9 L’apprendista della maga

Se Faey si era accorta che la sua figlia di cera quella notte non aveva fatto ritorno a casa, e che il giorno seguente mascherava sbadigli con l’affettazione di una cortigiana, non fece commenti. Un paio di volte Mag sentì il suo sguardo su di sé, opaco e inespressivo come quello di una vecchia civetta. Ma dovunque Faey supponesse che Mag aveva trascorso la notte, l’avrebbe immaginata più facilmente tra le pallide braccia del figlio del birraio, piuttosto che sotto il letto del principe di Ombria. Così almeno pensò Mag, e nella sicurezza della città sotterranea lasciò che trascorressero alcuni giorni, durante i quali rifletté su ciò che aveva visto nel palazzo.

A Faey continuavano a pervenire richieste di incantesimi protettivi e talismani da parte di cortigiani spaventati, cosa che teneva occupate le mani di Mag e liberi i suoi pensieri. Il palazzo aveva molti segreti, stanze nascoste e porte mimetizzate. Cosa c’era nel cuore di quell’antico edificio? Il suo passato, probabilmente: spettri, ricordi e sogni, protetti dall’oscurità dei cunicoli, quelle silenziose vene dove il tempo scorreva lento. Ma là doveva esserci qualcosa di più del passato; quest’intuizione la colpì un mattino, nel mescolare un ripugnante stufato di creature secche e scagliose che stavano cominciando ad aprire un occhio o muovere un’ala, mentre Faey mormorava parole arcane su di loro. Un posto dentro quei passaggi invisibili, pensò improvvisamente Mag, dove Domina Pearl tiene i suoi libri e oggetti di potere, e fa i suoi incantesimi.

Colpita da quell’immagine mentale, lasciò indugiare il mestolo. Dal calderone emerse un osceno gorgoglio, e un’occhiata bruciante della maga la indusse a riportare la sua attenzione sul lavoro. Quella che stavano miscelando era una pozione distillata da varie vesciche velenose ed escrezioni di quei piccoli e rari rettili, che essudavano sostanze simili quando Faey li riportava in vita. La pozione, che al momento puzzava e luccicava, doveva diventare invisibile all’occhio. Una volta pronta all’uso sarebbe stata spalmata sopra oggetti preziosi oppure su armi, e avrebbe aderito alla mano di chiunque li toccasse, come un marchio di colpa. Poi il suo luccicore sarebbe durato per molti giorni, anche al buio, senza che il ladro o l’assassino potessero lavarsela via dalla pelle.

Miscelarla era un lavoro lungo e faticoso. Quando ebbero finito, dopo che il distillato fu versato in una bottiglietta e le creature appese ad asciugare, Faey parve aver dimenticato la distrazione della sua assistente. Si gettò su un vecchio divano per innamorati, chiuse gli occhi con un sospiro, li riaprì e annusò l’odore che aveva addosso, disgustata. Troppo stanca per cambiarsi d’abito cambiò il suo intero corpo. Mag, che stava lavando il calderone, vide la lady dalla pelle di porcellana e con gli occhi azzurri trasformarsi in una zingara scalza dagli occhi neri, le cui vesti multicolori le aleggiavano attorno come i petali di un’orchidea.

Faey sospirò ancora. «Così va meglio. Un altro lavoro soltanto, e poi potremo prenderci una pausa.»

Mag stava esaminando il residuo di una terza immagine che si era formata nella sua mente, giusto nell’attimo in cui la sofisticata lady svaniva lasciando emergere la zingara. Lì, entro quel battito di ciglia, le sembrava di aver visto la vera forma di Faey. Ma le parole della maga la distrassero e l’immagine svanì.

«Un altro? Credevo che avessimo finito.»

«Ho avuto una commissione, mentre tu eri di sopra a comprare le interiora d’agnello e gli scarabei assortiti.»

«Qualcuno del palazzo?»

«E chi altro, di questi tempi?» Faey si stava accigliando a causa di qualche odore, nell’aria umida e scura, che neppure le candele profumate accese da Mag potevano nascondere. Lo sguardo intenso che la maga volgeva attorno si adattava male all’aspetto provocante e sensuale del suo volto dalla bocca dipinta.

Mag finì di pulire il calderone in silenzio. Conosceva bene quello sguardo, qualunque fosse il viso che Faey indossasse, e non preludeva a niente di buono.

Mise via il calderone e aspettò. Infine Faey parlò di nuovo, dimenticando di muovere la bocca. «Vai a cambiarti. Non voglio essere disturbata dall’odore dell’incantesimo che hai addosso.»

Mag capì che la sua padrona stava radunando le forze; preparava la mente per il posto in cui avrebbe dovuto andare mentre fabbricava la morte. «Sì, Faey.»

«Poi portami il rospo, quello che tengo nella scatola di cedro. E tutta la cenere che c’è in casa.»

«Sì, Faey», disse ancora Mag, perplessa. Faey si stiracchiò, le indirizzò uno sguardo assente e ritrovò l’uso delle labbra.

«Sai, avevo visto giusto.» Si alzò, e studiò i carboni quasi spenti del cerchio di fuoco sul pavimento. «Ora tocca al bastardo. Ma sbagliavo sull’identità della persona che lo vuole morto.»

Mentre raccoglieva la cenere, prima di lavarsi, Mag pensò al rospo e a come avrebbe potuto funzionare quell’abbinamento. Il rospo sputava veleno, ma in che modo Faey si proponeva di usare la cenere? Con gli occhi della mente rivide Ducon che disegnava la sua figura velata, quella sera al Re degli Incapaci. Un refolo di cenere la fece tossire, e sputò tra le braci spente del focolare di cucina. La cenere, pensò, può essere pressata e trasformata in un carboncino da disegno. Rivide il giovane deporre il carboncino, grattarsi l’altra mano e lasciare strisce nere sulla pelle del polso. Il veleno del rospo sarebbe stato letale, mescolato alla cenere e sparso a quel modo sulla sua epidermide. Lo rivide appoggiare la fronte su una mano e osservare criticamente il foglio, lasciandosi sulle sopracciglia ombre dell’incantesimo di Faey.

Mag deglutì quando vide con fredda chiarezza il sentiero che si biforcava dinanzi a lei. Se avesse preso una diramazione, Ducon sarebbe vissuto; scegliendo l’altra lo avrebbe abbandonato a un destino di morte. Quale delle due? si domandò, senza riuscire a rispondere. Quale delle due?

La vita di quell’individuo, a quanto pareva, era un capolavoro d’ambiguità. Non sapeva di chi era figlio, perciò chiunque avrebbe potuto essere suo padre. Non aveva detto né sì né no ai giovani cospiratori che volevano metterlo sul trono. Perciò non era da escludere che fossero stati loro a ordinare il veleno, colti dall’improvviso timore che lui li tradisse. Ducon aveva trascorso una notte con Kyel senza fargli male, ma a sorvegliarlo c’erano le guardie di Domina Pearl. Kyel aveva richiesto la sua presenza, e Ducon era in apparenza l’unica persona che la Perla Nera non aveva potuto (o voluto) allontanare dal palazzo. Questo andava a vantaggio di Kyel? O della vecchia?

Mag trovò gli altri caminetti abbastanza puliti e dovette raschiare la parte inferiore delle canne fumarie per riempire di cenere il secchio. Poi lasciò il tutto in cucina e andò al pianterreno a lavarsi. Quando si fu cambiata ed ebbe sostituito con il profumo di lavanda quello dei rettili, salì all’ultimo piano della casa, dove Faey teneva i suoi materiali organici, sia vivi che morti. La maggior parte di quelle creature, a sangue freddo e scagliose, sonnecchiava. Lei aprì la scatola di cedro con cautela, perché il rospo, che nel buio andava in ibernazione, se disturbato sputava veleno. Il batrace la guardò con la notte senza luna dei suoi occhi, e le domandò quale delle due?

Lei gli restituì lo sguardo con occhi altrettanto immobili e seppe, senza una ragione chiara e comprensibile, che non avrebbe permesso a Faey di vendere la morte per quel giovane. Non aveva un solo motivo per dare fiducia a Ducon Greve; solo indizi vaghi e insignificanti: il fatto che si spostava così, senza paura dal palazzo alla città, il modo in cui disegnava un viso, il ricordo delle lunghe ore in cui aveva vegliato il bambino per impedire che avesse altri incubi. Chiuse la scatola, lasciando il rospo nel buio. Sarebbe venuto il momento in cui Faey, fidandosi della sua bambola di cera, avrebbe voltato le spalle. Allora Mag avrebbe messo qualcosa nell’incantesimo per guastarlo, oppure, se le fosse stata chiesta una cosa, lei l’avrebbe «distrattamente» sostituita con un’altra. E se ogni sotterfugio fosse fallito, un carboncino era uguale a qualsiasi altro… Quando Faey si fosse accorta che Ducon non voleva saperne di morire, lei avrebbe potuto suggerire l’ipotesi che forse la Perla Nera, per qualche sua ragione, gli aveva dato un antidoto.

«Chi è che lo vuole morto?» domandò a Faey quando tornò nel laboratorio, col secchio in una mano e la scatola del rospo nell’altra.

La zingara che stava frugando nel cerchio di fuoco in cerca di pezzetti di legno non bruciato scrollò le spalle; il largo colletto della lucida blusa di seta le scivolò precariamente su un braccio.

«Un nobile o una dama con una manticora sul suo stemma. Il biglietto non era firmato. Il servo tornerà domani a prendere la pozione, e col resto dell’oro. Raccogli tutta questa roba, mia bambolina di cera, e mettila nel calderone grande.»

Mentre raccoglieva la cenere dal suolo con una paletta Mag domandò, incuriosita: «Perché te ne serve tanta, per fare un oggetto così piccolo?» Non appena ebbe pronunciato quelle parole avrebbe voluto acchiapparle nell’aria come farfalle e tornare a ficcarsele in bocca. Faey le diede uno sguardo simile a quello del rospo, freddo e scrutatore.

«Stiamo pensando, bambolina?»

«È una gran quantità di cenere», si difese Mag, con aria melensa. «Mi è venuto da farmi delle domande.»

«E dove ti portano queste domande?»

«Al carboncino da disegno.»

«E come fai a sapere che Ducon Greve disegna?»

«L’ho visto. Tutti possono vederlo. Va in giro per Ombria facendo schizzi o acquerelli di tutto ciò che gli colpisce l’occhio. Stavo solo cercando di mettere insieme il rospo, la cenere e Ducon.»

Faey mandò dal naso quello che sembrava il grugnito di un cavallo, e attraversò la stanza. «Suppongo di averti incoraggiato io a imparare», ammise. «Pensare può diventare un’abitudine. Ma bada… è un’abitudine pericolosa, e se mi desse dei fastidi questo non mi piacerebbe.»

«Sì, Faey. Non piacerebbe neppure a me», mormorò Mag, facendo scivolare il calderone verso il camino. «Vuoi che lo metta sul fuoco?»

«Sì.» Faey aprì la scatola di cedro e accarezzò dolcemente il rospo. Il batrace reagì eruttando una parola simile a una nota di organo e le salì sul palmo di una mano. «Tu sei il mio bel piccolino, vero?» tubò lei. «Avrai tante buone mosche e teneri ragnetti da mangiare, quando avremo finito.» Si volse a Mag. («Questo sarà un incantesimo uguale all’ultimo. Un distillato. Un concentrato. Il carboncino deve risultare abbastanza morbido perché un artista possa usarlo, e senza che sospetti la presenza del veleno.» Si chinò un momento a esaminare la cenere, poi accese il fuoco sotto il calderone schioccando le dita. Sputò nel grosso contenitore, e intorno al mucchietto di cenere si formò una pozza di liquido. «Ora dobbiamo dare all’artista un potente incentivo per usare questo particolare carboncino… Portami una dozzina di quei disegni appesi al muro, al piano di sotto, o dei quadri a olio, se i disegni non sono abbastanza buoni. Soltanto il meglio, mia bambola di cera. Aggiungeremo al carboncino un po’ di magia, e quel signore disegnerà fino alla morte.»

Mag si affrettò ad aggirarsi nei vari corridoi della casa, cercando di scegliere con occhio d’artista; sapeva che Faey l’avrebbe rimandata indietro se le avesse portato delle opere mediocri che meritavano di essere bruciate. Non poteva immaginare ciò che Faey avrebbe fatto mentre lei non c’era. Nulla di più pericoloso, si augurò, che mescolare cenere e acqua. Ma quando tornò di sopra il rospo stava sul davanzale della finestra, e srotolava la lingua verso uno sciame d’insetti racchiusi in una luminescenza verde. Faey era immersa nel suo incantesimo così profondamente che il suo viso di zìngara stava perdendo definizione; aveva un occhio più largo dell’altro, e il naso si era girato di traverso.

Nonostante questo ci vedeva fin troppo bene, anche dentro la testa della sua assistente.

«Sì», disse in tono sognante, come se Mag gliel’avesse domandato. «Il veleno è nella cenere. Leva i quadri dalle cornici e strappali. Tagliali, se sono troppo duri. Metti i pezzi nel calderone. Si scioglieranno presto, con quello che c’è dentro. Ma lasceranno le loro immagini nella cenere…»

«Cos’altro c’è, dentro?» la interrogò Mag, a dispetto di ogni prudenza. Faey, che aveva cominciato a parlare al calderone, non rispose. Lei tagliò a pezzi cartoni e tele, mescolando alberi e città, nuvole e bambini e cavalieri morenti in quello stufato. Quali effetti avrebbero creato uscendo dal carboncino sul foglio di Ducon, lei non riusciva a immaginarlo. Quando ebbe finito, Faey le diede il mestolo.

«Rigiralo con cautela, mia bambola di cera. Se ti schizza una goccia addosso, ti ustionerà.»

Mag mescolò con cautela. L’impasto continuò a cambiare colore ogni pochi momenti, finché divenne così scuro che il calderone sembrò pieno di notte. Faey lo guardava senza batter ciglio, con occhi vacui e socchiusi, mormorando parole arcane. La sua voce si fece sempre più bassa, e così anche la sostanza che fumava nel contenitore. Infine sussurrò l’ordine conclusivo. Gli ultimi rimasugli di pasta si coagularono e s’indurirono. Sul fondo del calderone prese forma un carboncino da disegno, tondo e liscio.

Faey mandò un sospiro; i suoi occhi si aprirono. Raccolse il carboncino con un paio di pinze e lo esaminò. «Bene. Ora possiamo andare a dormire.» Lo sguardo di Mag seguì il piccolo oggetto mentre l’altra lo deponeva in un anonimo astuccio di legno. «Non toccarlo», fu avvertita. «Avvelenerebbe anche te, come Ducon Greve.»

«Sì, Faey.»

La maga si spazzolò via la cenere dalle mani e si stiracchiò, rimettendosi a posto qualche osso con piccoli rumori secchi. Poi provvide a raddrizzarsi anche il viso e sbadigliò.

«Fai pulizia qui dentro, mia bambola di cera, e metti via il rospo.» S’infilò l’astuccio in una tasca della gonna. «Ho un altro astuccio in camera mia, proprio quello che ci vuole. Dorato, con intarsi in avorio. Vale la pena di darlo via, vista la somma che mi è stata pagata per avvelenare il bastardo.» Fece una pausa, sbatté le palpebre, poi si toccò gli occhi con le dita e aggiunse, con un rammarico del tutto insolito: «Be’, prima o poi sarebbe stata la Perla Nera a liberarsi di lui. Questo non fa che anticipare la cosa».

Quella notte Mag rimase sveglia a lungo nel suo letto, in attesa di sentire il russare di Faey. Ma dalla camera della maga non giunsero rumori. Finalmente, quando la ronda cittadina passò nelle strade annunciando la mezzanotte, Mag udì un delicato borbottio echeggiare nella vasta dimora. Scivolò giù dal letto e s’incamminò verso la camera di Faey, evitando le assicelle che scricchiolavano. La porta era socchiusa. La maga si era addormentata con la candela accesa. Sopra la faccia aveva un libro aperto, La guida illustrata del giardiniere. Dire che la stanza era in disordine sarebbe stato un eufemismo. Vasta come un salone, conteneva un formidabile caos di oggetti, buona parte dei quali visibili solo per metà: mobili degli stili più diversi, grandi guardaroba, tavoli massicci, altri letti. Abiti e biancheria giacevano dappertutto; scarpe appartenenti a secoli diversi, molte delle quali spaiate o addirittura a pezzi erano sparse sul pavimento. Pelli di animali di grossa taglia, complete della testa, pendevano capovolte dagli sportelli dei guardaroba e dagli specchi. I loro occhi di vetro, lucenti come candele, guardavano Mag. Perfino l’inferriata della finestra sembrava gremita di strane immagini, come se tutti i quadri dai quali Faey aveva prelevato quella camera da letto fossero lì, a tre dimensioni e nello stesso tempo.

Il carboncino nella sua scatola da regalo poteva essere dovunque: infilato in una scarpa, nella bocca di un orso, su un tavolo tra le immagini illusorie. Mag provò una disperata sensazione d’impotenza, anche se non c’era la stretta necessità di agire subito. Avrebbe potuto intercettare l’astuccio o il servo che lo portava via il mattino successivo, e sostituire il carboncino avvelenato con uno normale. Anche se lei non fosse riuscita a mettere le mani sull’astuccio, Ducon non sarebbe caduto morto subito dopo averlo ricevuto; sarebbe occorso del tempo. All’improvviso la zingara distesa sul letto borbottò nel sonno; il libro scivolò di lato. Mag si schiacciò contro il muro fuori dalla porta, senza respirare e immobile come una tappezzeria. La cosa più semplice sarebbe stata avvertire Ducon, o meglio ancora tornare a palazzo, trovare il suo alloggio e rubare il carboncino. In questo modo lui non l’avrebbe vista in faccia.

La zingara aveva smesso di russare.

Mag chiuse gli occhi, trattenne il respiro e costrinse i suoi pensieri a riecheggiare le peonie e i pavoni che esibivano i loro colori sul muro dietro di lei. Una scarpa volò fuori dalla porta e colpì il muro opposto. La candela nella camera fu spenta.

Faey si girò dall’altra parte, borbottò qualcosa di poco cordiale sui gatti e riprese a russare. La sua bambola di cera scivolò via in silenzio come avrebbe fatto il gatto per evitare l’altra scarpa, e nel buio trovò la strada per tornarsene a letto.

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