6 Scarpe da ballo

Nell’accorgersi che le campane di Ombria avevano smesso di suonare, Lydea non poté trattenere le lacrime.

Stava portando un vassoio di birra e carne di montone a un tavolo di gente vestita a lutto, che invece di uscire per recarsi al funerale aveva preferito restare nella taverna.

Gli avventori parlavano in tono lugubre e saccente del principe defunto, quando il vassoio piombò sul tavolo e la ragazza scoppiò improvvisamente in singhiozzi, selvaggi e inconsolabili. Piangeva per le carezze di Royce e il suo sorriso, per i morbidi capelli di Kyel sotto la sua mano, e per i suoi occhi quando gli raccontava le favole; piangeva per quel perduto amore, per la morte di sua madre, per l’incapacità del padre di trovarle una parola gentile, e per i suoi piedi doloranti e insanguinati. Si tolse il berretto e lo usò per asciugarsi il viso. Gli avventori si stupirono nel vedere i capelli caderle fino alle ginocchia. Piangeva per il principe-bambino di Ombria, solo e in pericolo, per la città di Ombria, per la crudeltà della Perla Nera, per le scarpe che non avrebbe indossato mai più, per la sua innocenza perduta. Non vide la birra che aveva sparso sulla carne di montone, né le facce accigliate e perplesse intorno al tavolo.

Poi sentì su un braccio la mano di qualcuno che la portava via. Barcollò sui suoi poveri piedi feriti fino al bancone e sedette dietro di esso, nell’angolo poco illuminato dove suo padre ammucchiava i grembiuli e le tovaglie sporche, e pianse anche per gli anni ormai usciti dalla sua vita, quelli che aveva lasciato dietro di sé a palazzo quando Domina Pearl l’aveva spinta fuori sbattendo il cancello di ferro alle sue spalle.

Infine si sentì come svuotata, una cosa inerte. Restò appoggiata all’indietro contro il legno consunto, lasciando che qualche lacrima le cadesse ancora dagli occhi gonfi e indolenziti. Nella taverna c’era un silenzio insolito, ma non tutti i clienti se n’erano andati a causa sua. Sentì suo padre che si lamentava con qualcuno in tono accidioso, tra rumori di posate e di peltro.

«Non so cosa fare con lei», stava dicendo l’uomo. «Quella ragazza non è né carne, né pesce. Non è più quella che era una volta, e non appartiene né al palazzo, né alla città.»

Ci fu un rutto. Una voce rude che lei riconobbe come quella del macellaio della bottega di fronte suggerì, in tono sicuro: «Dovresti maritarla. Questo la farà tornare al suo posto».

«Maritarla con chi? E con quali risultati? Lei ha vissuto per cinque anni come concubina del principe, e ora è tornata qui a lavare boccali di birra. Là era una sguattera di taverna travestita da principessa, e qui è una principessa travestita da sguattera di taverna. Una volta conosceva il lavoro per cui era nata. Ora non riesce neanche a tenere ordine nella sua testa. Serve la carne al tavolo di chi aveva ordinato birra, e porta via i boccali ancora mezzo pieni da sotto il naso dei clienti. Guarda questa sala. È vuota, nel pomeriggio della veglia per il principe.»

«Devi maritarla», ripeté il macellaio con irritante insistenza.

«A chi?»

«A chiunque. Non importa. Il fabbricante di casse da morto in via delle Assi ha appena perduto sua moglie. E ha cinque figli, il più piccolo dei quali ha messo i denti da poco.»

«Di chi parli? Di quel piccoletto rachitico col naso storto? E ha cinque figli?»

«Cinque figli, e nessuna moglie.»

Lydea raccolse un grembiule sporco e lo usò per asciugarsi gli occhi. Conosceva il fabbricante di casse da morto, un ometto che le arrivava appena al mento, con le narici rivolte all’insù. Quei due buchi neri la seguivano come occhi quando lei passava, come se lui la guardasse col naso. Il suggerimento del macellaio era ridicolo, ma suo padre non aveva tutti i torti. Lei si aggirava per la taverna con la testa tra le nuvole, proprio come avrebbe fatto a palazzo se le avessero permesso di restare.

Si tolse gli zoccoli per dare un po’ di sollievo ai piedi e ricordò dove stava seduta. Frugò nel mucchio di grembiuli e tovaglie finché sentì le scarpe dai tacchi incrostati di zaffiro, ancora nel punto in cui le aveva nascoste.

«Potresti maritarla a uno che conosce questo lavoro», suggerì il macellaio. «Uno che potrebbe darti una mano qui dentro.»

«Io non sono una buona compagnia», tagliò corto suo padre. «Dovresti saperlo. Negli ultimi anni ho dovuto vivere da solo, dopo che mia moglie e mia figlia mi hanno lasciato.»

«Una grave perdita, sì.» Si sentì il rumore della birra che gorgogliava giù per la gola del macellaio.

«Non ho potuto farci niente. Una se ne è andata in una bella carrozza, l’altra in un… be’, non in modo altrettanto elegante. Niente di simile al funerale che hanno fatto oggi in quel mausoleo di marmo di fronte al mare.»

Lydea si coprì il viso con le mani, a quelle parole. I due uomini udirono un rumore simile a stoffa strappata dietro il banco di mescita, e tacquero. Lei inghiottì le lacrime, lottando contro la sofferenza. Suo padre e il macellaio ripresero a parlare sottovoce, quasi con cautela.

«Non avrei mai pensato di rivederla. Ero convinto che avrebbe fatto di tutto per non tornare da queste parti.»

«Avrebbe dovuto farsi sposare.»

«Avrebbe dovuto pensarci. Avrebbe dovuto essere più intelligente, e mettersi dei soldi da parte. Invece, no. Ha fatto tutto per amore, e non ha avuto in cambio niente.»

Lei si rigirò una scarpa tra le dita, alzandola sotto la luce che entrava dai vetri sporchi, e guardò lo scintillio delle gemme.

Io ho qualcosa, pensò. Ho due scarpe da ballo.

Rovistò tra i panni finché trovò anche l’altra. Poi si tirò in piedi dietro il banco di mescita, a piedi nudi, i capelli scarmigliati, e gli occhi — lo sentiva — rossi e gonfi in un volto rigido come una maschera bianca.

Perfino il macellaio, col suo grembiule sporco di sangue, parve a disagio nel guardarla. Subito però i due uomini abbassarono lo sguardo su ciò che aveva in mano. Le gemme riflettevano in ogni direzione raggi di luce azzurra, come se nella taverna fosse caduta una stella.

Suo padre ci mise un po’ a ritrovare la voce.

«Ma quelli… quelli sulle scarpe…»

«Zaffiri», rispose Lydea. «Le scarpe mi sono state regalate dal principe. Dubito che me le metterò ancora per ballare. Le venderò. Il ricavato servirà per il mio mantenimento, mentre cercherò un altro lavoro. Così non peserò più sulle tue spalle.»

La faccia dell’uomo, dura e corrugata come un guscio di noce fin da quando lei aveva fatto ritorno, espresse un improvviso e addolorato stupore, come se quelle parole l’avessero ferito. Poi il guscio di noce si riformò.

«Tu non le portavi, la notte in cui sei tornata», osservò, burbero. «Come hanno fatto a camminare fin qui, attraverso tutta la città?»

«Le avevo gettate via, fuori dal cancello del palazzo, per poter correre meglio», rispose con fermezza lei. «Qualcuno le ha trovate, e me le ha restituite.»

«Chi?» volle sapere suo padre. «Chi in questa città può permettersi di essere così onesto?»

«E perché lo ha fatto?» domandò il macellaio, sbalordito.

«Una persona…» Lei ripensò al volto giovane che nascondeva segreti, così come quei capelli nascondevano armi ingioiellate. «Non so perché l’abbia fatto. Forse perché voleva che mi fidassi di lei.»

Il macellaio allungò un dito sporco a sfiorare il fine rivestimento di una scarpa, il cui colore era lo stesso delle gemme. «Che cos’è?»

«Seta.»

«E tu hai davvero ballato con queste scarpe?» domandò suo padre meravigliato e insospettito nello stesso tempo, come se ancora non credesse che quegli oggetti fossero veri.

«Una volta.» Lei le depose sul tavolo davanti a loro. «Perciò, vedi, non sono del tutto indifesa. Mi toglierò dai piedi non appena riuscirò a venderle.»

«Con queste scarpe potresti trovare marito», suggerì il macellaio, che continuava a guardare gli zaffiri a occhi spalancati. «Cercane uno, dimentica il principe, e dai qualche nipote a tuo padre.»

«Io non mi sposerò mai», dichiarò Lydea. «Comunque, perché dovrei volere un marito capace di sposare una donna solo per le sue scarpe? Qui in questa taverna io non servo a niente, ma dev’esserci qualcosa che io possa fare per mantenermi.»

Suo padre raccolse una scarpa e la rigirò tra le dita, sotto la luce. «Un tempo tu sapevi cosa fare per vivere.» Poi abbassò gli occhi su di lei, usando distrattamente la scarpa per grattarsi una tempia. «Dopo aver danzato con scarpe così, non sei più fatta per questa vita.»

«Forse no. Ma per aver portato queste scarpe sono stata gettata fuori. E in strada avrebbero potuto uccidermi perché le portavo. Questo posto mi ha salvato. Era la mia unica speranza.»

Lui sbuffò, a quel pensiero. Ma il suo cipiglio era soltanto a fior di pelle, adesso; negli occhi non aveva più la luce dura. «Perché sei rimasta là, se ti trattavano male?»

Lei dovette deglutire, prima di trovare la voce per rispondere. «Royce era buono con me. Ma avevo soltanto lui. Nessun altro e nient’altro, e nessun posto che sentissi mio. Come hai detto tu, ero una sguattera di taverna travestita da principessa. È così che quella gente mi vedeva. Fuorché il principe. E suo figlio. Loro vedevano in me una persona che amavano.»

Ora i due uomini la guardavano in silenzio, con la stessa espressione con cui avevano guardato le sue scarpe.

«Non hanno voluto che tu restassi, neppure per il bene del bambino?» domandò suo padre.

«Lui non voleva che io me ne andassi.» La gola tornava a farle male. «Ma lei ha mandato via la sua bambinaia. Lei ha cominciato a ripulire il palazzo, la notte stessa in cui il principe è morto.»

«Lei?» domandò il macellaio.

«Domina Pearl.»

Quel nome fece accigliare i due, che parvero riflettere sulla vera causa dei foschi presagi sparsi in Ombria dopo la morte del principe. «Domina Pearl», le fece eco cupamente il macellaio. «Ora è lei a governare.» Bevve un lungo sorso, poi domandò: «Di cosa è fatta quella donna? Ho sentito dire che vive da secoli. E che quando starnutisce butta fuori polvere».

«Vivrà ancora per un altro secolo, se nessuno la ferma», disse Lydea. «E non avrà pietà di questa città, non più di quanta ne ha avuto per me.»

«E il bastardo?» domandò suo padre. «Ducon. Lui la combatterà?»

«Non lo so. Per lo più, non fa che disegnare.»

Di nuovo tacquero, guardando il tavolo senza vederlo. Suo padre posò la scarpa che aveva in mano di fianco all’altra, e continuò a osservarle distrattamente. «Prima che tu andassi via di casa non mi avevi mai fatto arrabbiare.»

«Lo so.»

«Ho dovuto aspettare tutto questo tempo per avere un motivo d’irritarmi con te.» L’uomo spinse le scarpe verso di lei. «Trova un altro lavoro, se vuoi. Ma non andartene. Spetta a me imparare a vivere con un’altra persona in questa casa.»

Lei sentì di nuovo le lacrime agli occhi. «Per un po’ resterò, allora», disse rigidamente, cercando di avere una voce ferma.

«Non ricomincerai a piangere, eh?» domandò lui.

«Be’, non adesso.»

Un gruppo di cittadini vestiti di nero lasciò la strada affollata e aprì bruscamente la porta. «Dov’è l’oste di questa taverna?» domandò un giovane. «Siamo a lutto, e abbiamo bisogno di bevande corroboranti.»

Mentre suo padre si alzava, Lydea arrotolò le scarpe nel grembiule. Tornò dietro il banco di mescita per nasconderle di nuovo. Inginocchiata tra la roba da lavare guardò i fuochi azzurri balzare da una gemma all’altra e pensò, stupita: Dov’è la giovane donna che danzò con queste scarpe una sera, oltre il golfo della memoria e della morte? I suoi capelli erano stati acconciati in un’opulenta corona ramata, su cui brillavano spille di zaffiri. Indossava un abito di seta celeste, intonato ai suoi occhi, con la gonna orlata di merletti blu e piccole gemme. Anche il principe che danzava con lei aveva occhi blu, e nonostante ogni distrazione quegli occhi tornavano sempre sul volto di lei. Il sorriso dell’uno si rifletteva in quello dell’altra. Nessuno le aveva mai sorriso così, con gli occhi e con la mente. I cortigiani piegavano gli angoli delle labbra in uno stentato sorriso. I loro occhi vedevano la figlia di un taverniere. O peggio, calcolavano con metodo, come se facessero la lista della spesa, quali particolari di lei avevano attratto Royce. Soltanto lui l’aveva guardata oltre l’aspetto esterno, nella mente e nel cuore. Lui e Kyel.

Lydea ripensò alla sera in cui aveva visto per l’ultima volta il bambino, sul grande letto. Risentì il contatto morbido della guancia di Kyel sotto le sue dita, e si portò una mano alla bocca. «Oh, come vorrei…» mormorò, senza neppure sapere cosa. «Oh, come vorrei…»

Ma Kyel era svanito, come lo era quell’attraente giovane donna con le scarpe costellate di zaffiri che aveva danzato con un principe. Lei era morta come Royce, e Lydea lo sapeva. Questo era ciò che avevano pensato anche i cortigiani, dopo averla vista scacciata nelle strade di Ombria in piena notte. Assassinata, o chiusa nel retro di una delle taverne del porto dove attraccavano le navi della Perla Nera. In ogni caso, scomparsa definitivamente dal loro mondo.

Loro non mi riconoscerebbero neppure, se mi vedessero ora, pensò senza emozione. Nemmeno le cortigiane che spettegolavano su di me. Fuori dalle mura del palazzo, io non esisto.

«Lydea», la chiamò suo padre, con voce meno aspra del solito. Lei si accorse che il locale tornava a riempirsi; la cerimonia funebre era finita. Spinse le scarpe sotto la stoffa unta. E d’un tratto restò paralizzata, mentre la sua immaginazione vedeva in quei grembiuli spiegazzati e nelle tovaglie sporche qualcosa che non aveva ancora il coraggio di mettere in parole.

Si costrinse ad alzarsi, trovò i suoi zoccoli da taverna e se li infilò, ignorando le fitte di dolore ai piedi. Mentre riuniva i capelli sotto il berretto, l’idea che le stava prendendo forma nella mente cominciò a diventare più chiara, come una cosa vista nella luce dell’alba invece che nell’ora buia dopo il tramonto della luna.

Continuò ad aggiungere pezzi a quell’idea nelle ore successive, mentre andava avanti e indietro tra i tavoli per servire birra, pane, carne fredda, e ritirando stoviglie vuote.

Come d’abitudine evitava gli occhi della gente, così che nessuno avesse motivo di prestarle attenzione. Parlava con voce neutra, non sorrideva mai, e le sue dita arrossate dalle unghie smozzicate erano tutto ciò che la maggior parte degli avventori vedeva di lei. Perfino quelli che allungavano le mani, ottenendo jcome prevista ricompensa il fondo di un vassoio sulla testa, in realtà non la notavano molto.

Non aveva mai potato molto le serve dall’aria anonima che passavano nei corridoi del palazzo portando oggetti e biancheria di ricambio, pulendo e spazzando, accendendo i caminetti, e trascinandosi dietro con aria pigra e stanca secchi e ramazze. Jacinth, la bambinaia, si era occupata di tutto ciò che riguardava Kyel, ma Domina Pearl l’aveva mandata via. Il giovane principe doveva avere qualcun altro, ora, che dirigeva i servi adibiti ai lavori più umili nelle sue stanze. I servi… quella folla di persone anonime che passavano inosservate in ogni zona del grande edificio.

Nessuno mi riconoscerà. Neppure Domina Pearl, pensò.

Ma cosa avrebbe potuto escogitare per giungere nelle vicinanze del bambino? Cercò di ricordare certi particolari della sua vita precedente, mentre le sue mani si occupavano dei dettagli di quella attuale. Gli avventori, che si affidavano alla birra per dimenticare il pericolo e le incertezze di quel cambiamento di governo, la tennero occupata fin oltre la mezzanotte.

Suo padre la mise ogni tanto a lavare boccali dietro il bancone, mostrando un certo riguardo per le condizioni dei suoi piedi. Questo la aiutò a riflettere meglio sulla sua idea: se fosse rimasta confinata nella cucina del palazzo non sarebbe mai riuscita a vedere il giovane principe. E non avrebbe avuto il coraggio d’indossare il grembiule inamidato e il berretto dei servi che portavano vassoi nelle stanze dei cortigiani, benché questo non fosse difficile.

Se Domina Pearl l’avesse vista e riconosciuta, il suo corpo sarebbe finito ai granchi nelle acque del porto. Doveva essere certa di non attirare l’attenzione di nessuno.

La lavanderia? Non riuscì a ricordare il viso delle serve che portavano la biancheria pulita, gli asciugamani e le lenzuola. A dare istruzioni a quelle donne erano le cameriere e gli attendenti personali dei cortigiani. Avrebbe dovuto mimetizzarsi. Una inserviente senza nome e senza volto, solo un grembiule con due mani e due piedi per muoversi.

Ma portando cosa? Cosa avrebbe potuto darle la scusa di avvicinarsi a Kyel senza che nessuno, soprattutto Domina Pearl, le rivolgesse più di uno sguardo distratto?

La taverna finalmente si vuotò. Suo padre andò a prendere la scopa prima che ci pensasse lei. Con un sospiro di gratitudine Lydea si gettò a sedere sulla roba da lavare, troppo stanca per raccoglierla e portarla nel mastello del bucato. Il tacco di una scarpa le premette su un fianco. La tirò fuori e ripensò ai movimenti visti tra i girasoli quando le aveva gettate là in mezzo.

Forse ho colpito Mag rifletté, sorpresa, e trovò la risposta lì, luccicante di gemme tra le sue mani.

Mag.

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