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Per continuare la ricerca, Heather doveva innanzitutto disconnettersi da Ideko.

Ma come procedere?

Perplessa, indecisa, cercò di analizzare la situazione.

Poteva ovviamente rivisualizzare la struttura centauriana, quindi aprire la porta cubica; in tal modo avrebbe senza dubbio interrotto la connessione.

Ma quanto brutale sarebbe stato quel distacco? Esisteva forse il rischio di un’amputazione psichica? Era possibile che una parte di lei rimanesse intrappolata qui all’interno di Ideko mentre il resto, forse il nucleo dell’io cosciente, veniva espulso e rispedito a Toronto?

Sentiva il cuore martellarle in petto, sentiva la fronte madida di sudore… e pensò che almeno quei legami fisici col proprio corpo rimanevano intatti.

Come fare, dunque, a separarsi? Doveva pur esserci un sistema, e forse anche a portata di mano. Una situazione del genere assomigliava un po’ al ritrovarsi d’un tratto capaci di vedere per la prima volta. Il cervello, nel fare esperienza della luce e del colore, non riusciva a dar senso a ciò che vedeva, non era in grado d’interpretare le immagini nella loro individualità.

O forse equivaleva ad aver subito un’amputazione (ecco di nuovo quella metafora, evidente riflesso dei suoi timori circa il distacco imminente), ricevendo in cambio, supponiamo, un braccio artificiale: null’altro, all’inizio, che un blocco inerte di metallo e plastica penzolante dal moncherino. La mente doveva imparare a controllarlo, ad attivarlo. Bisognava stabilire tutto un nuovo accordo: “questo” pensiero provoca “quel” movimento.

Se un cervello di carne e di sangue poteva apprendere a interpretare la luce, a muovere l’acciaio, a contrarre tendini di nailon su pulegge di teflon, doveva essere senza dubbio anche in grado di sbrigarsela con le regole di questa nuova dimensione. La mente umana non serve a nulla se incapace di adattarsi. La sua carta vincente è l’elasticità.

Heather cercò dunque di calmarsi, di ragionare in modo lucido e sistematico.

Provò a visualizzare, per quanto possibile, ciò che intendeva fare. Il suo cervello era connesso a quello di Ideko: immaginò allora di recidere il collegamento.

Nulla. Rimaneva sempre lì, dentro di lui, partecipe della visione frantumata che in un vortichio di luci e ombre penetrava dai finestrini del vagone a trafiggere la retina di Ideko, alternandosi all’instancabile arrembaggio di lascive fantasticherie immancabilmente rintuzzate.

Volle tentare un’immagine diversa: una soluzione in un bicchiere da laboratorio, la mente di Ideko con lei disciolta dentro, una lieve differenza di rifrazione luminosa a demarcare nitide pennellate di lei sulla remissiva trasparenza di lui. Immaginò di separarsi dalla miscela sotto forma di precipitato: una pioggia d’immacolati cristalli esagonali, a riecheggiare la muraglia delle menti, che scendevano a depositarsi sul fondo del bicchiere…

Funzionava!

La metropolitana di Tokyo scomparve.

Il borbottio dei pensieri di Ideko si spense.

Il chiacchierio di voci giapponesi svanì.

Però…

No!

Nulla venne a sostituirli; solo tenebra assoluta. Aveva lasciato Ideko, ma non era rientrata in se stessa.

Forse doveva uscire dal manufatto. A meno che non s’illudesse, di controllo sul proprio corpo un po’ ne aveva, ancora. Ordinò alla sua mano di sollevarsi verso dove riteneva situato il pulsante di arresto.

Ma la sua mano si muoveva davvero? Cominciò a sentirsi nuovamente invadere dal panico. Forse quella mano se l’immaginava soltanto, alla maniera in cui chi ha subito amputazioni immagina arti fantasma o chi soffre di dolori cronici impara a immaginare di avere in testa un interruttore che, azionato con uno sforzo di volontà, almeno per qualche istante interrompe il patimento.

Continuare l’operazione, uscire dallo psicospazio, le avrebbe confermato se conservava o no il controllo sul proprio corpo materiale.

Ma innanzitutto, maledizione, doveva combattere il panico e sconfiggerlo. Intanto da Ideko si era distaccata, metà cammino l’aveva già percorso.

Soluto che precipitando si separa dal solvente.

Cristalli depositati sul fondo del bicchiere…

…in un mucchietto informe, senza alcun ordine, senza simmetria. • Aveva bisogno di risistemare il suo io recuperato.

I cristalli danzarono, andando a formare una matrice di diamanti bianchi.

Purtroppo non serviva, non funzionava, non…

Ma all’improvviso, meravigliosamente, eccola riunita a se stessa, di nuovo padrona delle proprie percezioni.

La Heather materiale tirò un sospirone di sollievo.

Era tornata nello psicospazio, dinanzi all’immensa parete costellata di esagoni.

Il suo indice si era ritratto di circa un centimetro dal tasto di Ideko.

Naturalmente tutto ciò andava inteso come frutto di una formulazione concettuale, di una semplificazione interpretativa. Il tasto di Ideko non esisteva in quanto oggetto fisico, e senza dubbio lo psicospazio, qualunque cosa fosse, era diverso da come si mostrava a lei. Adesso, comunque, conosceva la ginnastica mentale necessaria a liberarla da una mente altrui. Sapeva come uscire e come reintegrarsi.

E aveva una gran voglia di riprovare.

Doveva però stabilire con quale criterio si collocassero le menti entro il complesso della raffigurazione simbolica. Quello era il tasto di Ideko: ma a chi appartenevano i sei adiacenti? Ai suoi genitori? Ai suoi figli? A sua moglie?… Be’ forse sua moglie no, non esistendo fra loro affinità genetica.

Tuttavia il meccanismo non poteva essere così elementare, o così rigido. Non è possibile incasellare ordinatamente gli esseri umani in base solo ai legami di sangue: ci sono troppe combinazioni, troppe variazioni nella composizione e nelle dimensioni del nucleo familiare.

Poteva darsi allora che fosse capitata nella zona giapponese della parete; forse tutti quegli esagoni rappresentavano individui appartenenti alla medesima cultura. O forse era tutta gente nata lo stesso giorno, sparpagliata quindi ai quattro angoli del mondo.

O forse lei era giunta là guidata dall’istinto. Chissà che l’esagono di Kyle non fosse quello lì a destra, che era stata sul punto di toccare cambiando idea all’ultimissimo istante in favore di Ideko… proprio come a scuola le era successo tante volte di scartare una prima risposta corretta preferendone un’altra che si rivelava sbagliata.

Sette miliardi di possibilità.

E allora vada per il primo esagono. Basta avvicinare il dito e…

Contatto!

Sorprendente anche stavolta.

Sbalorditiva sensazione.

Contatto con un’altra mente.

Mal che vada non era incappata in un daltonico. I colori c’erano tutti, anche se magari un poco strani. La pelle, per esempio, dava troppo sul verde.

Forse ciascuno possedeva una percezione cromatica leggermente diversa e anche le persone senza difetti visivi interpretavano ognuna a modo proprio. Il colore, in fondo, era frutto di elaborazione psicologica. Nel mondo reale non esisteva “il rosso”; si trattava solo della maniera in cui la mente sceglieva d’interpretare le lunghezze d’onda fra 630 e 750 nanometri. In effetti i sette colori dell’iride (rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco e violetto) erano stati determinati da Newton in modo alquanto arbitrario, la loro quantità derivava dal fatto che a Sir Isaac piaceva l’idea che il numero dei colori fosse un numero primo, ma Heather non era mai riuscita a individuare il presunto “indaco” in mezzo al blu e al violetto.

Quasi subito, comunque, la sua attenzione venne catturata da ben altro che la semplice visione dei colori.

L’individuo che la ospitava (di nuovo maschio, o così per lo meno sembrava per via di una vaga ma pur innegabile sensazione di aggressività) era estremamente agitato a causa di qualcosa.

Si trovava in un negozio. Un negozio di articoli vari. Giornalaio tabaccheria profumeria, una cosa del genere. Ma le marche risultavano in gran parte ignote a Heather. E i prezzi…

Ah, il simbolo della sterlina.

Inghilterra, dunque. E quell’inglese (quel “ragazzo” inglese, ne era certa) sembrava particolarmente interessato all’espositore dei dolciumi.

Con Ideko aveva trovato un’invalicabile barriera linguistica, ma stavolta poteva azzardare un approccio diretto. — Ragazzo! — chiamò. — Ehi, ragazzo!

Nessun mutamento nella condizione mentale dell’ospite, che rimase assolutamente inconsapevole del suo tentativo.

— Ragazzo! Giovanotto! Figliolo! — Una pausa. — Babbeo! Segaiolo! — Se non riusciva a scuoterlo così… E invece niente. L’attenzione del ragazzo era completamente concentrata…

Oddio!

…nel tentativo di rubare qualcosa.

Quel dolcetto. “Strozzantino”… che nome idiota.

Heather lasciò perdere, disponendosi a seguire la scena. Il ragazzo (tredici anni: Heather lo seppe nell’istante stesso in cui desiderò saperlo) aveva nella SmartCash soldi sufficienti per pagarsi la merendina. Si infilò in tasca la mano e palpeggiò la carta, presenza rassicurante immersa nel tepore del suo corpo.

Certo, oggi se lo poteva anche permettere, ma poi domani gli toccava restare a bocca asciutta.

Il negoziante, un indiano il cui accento Heather trovava delizioso mentre al ragazzo sembrava ridicolo, stava alla cassa intento a parlare con un cliente.

Il ragazzo prese lo Strozzantino, gettando rapida un’occhiata di traverso.

Il negoziante era sempre indaffarato.

Il ladruncolo indossava un giubbotto leggero provvisto di grandi tasche. Tenendo stretto lo Strozzantino contro il palmo della mano se lo accostò alla tasca, sollevò la patta, lo fece scivolar dentro. Tirò un sospiro di sollievo, e Heather, coinvolta suo malgrado, con lui. Era andata.

— Giovanotto! — scattò la voce dall’accento strano.

Un’ondata di terrore sommerse il ragazzo, facendo tremare anche Heather.

— Giovanotto! — intimò di nuovo la voce. — Fammi un po’ vedere cos’hai in tasca.

Il ragazzo si bloccò. Pensò per un attimo di darsela a gambe, ma l’indiano, che a lui chissà perché sembrava un asiatico, gli sbarrava ora la strada verso l’uscita, tendendogli una mano a palma in su.

— Niente — tentò il ragazzo.

— Ridammi quel dolcino.

Il ragazzo si arrabattò in cerca di una scappatoia: poteva sempre tentare di filarsela; oppure poteva restituire il maltolto e implorare perdono. Magari spiegando al gestore che se suo padre lo veniva a sapere lo ammazzava di botte.

— Le ho detto che non ho preso niente — arrischiò invece, ingegnandosi di far trasparire tutta l’indignazione che una simile infondata accusa meritava.

— Sei un bugiardo. Ti ho visto. E ti ha visto anche lei — precisò il negoziante, indicando una piccola telecamera piazzata sulla parete.

Il ragazzo chiuse gli occhi. La visione del mondo esterno si oscurò, ma nel suo cervello rimasero a fronteggiarsi due nitide immagini… un uomo e una donna che dovevano essere i suoi genitori, e un amichetto di nome Geoff. Quando li grattava lui, i dolciumi, riusciva sempre a portarseli via.

Heather era affascinata. Anche lei, da ragazzina, aveva fatto la sua sciocca e infelice esperienza di taccheggio, tentando senza successo di sgraffignare un paio di jeans da un negozio d’abbigliamento. Sapeva bene che cosa voleva dire essere colti con le mani nel sacco, non aveva dimenticato la paura e la rabbia che ora invadevano il ragazzo. Avrebbe voluto trattenersi a condividerne in un certo senso la sorte, ma il suo tempo era limitato. Si sarebbe dovuta comunque svincolare fra non molto, per ottemperare alle imprescindibili necessità dell’esistenza; stava già rimpiangendo di non aver compiuto una visitina in bagno prima di rientrare nella struttura.

Fece quindi tabula rasa nella propria mente, ed evocando l’immagine dei cristalli che in forma di precipitato abbandonavano la soluzione, si separò dal ragazzo non diversamente da come aveva fatto con Ideko.

Anche stavolta oscurità. Organizzò i cristalli, ripristinando il proprio senso d’identità. Ed eccola di nuovo di fronte alla parete degli esagoni.

Facile, vero? Ma comunque sbalorditivo, e, doveva ammetterlo, davvero un gran bel divertimento.

D’un tratto le venne da pensare alle potenzialità turistiche di un’esperienza del genere. Il problema, con le simulazioni in realtà virtuale, era tutto lì: che si trattava di simulazioni. Sebbene la Sony, l’Hitachi e la Microsoft avessero investito miliardi per creare tutta un’industria del tempo libero basata sulla realtà virtuale, la cosa non aveva mai veramente attecchito. Perché per quanto si facesse, esisteva comunque una differenza fondamentale fra sciare a Banff e sciare a casa propria senza muoversi dal soggiorno. Parte dell’emozione nasceva dalla possibilità di fratturarti una gamba, parte dell’esperienza andava cercata nella vescica piena che non potevi svuotare tanto facilmente, parte del divertimento consisteva nell’abbronzatura naturale che ti procuravi anche in pieno inverno con una giornata sulle piste.

Invece questo intrufolarsi nelle vite altrui era reale. Quel ragazzino inglese avrebbe dovuto affrontare sul serio le conseguenze del proprio crimine. E lei si sarebbe potuta far coinvolgere per tutto il tempo che le pareva, partecipare per ore o anche giorni alle sue tribolazioni. Tutto il fascino del voyeurismo e insieme una vicissitudine più intensa, più eccitante, più imprevedibile di qualsivoglia sia pur sofisticata simulazione preconfezionata.

Ma si poteva disciplinare una simile attività? O l’intera umanità avrebbe dovuto rassegnarsi a che innumerevoli individui scorrazzassero per i cervelli dei loro simili condividendone ogni minima esperienza, ogni più riposto pensiero?

In fin dei conti quei sette miliardi (che di primo acchito ti pigliava lo scoramento) non venivano poi tutti per nuocere, a considerarli da un diverso punto di vista: perché il puro e semplice numero di possibili opzioni, la pressoché assoluta casualità di ogni scelta, ponevano quanto meno al riparo dall’eventualità d’incappare nella mente di una persona conosciuta.

Bisognava d’altra parte riconoscere che proprio “lì” covava la maggior tentazione di quel tuffo verso lo spazio interno. Non altro, in effetti, era andata sinora cercando Heather, e non altro, in sostanza, avrebbe senza dubbio desiderato chi fosse venuto dopo di lei: la possibilità d’immergersi nella mente dei propri genitori, dei propri amanti, dei propri figli, dei propri superiori.

Ma come procedere? Al momento non aveva ancora idea di quale espediente porre in atto per individuare una determinata persona. Kyle era lì da qualche parte, e di sicuro, tentando a caso, non sarebbe mai riuscita a trovarlo.

Heather scrutò, perplessa, l’immensa tastiera dell’umanità.


Mani in tasca, Kyle s’era di nuovo incamminato attraverso il cimitero. Sentiva un velo di sudore scaturire a imperlargli la fronte. Aveva lasciato da poco la tomba di Mary.

Quanta morte. Quanti morti.

Ripensò alla zebra assalita dal leone in agguato e sbranata.

Davvero una maniera orribile di morire.

A meno che…

Rimozione. Dissociazione.

Ciò che Becky sosteneva fosse accaduto a lei.

E non solo a Becky. A migliaia di uomini e donne. Rimozione dei ricordi di guerra, di tortura, di stupro.

Forse, ipotesi azzardata, la zebra non si accorgeva di morire. Forse si distaccava dalla percezione della realtà al momento stesso dell’assalto.

Forse tutti gli animali superiori ne erano capaci.

Per sconfiggere il dolore delle ferite, il terrore della morte.

Ma evidentemente il meccanismo della rimozione poteva essere incrinato, altrimenti i ricordi non sarebbero mai riaffiorati.

O se non incrinato, per lo meno forzato oltre… oltre le sue specifiche progettuali.

Nel mondo animale, non ci sono traumi fisici davvero gravi che non risultino fatali. Certo, un animale può essere spaventato, terrorizzato, e ciò nonostante continuare a vivere. Ma una volta che il predatore abbia azzannato la preda, è quasi certo che questa soccomberà. Basterebbe che il meccanismo di rimozione funzionasse pochi minuti, al massimo poche ore, per risparmiare all’animale gli orrori della morte.

Ammesso, insomma, che nessun animale sopravviva mai a gravi traumi fisici, all’impianto cerebrale non servirebbe la capacità di rimuovere i ricordi per giorni, o settimane, o mesi.

O addirittura anni.

Ma l’umanità, se così vogliamo sforzarci di chiamarla, ha escogitato a sua maggior gloria i traumi non fatali.

Lo stupro.

La tortura.

Gli orrori della guerra.

Dunque la mente umana ha da esser preliminarmente congegnata in modo tale da rimuovere i ricordi delle esperienze fisiche peggiori.

Anche se forse, del tutto involontariamente, dopo un certo periodo tali ricordi finiscono comunque per riemergere. Sino a poche decine di migliaia di anni or sono (quasi nulla, rispetto all’intero arco di tempo che ha visto la presenza della vita sulla Terra) non c’era stato alcun bisogno della rimozione a lungo termine. Probabilmente tale capacità non si è mai evoluta.

Evoluta.

Un concetto che ultimamente ricorreva spesso, nei pensieri di Kyle, da quando Cita gli aveva illustrato come una coscienza a livello di microtubuli potesse nascere spontaneamente attraverso un meccanismo di evoluzione preadattativa.

L’evoluzione riguarda solo quelle caratteristiche che aumentano le possibilità di sopravvivenza; non può, per definizione, plasmare reazioni a eventi verificatisi dopo l’ultimo incontro riproduttivo… e, ovviamente, è sempre la morte l’evento finale dell’esistenza.

In effetti, Kyle non riusciva proprio a concepire in qual modo l’evoluzione avesse potuto predisporre gli animali a una morte misericordiosa, indipendentemente da quanto numerosi fossero gli individui soggetti a beneficiarne. Eppure…

Eppure, se andava riconosciuta validità alla rimozione dei ricordi negli esseri umani, tale capacità doveva pur essere scaturita da qualche parte. Si poteva forse ricondurla allo stesso meccanismo che consentiva agli animali di morire in pace anche mentre venivano mangiati vivi.

Ammesso, ovviamente, che tale meccanismo esistesse.

Ma se esisteva, voleva dire che l’universo non era indifferente alle creature viventi, dopo tutto. E che un qualcosa di travalicante l’evoluzione aveva modellato la vita, dandole, se non senso, almeno libertà dalla tortura.

A parte la tortura che s’innescava quando rispuntavano i ricordi.


Kyle tornò lentamente alla stazione della metro. Metà pomeriggio di un venerdì qualunque: i convogli provenienti dal centro erano zeppi di pendolari in fuga dai luoghi di lavoro. Kyle teneva due corsi estivi, uno dei quali spietatamente fissato alle quattro appunto del venerdì pomeriggio. Prese dunque la via dell’Università per l’ultima lezione della settimana.

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