16 Qua e là

Aggirandosi nella vasta dimora in cerca della maga, mentre Ducon dormiva, Lydea si accorse di muoversi a ritroso nel tempo, attraverso strati di storia che cambiavano a caso e non erano mai consecutivi. Un certo indumento indossato da uno dei taciturni spettri evocava un’intera epoca del passato di Ombria; lo stile diverso delle gambe di una sedia indicava una morte o un’incoronazione nella Casa dei Greve. Le mode dell’abbigliamento e le facce composte di quei dipinti le ricordavano altri fantasmi in altri dipinti, che l’avevano osservata camminare nei corridoi del palazzo. I più antichi di essi erano eseguiti su legno, e rappresentavano personaggi vestiri di pellicce e di perle. Qui, sui muri di Faey, c’erano individui che sembravano ancora più lontani nel tempo, dipinti da qualcuno che non sapeva niente di arte. Strani paesaggi e strani animali, nebulosi scorci di stradicciole cittadine, volti ormai semicancellati, e questi lavori erano stati realizzati su coperchi rotondi di botti di vino, oppure su pelli di animali tese su un telaio. Dovevano essere molto più antichi di quelli che le aveva mostrato Royce, più antichi della Casa dei Greve, anche se questo appariva incredibile. Ombria e la Casa dei Greve erano nate insieme, due gemelle sanguinarie e ignoranti che avevano plasmato il mondo intorno a loro mentre crescevano.

Questo gliel’aveva detto Royce. Il ricordo di lui la intristì, mentre continuava a cercare. L’antichità e il lusso in casa della maga, l’arredamento sempre diverso delle stanze, e lo stesso abito di velluto che Lydea indossava, contribuivano a farla sentire uno spettro, come se la sua vita nel palazzo fosse ormai un passato vago, risalente a prima della sua morte.

Rispolverando quei ricordi sentiva la voce allegra e fiduciosa di Royce raccontarle varie cose, illustrarle l’uso di bizzarre armi dimenticate, e spiegarle il motivo di certe espressioni sul viso di questo o quell’altro antenato. Strano, pensò, che l’intuito e la percettività di lui non gli avessero permesso di prevedere la sua prematura fine. Cercò di confortarsi col pensiero che Royce, convinto di vivere in un mondo dove nulla sarebbe mai cambiato, era stato felice.

Un volto incorniciato sul fondo di una lunga sala da ballo la fermò. Faey aveva indossato quegli occhi azzurri, quelle pallide e sdegnose sopracciglia arcuate, ed evidentemente le indossava ancora, perché d’un tratto le labbra severe si aprirono e da esse scaturì la roca e volitiva voce della maga.

«Sono qui», la informò la donna del dipinto.

«Qui dove?»

«Prosegui sempre dritto, tre porte più avanti.»

Le mobili labbra tornarono a solidificarsi nello strato di pittura a olio. Lydea si disse che in quel limbo di realtà capovolta era meglio non pensare troppo, spalancò i battenti decorati della porta in fondo alla sala e di altre due belle anticamere, fino a quella che sembrava un elegante spogliatoio.

La maga sedeva su una poltroncina smaltata, in mezzo a grossi attaccapanni d’ottone e scaffalature vuote. L’unico indumento era un mantello appeso dietro di lei, di seta color vinaccia col bordo in ermellino bianco. Faey, con le trecce nere annodate sopra la testa e fissate con spille floreali in madreperla, dava l’impressione di essersi chiusa lì come in castigo per aver lasciato esposta al pericolo la sua figlia di cera.

La maga guardò Lydea con espressione cupa. «Ti avevo detto che non mi piace essere disturbata. E tu mi stai disturbando. Cosa c’è?»

«Io vi aiuterò», rispose lei con voce ferma, «se voi aiuterete me. E posso pagarvi.»

Lo sguardo della maga rimase duro, ma con una luce d’interesse in più. «Con cosa?»

«Con quello che mi è rimasto. Ho degli zaffiri…»

«Anch’io. E anche rubini, e smeraldi.»

«E ho anche…» La voce di Lydea vacillò, tornò a rafforzarsi. «Ho questo anello.»

Lo tolse dalla scollatura: un opale nero incastonato in oro e circondato da rare perle azzurre, dono di Royce.

Faey si piegò in avanti a esaminarlo. «Bellino», concesse, distrattamente. Strinse le palpebre. «Dovresti portarlo appeso a qualcosa di meglio di quel sudicio nastro.»

«In città è pericoloso mostrare cose del genere.»

«Perché vedo la mia bambola di cera dentro quell’opale?»

Lydea sbatté le palpebre. «Forse perché fu lei a salvarlo per me?» suggerì. Lo sguardo di quegli occhi abissali tornò su di lei.

«Pensi di aiutarmi. Come?»

«Voi potete cambiare volto a vostro piacere. Datemene un altro, così potrò tornare nel palazzo e vegliare su Kyel. Là dentro potrò cercare Mag, senza che nessuno sospetti di me.»

«Cosa ti fa credere che la Perla Nera non vedrà sotto qualsiasi maschera tu porti?»

«È lei che paga voi per la vostra magia. Come potrà vedere attraverso una maschera fatta da voi?»

Le sopracciglia scure, curve come ali di corvo, volarono ancora più in alto. Per un momento Faey sembrò risucchiarsi dentro se stessa; il suo collo scomparve; la sua colonna vertebrale cominciò a mescolarsi con le ginocchia. Poi, mentre Lydea guardava tra affascinata e inorridita, la maga allungò di nuovo il suo corpo nelle primitive eleganti proporzioni.

«Non sono sicura di ciò che quella donna possa o non possa fare», borbottò con una smorfia. «Io la credevo una specie di fantasma della Casa dei Greve, che rifiutava di morire e sì teneva in piedi con un estratto di ali di scarafaggio e ambra. Non le ho mai prestato molta attenzione. Non so quale potere abbia acquistato nell’ultimo secolo. Ripensandoci, vedo di averle fornito una notevole quantità di incantesimi.» Per un momento rifletté in silenzio sulla Perla Nera, quindi aggiunse: «Ho mandato fuori Mag a comprare delle anguille per la cena. Quella è stata l’ultima volta che l’ho vista. Potrebbe essere ovunque, intorno al palazzo. Potrebbe essere fuggita, o esser stata rapita dai pirati, o essersi innamorata…»

«Se fosse morta, voi lo sapreste?»

«Certo che lo saprei», affermò con energia Faey. «L’ho fatta io.» Ma una luce d’incertezza e disagio nei suoi occhi suggeriva il contrario. Senza guardare Lydea, domandò: «Tu non lo sapresti se qualcuno fatto da te… o un bambino umano legato a te, per esempio Kyel… fosse morto?»

«No.»

La maga esibì un’espressione illeggibile. «Questo non puoi saperlo. Tu non hai mai fatto un figlio.»

«No», sospirò Lydea. «È per questo che voglio stare accanto a Kyel. Mi aiuterete?»

La maga allungò una mano a palmo in su.

Lydea disfece il nodo del nastro a cui aveva appeso l’anello. Ciò che depose sulla mano di Faey erano ricordi senza prezzo, un simbolo d’amore e di fedeltà ben più preziosi della gemma e dell’oro. La maga, infilandoselo a un dito, vide soltanto il volto della sua bambola di cera nell’opale.

Scrutò Lydea con occhio pratico. «Il bambino riceverebbe ben poco conforto da un’estranea che volesse convincerlo di essere te», disse con inattesa sensibilità. «Dovrai tenere il tuo volto.»

Lydea annuì, con riluttanza. «Avete ragione. Probabilmente lui mi crede morta; dopotutto sono scomparsa come suo padre, quella stessa notte. Se mi presentassi con un volto strano, potrebbe pensare che sono una serva di Domina Pearl e stia cercando d’imbrogliarlo. Ma come…»

«Oh, ci sono delle cose che posso fare per mimetizzarti agli occhi altrui», mormorò Faey, prendendola per il mento con le dita ingioiellate e facendola voltare da una parte e dall’altra. «A patto che non ti trovi di fronte a Domina Pearl. Non ho idea di quanto a fondo possa vedere nella mia magia. L’ho rifornita di talismani e altre cosette per anni.»

«Perché?» domandò poco diplomaticamente Lydea. La maga, contemplando il passato, parve chiedersi la stessa cosa.

«Lei pagava, io facevo. Erano affari. Non ho mai pensato niente di lei, salvo che mi piaceva poco. Ma non ero contraria a procurarle tutto quello che mi chiedeva. Mi sembrava una persona di poca importanza, fino a ora. Io vivo da molto tempo; ho visto gente nascere e morire. Mi aspettavo che anche lei sparisse.» Faey fece una pausa, e i suoi occhi erano vuoti e oscuri. «Ti suggerisco di non far nulla che attiri la sua attenzione. Non cercare la mia figlia di cera. Se è stata quella donna a prenderla, andrò io stessa a rintracciarla nel palazzo. E neppure Mag potrà riconoscermi mentre lo faccio.» Lydea annuì, senza dir niente. «Ma prima di permetterti di lasciare la mia casa, tu dovrai aiutare Ducon a guarire bene.» Le accennò che poteva andare, e mentre Lydea si voltava, aggiunse: «È strano, non credi, che lui voglia indietro quel pezzo di carboncino. Ti ha detto perché?»

«Ha detto solo che gli piacevano i disegni che uscivano da quel carboncino. Io ho pensato che delirasse. Ci avete messo dentro qualche altra cosa, oltre al veleno?»

«Solo dei vecchi dipinti… lui riesce a trasformare in arte perfino la sua stessa morte.»

«Voi lo avete quasi ucciso.»

«Non essere così pignola.»

«Ma qualcosa vi ha fermato. Qualcosa in lui. Che cosa?»

La Maga contemplava un attaccapanni d’ottone come se davanti a lei ci fosse un mistero, un enigma non risolto. «Lui vede più di quello che dovrebbe», rispose. «Più di quanto sia umano vedere.»

Mentre Lydea cercava d’immaginare cosa ci fosse di più umano da vedere nel mondo comune, si trovò fuori dallo spogliatoio senza capire come ci fosse arrivata.

Ritrovò la strada, o fu la maga a trovarla per lei, fino alla camera dove Ducon stava dormendo. Si fermò a osservarlo. A parte il mistero del suo colore, o della sua mancanza di colore, appariva umano come chiunque altro. Poi il giovane aprì gli occhi, e per qualche momento sembrò non vedere niente. Mugolò qualcosa, si mosse, allungò una mano fuori dalle coltri e la afferrò per un polso.

Lydea si piegò verso di lui. «Cos’hai detto?»

«Carta.» Ducon aveva lo sguardo annebbiato. «Mi serve della carta.»

«D’accordo, ci penso io», sospirò lei. «E cos’altro?»

«Carta da disegno.»

«Be’, non pensavo che la volessi per altri scopi.» Lei gli toccò la fronte; era calda di febbre. Sempre meglio del gelo che il veleno del rospo gli aveva insinuato nelle membra, pensò. Ma non era ancora abbastanza per potersene andare da lì. Gli fece bere un po’ d’acqua. «Devi guarire», lo supplicò. «Pensa a come soffrirà Kyel, altrimenti.»

Gli occhi argentei di lui la misero a fuoco: una persona di carne e ossa, che stava lì con lui nella realtà e non nel sogno, con un volto che lui riconosceva, e con pensieri che avrebbe potuto immaginare se ci avesse provato. Quanto era strano. Quant’era strano essere in un sogno un momento prima, e nel mondo un momento dopo, e capire la differenza in un batter d’occhio.

«Hai una strana espressione», osservò lui, insonnolito.

«Stavo solo pensando.»

«A cosa?»

«A come sappiamo che una cosa è reale. A come possiamo svegliarci in un posto senza tempo e riconoscere il tempo. A come tu riconosci me, adesso e qui, quando niente e nessuno di questo posto ti è familiare. Nei tuoi sogni avrebbe potuto esserci un’altra Lydea, ma quando hai visto me hai saputo subito che ti potevo portare la carta.»

Lui tacque così a lungo, stringendole il polso, da farle pensare che si fosse addormentato a occhi aperti. Infine mormorò: «Dillo ancora».

«Non posso», rispose lei, stancamente. «Era solo un pensiero. Te l’ho confidato.»

«Era qualcosa sui sogni che diventano veri.»

«Non è questo che ho detto.»

«È quello che io ho sentito.» La sua mano si aprì; le sorrise, con occhi lucidi come l’acqua. «Non c’è da stupirsi che mio zio ti amasse.»

Lei non fece caso a quelle parole; un effetto della febbre, pensò. Ma per quanto febbrile fosse il suo bisogno di carta, Ducon non vi rinunciò: Lydea doveva procurargliela subito, perché lui potesse constatare se la magia era ancora nel carboncino o era svanita col veleno mortale. Lei lo lasciò a metà di un discorso sconnesso sulla morte e sull’arte, e andò a cercare la governante.

Con l’aiuto della donna riuscì a trovare una risma di fogli pesanti e di ottima qualità, in una vecchia cassapanca del solaio. Nel corso degli anni la carta era stata smozzicata ai bordi dai topi e dalle tarme, ma Ducon sembrò non badarci. Lydea lo fece mangiare prima di consegnargliela. Poi rimase seduta accanto a lui, irradiando pazienza, ma dentro di sé mangiandosi le unghie. Si chiedeva se avrebbero ancora trovato qualcosa di familiare nel mondo sopra di loro, quando la maga si sarebbe decisa a lasciarli andare.

Ducon disegnò per ore. Schizzi di soggetti a caso scivolarono giù dal letto fino a formare un’isola di carta intorno ai piedi di Lydea. Sia capovolti che girati di traverso erano ben riconoscibili come gli angoli che lui ricordava delle strade e delle taverne di Ombria: muri corrosi dal vento, alberi di navi, botteghe, carri, monelli dai piedi nudi, mercanti, animali al lavoro, gente che sedeva a bere e a chiacchierare. Questo fu ciò che coprì il pavimento, dapprima. Poi, mentre il tempo passava, oppure non passava, lì nella casa della maga, a essi si aggiunsero scorci del palazzo, stanze arredate con lusso, facce di cortigiane dal trucco squisito, e anche — vide Lydea con stupore — mani callose di servi che portavano un secchio di carbone o un vassoio.

Lui aveva visto tutto, rifletté Lydea, più cose di quante lei avesse mai notato, anche se fino a quel momento non c’era nulla che non fosse umano. E il pezzo di carboncino, che avrebbe dovuto ridursi a un mozzicone fin dall’inizio di quel suo viaggio sulla carta, non aveva ancora cambiato forma.

Ducon ritrasse anche lei, mentre si era appisolata per un poco. Il volto che le diede era tratto dai suoi ricordi, e lei stentò a riconoscersi: quella che la guardava dal foglio era un’ingenua e amabile giovane donna, con un diadema di perle sull’elaborata acconciatura e un sorriso controllato, rigido. Una mano graziosa era sollevata a toccare una gemma che le pendeva dal collo. Le unghie erano corte e smozzicate.

Nel guardare il ritratto Lydea fece una mezza risata, un po’ commossa. «Ero così trasparente?»

Lui annuì, indifferente, mentre già cominciava un altro disegno. Aveva più carbone sulle mani e sulla faccia che su uno dei suoi fogli. Sembrava ossessionato, sotto incantesimo; il magico carboncino non gli permetteva di smettere.

«Questa è l’espressione che ti vedevo sempre. Mio zio ti vedeva in modo molto diverso, ne sono certo. Ma quel viso tu non lo mostravi a me.»

«Mi sembra molto tempo fa», mormorò lei, lasciando cadere il disegno tra gli altri fogli.

«Ti sembra molto tempo fa perché sei andata lontano, da allora.»

«Dal palazzo alla taverna, alla casa della maga… Ma ora dovresti riposarti», lo pregò, di nuovo preoccupata, immaginando i disastri che potevano essere successi nel mondo di sopra: suo padre inferocito e disperato, Kyel ipnotizzato dalla Perla Nera e incapace di riconoscere chiunque. «Per favore, basta.»

Lui parve non udirla. Il suo modo di disegnare cambiò ancora. Stavolta dal carboncino uscirono camere vaste e lussuose ma in stato d’abbandono. Le stanze della casa della maga, suppose Lydea dapprima. Però quella in cui Ducon si trovava era l’unica che avesse visto, e nei disegni c’erano lunghi corridoi e strani locali che alla ragazza riuscivano nuovi. Sembrava che lui stesse raffigurando il trascorrere del tempo: la vernice scrostata di muri e soffitti rivelava antiche decorazioni sottostanti; sotto le tappezzerie strappate apparivano altre tappezzerie, e sotto queste ultime l’intonaco, e mattoni sotto l’intonaco dove questo cadeva a pezzi. Affascinata e a disagio lei si domandò dove mai Ducon poteva aver visto quelle immagini, e in quali strani ambienti si fosse avventurato.

A un certo punto, prima che Lydea se ne accorgesse, il giovane si fermò. Rimase seduto a osservare il suo ultimo disegno, e lei attese che anch’esso volasse sul pavimento, come un’altra pagina della storia che stava raccontando. Quando vide che lui non lo gettava via, si piegò su una sua spalla per guardarlo.

Era un ingresso, in un vecchio muro che sembrava piangere pioggia. Ma dove avrebbe dovuto esserci la porta non c’era niente, tenebra, carbone. A parte un… Lydea si chinò ancora per osservarlo meglio, e vide linee emergere dal buio: l’accenno di un viso e un vago alone di capelli chiari.

Il carboncino cadde dalle dita di Ducon. Il giovane si appoggiò all’indietro, con gli occhi socchiusi, fissando il disegno come se fosse convinto che da un momento all’altro la figura sarebbe uscita alla luce mostrando il suo viso.

«Ecco», sussurrò. Aveva finalmente raggiunto il posto dove la misteriosa storia raccontata dal carboncino terminava, o era cominciata. «Ecco.»

Chiuse gli occhi.

Lydea raccolse il foglio che stava scivolando al suolo.

Загрузка...