7 Giochi di prestigio

Mag era sotto il palazzo dei governanti di Ombria. Aveva preso una diramazione sotterranea dopo il campo di girasoli, oltre il grande camino la cui canna fumaria sfociava lassù. L’acqua piovana e un canale fognario straripato avevano fatto crollare la facciata dell’edificio in cui c’era il camino, ma il suo retro si trovava a contatto dei labirintici scantinati del palazzo. Spinta dalla curiosità Mag si stava aggirando laggiù, da quelle che le sembravano ore, con una candela in mano. Le stanze più esterne erano molto ben rifinite e decorate, quasi che un tempo fossero esistite sopra la superficie come parte del palazzo, per poi affondare pian piano e assumere una loro funzione nel vasto insieme delle cantine. C’erano arcate di pietra sostenute da colonne spiraliformi, scarichi a forma di animali mostruosi che incanalavano l’acqua delle cucine e dei cessi, e bocche spalancate da cui l’acqua piovana fiottava nelle fogne. Qua e là sedevano cariatidi dalla forma umanoide, che, appoggiando il mento su una mano, contemplavano con aria annoiata e pensosa lo scorrere dei secoli, mentre sorreggevano ponticelli o rampe di scale.

Non c’erano fantasmi laggiù. Mag, muovendosi in silenzio come un’ombra verso le più frequentate cantine interne, si domandò se la singolare esistenza di Faey avesse risvegliato dei ricordi nei fantasmi che vivevano con lei. Ogni tanto udiva delle voci, echi improvvisi a cui le distorsioni del suono avevano tolto ogni forma coerente, nel passaggio tra il passato e il presente. Per molto tempo non trovò nessuna via per salire alla superficie.

Cominciò a sentire degli odori che non erano quelli della pietra e dell’acqua sporca. Alla luce della candela vide enormi urne, botti di rovere, vasche di liquidi lasciati lì a depositare. In una stanza buia c’era odore d’aceto, in un’altra di cuoio, in una terza d’olio da lampade. Attraversò un largo magazzino adibito a deposito per antiche carrozze. I veicoli erano allineati contro i muri, in ordine di anzianità. D’impulso lei salì a bordo di un elegantissimo cocchio dorato, sedette regalmente sul sedile di velluto rosso mangiato dalle tarme, appoggiò un gomito sul finestrino e pensò che quel veicolo doveva aver portato più di una principessa verso l’incoronazione.

Lei non aveva certo l’aspetto di una nobildonna. Indossava un abito nero, prelevato da una cassapanca nella soffitta di Faey e appartenuto forse a una serva. Così abbigliata sperava di poter passare per una governante o qualcosa del genere, se qualcuno l’avesse vista dietro una porta o giù per una rampa di scale. Non era stata mandata lì da Faey per qualche commissione. Era notte fonda, e la maga, con ancora addosso l’odore dei talismani a cui aveva lavorato fino a tardi, era piombata in un sonno così profondo che il suo viso, liberandosi dall’incantesimo di quel giorno, si era deformato come un sacco di patate. Il suo russare, riecheggiando nella città sotterranea, aveva seguito Mag fino a una distanza sorprendente. Se la maga avesse saputo ciò che la sua bambola di cera si proponeva di fare, l’avrebbe subito sottoposta alle opportune riparazioni.

Mag aveva deciso di esplorare il palazzo, scoprire i suoi più antichi cunicoli, le soffitte, i solai, percorrere le zone murate e dimenticate dei sotterranei, e apprendere i segreti noti soltanto a pochi vecchi servi e ai topi. Voleva conoscere quell’immenso edificio come conosceva le strade di Ombria. Voleva imparare a sparire dentro di esso, e a mimetizzarsi così bene che sarebbe apparsa, perfino all’occhio più acuto, non più interessante di un’ombra o di un riflesso metallico.

Voleva spiare Domina Pearl.

La giustificazione che accampava con se stessa era che le occorreva saperne di più su Ducon Greve, così, se la vecchia avesse commissionato a Faey un incantesimo per eliminarlo, lei avrebbe saputo se valeva la pena correre il rischio di proteggerlo.

Dai discorsi dei giovani cospiratori uditi alla taverna del Re degli Incapaci, e più tardi attraverso le tavole del molo, si era fatta l’idea che la morte di Kyel sarebbe stata la cosa più conveniente per Ducon, se questi avesse congiurato per conquistare il potere. Lei non aveva mai visto il bambino, tuttavia era abbastanza certa che uccidere l’erede legittimo di Ombria per usurpargli il trono sarebbe stato l’ultimo chiodo piantato sulla bara delle speranze della città. Lei non voleva aiutare Faey a uccidere qualcuno, ma non voleva neppure veder morire Ombria. Come terzo aspetto di quel dilemma a più facce, dove la posta in gioco era una corona, c’era l’ipotesi che Ducon si convincesse a cercare un modo per fermare Domina Pearl. In questo caso Mag pensava di poter trovare un modo per aiutarlo prima che Faey lo uccidesse.

Questo era ciò che si stava dicendo. Ma in realtà Ducon Greve era una scusa, perché il suo vero obiettivo era Domina Pearl, e così procedette come se ogni passo sbagliato rischiasse di portarla sotto gli occhi della Perla Nera.

Non dorme mai, la vecchia tarantola? si domandò Mag. Oppure era troppo rinsecchita per aver bisogno di sognare? Chi poteva essere sveglio a quell’ora? Guardie, paggi, alcuni cuochi già impegnati a preparare il banchetto dell’incoronazione per l’indomani, e forse qualche carpentiere incaricato di sistemare la sala da ballo, anche se Mag dubitava che i cortigiani avessero voglia di divertirsi in occasione dell’ascesa al potere della Perla Nera.

La sua candela era diventata un mozzicone. Mag scivolò fuori dalla carrozza e andò a cercare le bottiglie: le grandi rastrelliere dove invecchiavano i vini che un principe pretendeva per le sue cene, e che dovevano essere raggiungibili in fretta dai camerieri di servizio nel salone.

Quando ebbe trovato la cantina dei vini, infatti, vide subito la stretta scala che saliva direttamente nelle cucine. Si avviò su per gli scalini, con le orecchie tese, e quando fu in cima udì delle voci che si avvicinavano. Soffiò sulla candela e poi fu svelta a rannicchiarsi nell’angolo dietro la porta, proprio mentre il battente si apriva.

A entrare fu una donna grassoccia vestita di nero, al cui fianco tintinnavano dozzine di chiavi infilate su un grosso anello. Borbottando tra sé l’inserviente scese, accompagnata dall’ondeggiante luce di una lampada e lasciando la porta socchiusa. Mag ne approfittò per uscire e si trovò tra alcuni lunghi scaffali colmi di confetture e dolciumi, d’aspetto così appetitoso che si sentì invogliata ad assaggiarli. Presso il largo camino in cui rosseggiavano le braci, giaceva un pargoletto, che la guardò sbadigliando e subito richiuse gli occhi. Lei uscì in corridoio, andò ad aprire una porta, e la sua intrusione disturbò un uomo vestito di nero, in piedi dietro un bancone coperto da pezzi di formaggio e tagli di carne, che si stava pulendo gli occhiali.

L’uomo si rimise le lenti sul naso, ma lei non gli diede un’altra possibilità di vederla. Quando lui uscì dalla stanza, qualche momento dopo, lei era sotto un tavolo, l’ultimo posto dove l’altro si sarebbe aspettato di trovarla. Mentre l’uomo andava a guardare nella pasticceria, lei si allontanò nel corridoio.

La cucina, come lo scantinato, era un dedalo di stanze, ma lei ne esplorò in fretta alcune finché giunse in un vasto salone dove vari servi, assonnati e sbadiglianti, stavano disponendo sui tavoli delle tovaglie larghe come vele. Lei si tenne nell’ombra e camminò in fretta e con aria indaffarata verso l’uscita, sul lato opposto. Gli unici servi che si voltarono a guardarla lo fecero mentre la porta già si chiudeva alle sue spalle.

Il palazzo, a quanto sembrava, era attivo anche di notte come i bassifondi della città, e forse altrettanto pericoloso. Le guardie armate che stazionavano fuori dalla porta del salone la guardarono con occhi vuoti e inespressivi, come se non la considerassero di rango abbastanza alto da appartenere alla razza umana. Lei sentì i loro sguardi sulla schiena per tutta la lunghezza dell’interminabile corridoio. Quelli erano alcuni dei molti occhi della Perla Nera, comprese all’improvviso Mag, e scomparve giù per una scalinata marmorea, ansiosa d’allontanarsi da loro.

Quando fu in fondo alla scala vide un uomo uscire dal muro, attraverso una porticina abilmente mimetizzata.

Subito si appiattì contro la parete delle scale, e diventò un’ombra aggrappata alla vibrante ragnatela d’ombre giusto oltre il velo lucente delle candele accese sui candelabri a muro, presso l’angolo. L’uomo non notò gli occhi di lei che lo sbirciavano da dietro le fiammelle. Gettò un’occhiata furtiva su e giù per il corridoio. Le pareti e le porte erano in lucida quercia, sobriamente ornate. I candelabri, pochi e alquanto distanziati, erano altrettanto semplici. Si trattava dei quartieri dei servi, forse, silenziosi e poco illuminati; un posto sicuro.

Mag pensò incuriosita al motivo per cui qualcuno poteva uscire da un passaggio segreto nel mezzo della notte. Che intenzioni aveva?

Un ladro, o un amante reduce da una furtiva visita in qualche camera da letto, queste sembravano le uniche ipotesi. L’uomo era vestito di nero, come tutti quanti in quei giorni; nulla indicava quale fosse il suo rango. Aveva in mano un pacco di fogli, il che sembrava poco appropriato sia per un ladro che per un amante. Il primo foglio, coperto da un caos di spessi segni neri, sembrava il disegno di un bambino. Nell’altra mano teneva una candela, che sollevò verso la bocca per soffiarci sopra. Fu solo in quel momento che Mag poté vederlo in faccia, e restò sorpresa nel notare quanto fosse giovane nonostante i capelli bianchi. Gli occhi chiari e il gioco di ombre creato dalla candela in movimento davanti al viso gli davano un aspetto enigmatico. Mentre rimetteva la candela spenta in un candelabro — forse lo stesso, notò lei, da cui l’aveva prelevata — le ombre sul suo volto cambiarono e ciò le permise di identificarlo. Era il giovane che lei aveva spiato alla trattoria, mentre il carboncino stretto da quelle abili dita cercava di ricostruire i suoi lineamenti, ben poco visibili sotto la veletta nera.

Ducon Greve.

Mag lo seguì a distanza di sicurezza lungo alcuni corridoi in penombra, silenziosi e privi di sorveglianza. Accanto a una grande urna di marmo, sistemata in una stretta anticamera per nessuna apparente ragione, salvo che nessuno la volesse altrove, lui scomparve di nuovo. Lei vide apparire il rettangolo scuro di una piccola porta dietro l’urna, ma quando la raggiunse si era già richiusa, e non riuscì a capire come si facesse ad aprirla. Toccare tutti gli angoli e le sporgenze dell’urna non produsse nessun risultato. Poi sentì un mormorio di voci dall’altra parte del muro e vi posò contro un orecchio. Da qualche parte, oltre quel passaggio segreto, la voce di una donna rìse. Mag fece una smorfia. Ducon avrebbe potuto restare lì dentro fino all’alba.

Tornò indietro sui suoi passi fino allo scalone di marmo e per un poco cercò di muovere i candelabri o di spostare qualcosa nei pannelli di quercia, ma tutto ciò che ottenne fu di identificare la sottile fessura della porta nascosta dalla quale il giovane era uscito. Era così intenta a ciò che faceva che non sentì l’uomo sullo scalone finché lui non le rivolse la parola.

«Tu, laggiù, vieni con me.»

Per un attimo lei restò paralizzata. Poi si costrinse a muoversi e rivolse all’individuo un rigido inchino. Solo quando rialzò la testa fu in grado di vedere oltre il velo che l’improvviso spavento le aveva calato sugli occhi. Ma non si trattava di una delle guardie di Domina Pearl insospettita dal suo comportamento. Era un individuo grassoccio che sembrava essersi vestito troppo in fretta, con una borsa nera in una mano e un vassoio carico nell’altra. Mentre lei lo guardava, l’uomo fece un gesto impaziente col vassoio, un liquido traboccò da un bicchiere e lui imprecò.

«Aiutami. Prendi questo e vieni con me.»

Lei annuì senza parlare e si affrettò ad alleggerirlo del vassoio. Poi lo seguì al piano di sopra, in un corridoio ben illuminato e sorvegliato da molte guardie. Muri e soffitti erano ornati di stucchi assai elaborati, color crema e porpora, che rappresentavano grandi uccelli in volo e rose i cui petali sembravano aprirsi al loro passaggio. Anche le massicce porte di legno scuro lucidissimo erano scolpite a motivi floreali. Da dietro una di esse provenivano dei singhiozzi lenti e disperati.

L’uomo con la borsa nera si fermò di fronte a essa e bussò. I battenti si aprirono su una scena di caos domestico: due serve stavano cercando di togliere le lenzuola di seta da un enorme letto sopra il quale un bambinetto, dal pigiama sporco di quella che sembrava zuppa, piangeva inconsolabilmente. La serva che era venuta ad aprire, in camicia da notte, appariva preoccupata.

Quella era anche l’espressione di Domina Pearl, che si stava dando da fare accanto al bambino. La donna si voltò a mezzo verso il medico, mentre cercava di far alzare il principe dalle lenzuola. «Ha sognato suo padre. Un incubo. Credo che sia nervoso al pensiero della cerimonia di domani.»

«Questo lo farà dormire», rispose il medico. Fece un cenno a Mag, che era rimasta congelata sulla soglia. «Avanti, ragazza, cerca di svegliarti.»

Lei ubbidì e tenne dietro alla serva in camicia da notte. Il medico e la Perla Nera erano chini su Kyel. Le lenzuola furono finalmente tolte e fluttuarono nell’aria mentre venivano ammucchiate in un angolo della camera. Il bambino bevve un sorso di liquido scuro dal bicchiere che gli veniva messo alle labbra e subito dopo lo sputò. Il medico rimise il bicchiere sul vassoio, e si accorse che questo era sorretto dalla serva in camicia da notte bianca.

Kyel si rivolse a Domina Pearl, con voce querula. «Dov’è Ducon? Cosa gli hai fatto? L’hai mandato via come Jacinth e Lydea?»

«Trovatelo!» latrò Domina Pearl alle serve. «Lasciate lì quelle lenzuola. Andate a cercare Ducon Greve.»

«Lasciatemi tentare un’altra cosa», disse il medico, preoccupato, aprendo la borsa. «Tu, ragazza! Porta il principe nell’altra camera. Ma dov’è quella ragazza? Che sia… be’, ci penso io.» Prese in braccio il bambino in lacrime e si avviò verso la camera adiacente. «Stupida come una gallina senza testa.»

«Tu cerca di non perdere la tua», mugolò acidamente la Perla Nera.

Il principe non si placò, e Mag, cieca e immobile sotto le lenzuola, non osò spostarsi da lì, finché a un certo punto si accorse che Ducon Greve era entrato nella camera. Si chiese come fossero riusciti i servi a distogliere la sua attenzione da ciò che stava facendo. Dietro di lui vennero alcuni uomini, che suppose fossero guardie, perché sentì Domina Pearl ordinare: «Due uomini alla porta del principe, e altri due in corridoio. Lasciate le porte aperte per tutto il tempo. Voi, Nobile Ducon, siete pregato di restare con lui fino al mattino».

Il giovane mormorò qualcosa; stava parlando col principe, che si era finalmente acquietato.

Mag trattenne il respiro e rimase in ascolto. Ma neppure le sue orecchie addestrate, capaci di sentire il fruscio di un granello di polvere nella strada mentre lei origliava da sotto, captarono il rumore dei passi della Perla Nera quando costei se ne andò.

All’alba le serve vennero a prelevare la roba per la lavanderia, ma le lenzuola, che erano scivolate pian piano sotto il letto quando la luce nella camera era stata spenta, nel frattempo erano uscite dalla porta sulle braccia di una serva stranamente vestita, che doveva essersi messa addosso l’uniforme di sua nonna e non sembrava conoscere l’uso del pettine. Nessuna delle serve disse parola, perché il principe dormiva ancora e l’attraente bastardo, vestito e ben sveglio, le azzittì con un’occhiata severa. Le lenzuola precedettero le altre serve al piano di sotto e scomparvero per giorni, finché un’inserviente le trovò in un armadio delle cucine, ficcate dentro una grossa zuppiera.

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