delle persone care, e da tutti i cambiamenti che avevano sconvolto la sua vita. Il bambino stava per scoppiare in lacrime furiose e dare in escandescenze.

La mano di Ducon si strinse sulla sua spalla. «Disegnalo per me», sussurrò con voce intensa. «Me l’hai promesso.»

Kyel deglutì, fissando le coppie che ballavano svogliatamente. Domina Pearl ebbe l’imprudenza di far avvicinare con un gesto un cameriere che portava un vassoio di paste. Nel vederselo mettere davanti al viso, il principe alzò verso di lei uno sguardo stupito, sprezzante, ma tenne a freno l’impulso di rovesciarlo sul pavimento con un calcio.

Ducon tornò di nuovo tra i cortigiani. Conversò educatamente, ballò con un paio di anziane prozie, le restituì ai loro malinconici consorti, ed evitò con cura il pericolo rappresentato dai giovani cospiratori, i quali gli diedero la caccia da un gruppo all’altro con aria fiera e ansiosa ma non riuscirono mai a parlargli in privato.

La terza volta se ne liberò lasciandoli in un gruppo di ragazze, le quali avevano voglia di ballare e li separarono uno dall’altro. Ducon andò a fermarsi tra una dozzina di vecchi e innocui cortigiani le cui uniformi militari, cariche di decorazioni, avevano lo scopo — o così essi sembravano augurarsi — di distrarre gli altri dall’espressione cupa delle loro facce. Erano i rappresentanti delle più antiche e ricche famiglie legate alla corte di Ombria; molti di loro avevano ricoperto la carica di consigliere o di ministro nel governo del defunto principe. Domina Pearl, trasformando Kyel in una marionetta manovrata da lei, aveva fatto delle marionette di tutti loro. Quando Ducon li raggiunse stavano però chiacchierando pigramente di cose assai lontane dalle loro preoccupazioni: le riserve di caccia, le mute di segugi, le rendite delle terre intorno a Ombria e i problemi con i mezzadri da cui se le facevano coltivare. Un vassoio di vini e paste che aveva seguito Ducon fin lì passò tra di loro.

Uno dei più anziani, il Nobile Greye Kestevan, domandò, togliendosi un po’ di crema dai mustacchi: «Voi dipingete ancora, Nobile Ducon?»

«Ho poco d’altro da fare per passare il tempo», rispose lui.

«Sempre i soliti soggetti… le taverne e i vecchi angoli di Ombria?»

«Sempre i soliti soggetti.»

Kestevan aveva capelli bianchi come quelli di Ducon, intorno a un circolo perfetto di calvizie, e occhi scuri appesantiti da borse rigonfie. Guardò i colleghi e sostituì il suo bicchiere vuoto con uno pieno. Poi posò l’altra mano su un braccio del giovane, mentre una ragazza con un sorriso assai deciso si fermava davanti a loro in cerca di un cavaliere che la facesse ballare.

«No, lasciatelo a noi un momento. Non abbiamo ancora avuto modo di parlargli da dopo… da allora», le disse. «Dunque, Nobile Ducon, voi dovreste aver visto e udito cose interessanti, in quegli strani angoli di Ombria. Non è così?»

Ducon scrollò le spalle, ma la mano non lo lasciò. «Giro un po’ dappertutto. Come vi ho detto, non ho altro da fare…»

«Per passare il tempo, sì», lo interruppe in tono allegro un altro nobile, Marin Sozon. Non aveva molti motivi di essere allegro. Il folle volto umanoide di una manticora rampante sulla sua tunica sembrava rappresentare i suoi veri sentimenti. Era stato un ministro del defunto principe, e ogni tanto uno dei suoi più pungenti critici. La Perla Nera lo aveva già destituito di ogni potere.

Ducon, che si sentiva sulla schiena gli occhi della donna, dedicò la sua attenzione a un uovo sodo di quaglia fissato su una tartina. «Ma ora, forse», continuò Sozon, «visto che il principe è senza padre, trascorrerete più tempo con lui?»

«Ho trascorso metà della notte con lui», disse Ducon. «Ha avuto un incubo.»

«Vi ha chiamato Domina Pearl?»

«No. A volermi è stato Kyel. Anzi, dovrei dire ‘il principe’», si corresse. Fece un pallido sorriso. «Ancora non riesco a credere che mio zio sia morto, e che il mio cuginetto governi Ombria.»

«È comprensibile che non riusciate a crederci», disse un altro, il Nobile Hilil Gamelyn, accennando col bicchiere verso il trono del principe e la reggente accanto a lui, con la sua cupola di capelli ornata da un cerchio d’oro costellato di diamanti. La cupola sembrava più alta che mai. Ducon si chiese cosa ci nascondesse dentro, mentre Gamelyn lo sorprendeva aggiungendo in tono casuale: «Dal momento che non è vero».

«Ne convengo», annuì con calma Ducon dopo una pausa, consapevole della mano stretta sul suo gomito. «Ma date le circostanze è più opportuno fingere d’ignorarlo.» Finì il suo vino, depose il boccale su un vassoio e si liberò dalla presa. «E più sicuro», sussurrò.

Per un attimo le loro maschere si abbassarono, e lui vide le domande urgenti, e i calcoli pericolosi negli occhi che lo fissavano. Si allontanò dal gruppo; i cortigiani tornarono a chiacchierare, con voci e volti di nuovo privi di ogni emozione. Ma gli avevano detto molto, questo lo capiva. Loro non sapevano ancora a chi era fedele, e se la sua fedeltà finiva dove cominciava l’ambizione.

Il mattino dopo s’incamminò lungo i passaggi nascosti nei muri per vedere se Kyel gli avesse lasciato qualche commento alla cerimonia, nel cunicolo dietro lo specchio. Vi trovò alcuni disegni, confusi ed emotivi come sogni. Non indugiò lì per studiarli. Non aveva idea di ciò che lo specchio stava riflettendo in quel momento. Se là c’era Domina Pearl, e il fruscio di topi dietro lo specchio l’aveva fatta voltare, la donna avrebbe potuto ripensare a dove lo aveva trovato la notte in cui era scomparso con Kyel.

Negli stretti corridoi segreti prese una diramazione che lo portò fino a una porticina mimetizzata, dietro un cespuglio di felci giganti, in una piccola serra. Le pareti in vetro erano dipinte con graziosi tralci d’edera e di viti in fiore, punteggiati di fiorellini bianchi e viola tra rigogliosi grappoli d’uva. Di rado lì c’era gente, benché le piante fossero ben curate.

Ducon si avviò sul pavimento di marmo, anch’esso dipinto a motivi floreali, arrotolò distrattamente i disegni di Kyel, e quando usd dal portale spalancato si trovò davanti gli stessi cortigiani di cui aveva eluso le domande la sera prima.

Sembrava quasi che l’avessero aspettato, anche se nel vederlo furono sorpresi quanto lui. Ma non persero tempo, e prima che il giovane potesse proseguire con una scusa, lo riportarono nella serra, tra alcune panchine di marmo circondate di palme ben potate.

«Nobile Ducon», esordì Marin Sozon, nei cui freddi occhi azzurri non c’era più traccia di finta cordialità. «La Casa dei Greve non sopravviverà al governo di Kyel. Domina Pearl distruggerà lui, la sua famìglia e tutta Ombria. Ci vorranno anni prima che Kyel metta al mondo un erede, e comunque la sua consorte sarà scelta dalla reggente. La Casa dei Greve è finita. Io ho avvertito ripetutamente vostro zio su quella donna, ma lui non ha fatto niente. Voi cosa farete?»

Ducon sedette. I cortigiani che si strinsero intorno a lui, anziani e scuri in volto, erano una mezza dozzina. Avevano osservato per decenni il modo di agire di Domina Pearl, assai meglio dei giovani cospiratori, e nonostante la loro età erano molto più astuti e più dedsi di loro. Lui si accorse che stava accartocciando il rotolo dei fogli nascosti da Kyel. Li aprì, lisciandoli su un ginocchio, e disse loro cosa avrebbe fatto. «Io dipingo.»

Sentì un ansito. Greye Kestevan fu rapido a fermare la mano di un nobile iracondo, che stava per abbattersi sui fogli con un gesto sprezzante. «Se non altro», disse l’uomo, girando lo sguardo sui compagni, «lui non interferirà con noi.»

«Ci tradirà», sbottò Hilil Gamelyn, liberando il braccio dalla stretta di Kestevan.

«Io non posso fare niente per voi», precisò con calma Ducon. «Ma non farò niente contro di voi.»

«Lui dipinge!» Gamelyn colpì i fogli sul ginocchio di Ducon, facendoli cadere al suolo. «Bastardo. Voi non avete un nome, né appartenete a un posto; non offrite la vostra fedeltà a nessuno. Ci tradirete per salvarvi la pelle, se sarete costretto.»

Ducon lo fissò. «La mia fedeltà sta esattamente dove ieri ho giurato: nelle mani del principe di Ombria. Voi avete giurato come me, e ora state sputando su quel giuramento.»

«Essere fedeli al principe significa esserlo alla reggente», disse Kestevan sottovoce, con intensità. «Voi lo sapete.»

«Io so soltanto ciò che ho giurato.» Si alzò e li spinse da parte, per raccogliere i disegni. Nessuno lo fermò. Era mezza testa più alto del più alto di loro, e in possesso di tutto ciò che occorreva per aggirarsi da solo nei pericolosi bassifondi, e questo li rese cauti. Recuperando un foglio dal vaso di una palma, aggiunse: «Su una cosa avete ragione: io sono un bastardo senza nome e senza poteri. Perché venite a cercare me?»

Gli altri lo guardarono in silenzio mentre raccoglieva l’ultimo disegno e si rialzava. Sozon rispose, secco: «Perché nessuno vi conosce. Nessuno sa cosa volete. Né cosa fareste, se decideste di correre un rischio».

«Ombria è un albero che dà frutti d’oro, e questo albero è sorvegliato da un drago. Chi ucciderà il drago, avrà l’oro. Non c’è bisogno di avere un nome per riuscirci. Bastano il coraggio, l’intelligenza e la forza.» Mormorò Kestevan.

«Ed è per questo che io dipingo. Conosco bene il drago. Voi fate quello che dovete. Ma ricordate che la Casa di Greve è ancora più viva che mai, e che io le ho giurato fedeltà. Se colpirete Kyel, io faro quello che dovrò fare.» Detto questo uscì, lasciandoli ad arrovellarsi su qualunque ambiguità avessero trovato in lui.

Mentre si lasciava la serra alle spalle si disse che comunque era ancora vivo. Ma non poté evitare di domandarsi per quanto tempo ancora. Era scosso, irritato, spaventato, e non badava a dove metteva i piedi. Svoltando verso le scale per salire nel suo alloggio urtò un cortigiano che stava scendendo, e i disegni di Kyel si sparsero al suolo un’altra volta.

Il Nobile Camas Erl, probabilmente diretto in biblioteca per trovare un po’ di pace e tranquillità, mormorò una parola di scusa e si chinò a raccoglierli. Girò uno dei fogli e restò a guardarlo, immobile. Non disse parola. Ducon li ordinò uno accanto all’altro sul pavimento e rimase lì in ginocchio a osservarli, accanto al tutore.

Ogni pagina conteneva la raffigurazione di qualcosa accaduto negli ultimi giorni. Una piccola casa bianca senza finestre, con un quadrato nero per porta. Una strana creatura senza arti simile a un bozzolo, con occhi umani chiusi. Dei dischi neri sparsi qua e là: perle, oppure occhi spalancati. Il carboncino era stato premuto forte sulla carta per ottenere quel nero. Una piccola rigida figura incoronata, con grandi occhi, ma priva di bocca. Altre figure, una delle quali con capelli lunghi fino al bordo della gonna: Lydea. Un’altra figura che aveva in mano un quadrato e uno stecco: carta e carboncino. Sulle loro teste aleggiavano dischi neri. Nell’ultimo disegno il disco nero riempiva il foglio, qua e là strappato dalla pressione del carboncino. In un angolo, fuori dal circolo, galleggiava un’altra figura, un nanerottolo con la corona in testa, dal viso tondo annerito e simile a un’altra perla nera.

Ducon udì un grugnito. Non si rese conto di esser stato lui a emetterlo finché sentì le dita di Camas su un braccio. Il tutore stava riunendo in fretta i disegni con l’altra mano.

«Non qui», disse soltanto. «In biblioteca. Là non c’è mai nessuno.»

Ducon si alzò e lo seguì senza dire una parola. L’uomo aveva detto il vero: la biblioteca, con i suoi eleganti scaffali in legno di rosa e vetro, era vuota. Il libro aperto su un tavolo e i fogli di carta appartenevano a Camas; il giovane riconobbe la sua indecifrabile calligrafia. Fu su quel tavolo che il tutore depose i disegni. Ducon strinse con forza le mani sullo schienale di una sedia.

«Se io la combattessi mi farei ammazzare», disse. «E Kyel resterebbe tra le sue grinfie. Se cospirassi ai suoi danni, metterei in pericolo la vita di Kyel. È appena un bambino, troppo vulnerabile. Loro troverebbero il modo di liberarsi di lui…»

«Loro chi?» Gli occhi gialli del tutore, a un palmo dai suoi, erano stupiti. «Ducon… loro chi?»

«Voi li avete visti», rispose lui a voce molto bassa. «Un gruppo di cortigiani.» Si chinò a sfiorare con un dito la figuretta del principe privo della facoltà di parola. Gli tremava la mano. «Io credevo che il solo pericolo venisse da lei.»

«Chi sono questi cortigiani? Ducon, chi?»

«Devo pensare a cosa posso fare.»

«Ma…»

«Devo pensare», insisté lui. Camas lo lasciò andare, e abbassò lo sguardo sui disegni. Aveva ancora gli occhi spalancati, come quelli di un gufo; sembrava ascoltare, dietro quei fogli muti, la voce di Kyel.

«Hai visto il principe, questa mattina?» domandò Camas. «È stato allora che ti ha dato questi fogli?»

«No. Abbiamo un posto segreto; li ho trovati là. Almeno, io credo che sia segreto. Ma potrebbe essere un’illusione.»

«Vorrei che ti spiegassi meglio», lo pregò Camas. «Chi minaccia Kyel? Chi ti ha avvicinato?»

«Se io non agirò, non verrà fatto del male a Kyel. Se non parlerò, non tradirò nessuno.» Il giovane cominciò a riunire i fogli. Camas lo guardò, accigliato.

«E allora cosa farai?»

«Disegnerò.»

Lasciò il tutore in biblioteca e tornò nel suo alloggio. Il disegno che fece ritraeva le loro facce una accanto all’altra, la sua e quella del principe appena incoronato, come una promessa. Non aggiunse allusioni alla Perla Nera, per il caso che fosse lei a trovare il foglio, e lo lasciò dietro lo specchio per Kyel. Poi uscì dal palazzo e andò a zonzo nelle strade di Ombria, dove disegnò ombre per cercare la luce dentro di esse, fece schizzi di spessi portoni sbarrati mentre cercava nel loro legno corroso ciò che nascondevano, dipinse ad acquerello alte mura senza finestre come se, smontandole pietra per pietra sulla carta, potesse abbatterle e vedere finalmente la vita segreta che c’era dietro.

Rientrò a ora tarda, scarmigliato e anche un po’ ubriaco, con le mani sporche di carboncino e di pastelli. Scese negli alloggi della servitù, dove c’erano poche guardie, e lì aprì la porta di un passaggio segreto; poi salì fino al cunicolo dietro lo specchio per vedere se Kyel avesse trovato il suo disegno.

Il foglio non c’era più. Ma steso per terra c’era il messaggio che Domina Pearl aveva lasciato per lui: il cadavere di un uomo con la faccia coperta da una fronda di palma. Col fiato mozzo e la gola secca come se avesse ingoiato il carboncino, Ducon si chinò a scostare la fronda di palma.

Gli occhi del Nobile Hilil Gamelyn lo fissarono, pieni di rabbia nella morte come lo erano stati in vita. Aveva le labbra nere. Ducon si raddrizzò, vacillando; fece un passo indietro e deglutì il vino acido che una contrazione gli aveva fatto risalire dallo stomaco. I disegni gli scivolarono via da sotto il braccio e si sparsero sul cadavere come foglie: folli immagini di Ombria, angoli silenziosi e oscuri, sbarrati, nascosti alla vista.

Dopo un poco si chinò a raccoglierli, consapevole di ciò che doveva fare prima che Kyel aprisse di nuovo lo specchio. Se li infilò nella cintura, sollevò Gamelyn per le ascelle e lo trascinò via passo dopo passo, per un tempo che gli parve interminabile, finché raggiunse l’uscita segreta nella serra. Lì lasciò il morto, dietro le felci giganti, dove i giardinieri lo avrebbero subito trovato. Sapeva che i cospiratori si sarebbero fatti molte domande, e che probabilmente avrebbero finito per attribuire la responsabilità dell’atto, se non la sua stessa esecuzione, al bastardo che ormai sospettavano di essere un traditore.

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