31

Suonarono alla porta del laboratorio. Al lavoro insieme a Kyle c’erano due specializzandi. Uno di loro andò ad aprire.

— Vorrei vedere il professor Graves — annunciò l’uomo comparso sulla soglia.

Kyle alzò gli occhi. — Il signor Cash, vero? — disse andandogli incontro a mano tesa.

— Esatto. Spero non le dispiaccia se mi presento senza appuntamento, ma…

— Ma no, si figuri.

— Avrei bisogno di parlarle, professore.

— Andiamo nel mio ufficio. — Poi, rivolgendosi a uno dei collaboratori: — Pietro, lei continui intanto a lavorare sul problema dell’indeterminazione. Torno fra pochi minuti.

L’assistente annuì. Kyle e Cash s’incamminarono per il corridoio sino a raggiungere l’angusto vano cuneiforme. Mentre Cash rimirava il poster dell’Allosaurus, Kyle si diede da fare a liberargli una sedia (“Scusi il disordine…”), nella quale poi il visitatore inzeppò il suo corpo angoloso.

— Professor Graves, ha avuto tempo tutto il fine settimana. Mi auguro che abbia trovato modo di prendere in considerazione l’offerta dell’Associazione Bancaria.

Kyle annuì. — Sì, certo, ci ho riflettuto. Cash attese, paziente.

— Mi spiace, signor Cash, ma il fatto è che non me la sento di abbandonare l’Università. In tutti gli anni che ho passato qua dentro, mi sono sempre trovato bene.

Cash annuì. — So che ha conosciuto qui sua moglie e conseguito qui tutte e tre le sue lauree.

— Esatto. — Kyle si strinse nelle spalle. — Praticamente, è casa mia.

— Credevo di averle fatto un’offerta molto generosa — osservò Cash.

— Non lo metto in dubbio.

— Ma se necessario, posso anche aumentarla.

— Non è questione di soldi. Proprio stamattina dicevo la stessa cosa a un’altra persona. Mi piace stare qui e voglio che i frutti delle mie ricerche, se ve ne sono, possano essere pubblicati.

— Ma l’impatto sull’industria bancaria…

— Ascolti, mi rendo conto anch’io che potrebbero sorgere problemi. Crede forse che voglia provocare il caos?

Dovranno passare anni prima che la sicurezza delle carte di credito sia davvero minacciata. Provi a metterla così: siete stati preavvisati che probabilmente, nel prossimo futuro, gli elaboratori quantici diverranno realtà; quindi adesso potete mettervi al lavoro su nuovi sistemi di codifica. Siete sopravvissuti alla crisi dell’anno duemila… supererete di sicuro anche questo ostacolo.

— Speravo tuttavia di poter risolvere la questione rapidamente e nel modo più vantaggioso per tutti.

— Comperando il mio silenzio.

— Ci sono in gioco enormi interessi, professore. Mi dica il suo prezzo.

— Con mia grande soddisfazione, signor Cash, ho scoperto di non essere in vendita.

Cash si alzò. — Eppure tutti gli uomini hanno un prezzo, professore. Nessuno escluso. — Si diresse alla porta. — Se dovesse cambiare idea, me lo faccia sapere.

Poi se ne andò.


Heather aveva un problema: convincere sua figlia della verità. Se voleva rimettere insieme la famiglia, bisognava cominciare da Becky.

Il che portava a una questione ancor più spinosa.

Quando rendere di dominio pubblico la scoperta dello psicospazio?

All’inizio aveva mantenuto il segreto in attesa di sviluppare una teoria adeguata, tale da giustificare la pubblicazione di un articolo. Ma ormai di materiale ne aveva più che a sufficienza.

Eppure esitava ancora. Per assicurarsi la priorità le sarebbe bastato inviare preliminarmente una comunicazione anche sommaria al gruppo di discussione sul Segnale Alieno. In seguito si sarebbe dedicata alla stesura d’ineccepibili resoconti dettagliati da sottoporre al vaglio di specialisti; però poteva annunciare la sua scoperta anche subito. Già, ma poi?

Secondo Platone, una vita avulsa dalla conoscenza non è degna di essere vissuta. Ma il grande ateniese si riferiva alla conoscenza di sé.

Come avrebbe reagito, la gente, sapendo che chiunque poteva scrutare i pensieri di chiunque altro? Che sarebbe successo alla vita privata? Ai segreti industriali? Alla giustizia penale? Ai rapporti interpersonali?

Sarebbe cambiato tutto e, sospettava Heather, non tutto per il meglio.

Comunque non stava li la ragione del suo riserbo. Non si trattava di nobile sollecitudine verso l’altrui intimità, sebbene gradisse pensare che quell’aspetto della questione non la lasciava indifferente; a parte Kyle, in effetti, si era ben guardata dal cedere alla tentazione e raggiunto il suo scopo, non aveva violato la mente di altre persone a lei note.

No, il vero motivo era molto più semplice: le piaceva rimanere, almeno per un po’, l’unica ed esclusiva depositaria di quel potere. Aveva qualcosa che nessun altro aveva e ancora non le andava proprio di cominciare a dividere la torta.

Discutibile quanto si voglia, questo era il suo sentimento. Forse che Superman si era mai preoccupato di escogitare un sistema per conferire superpoteri al resto dell’umanità? No, ovviamente. Gli erano capitati e se li teneva. Perché, quindi, lei avrebbe dovuto precipitarsi a spartire il malloppo?

Non aveva ancora trovato nulla, nello psicospazio, che corrispondesse esattamente agli archetipi junghiani. Non poteva indicare una zona del maelstrom e dichiarare: ecco, quella rappresenta la sorgente dei simboli umani; non poteva scegliere un gruppo di esagoni e affermare: ecco, lì dentro c’è l’archetipo dell’eroe guerriero. Le bastava tuttavia riflettere su che fare con la sua scoperta per riuscire a vedere più a fondo nella propria mente.

Innanzitutto, lei chi era? Una madre? Una moglie? Una scienziata?

C’erano archetipi parentali e archetipi coniugali, ma il concetto occidentale di scienziato non possedeva una definizione junghiana.

Una decisione del genere l’aveva già presa in passato.

La sua carriera poteva attendere; la scienza poteva attendere. La famiglia era più importante.

Adesso era in grado di dimostrare a Becky, così come l’aveva dimostrato a se stessa, che quell’uomo, quel marito, quel padre, non aveva mai commesso gli atti infami di cui era stato ingiustamente accusato. Niente altro doveva avere la precedenza.

Un modo poteva consistere nel mostrare a Becky gli archivi della sua stessa mente. Esisteva però sempre il serio problema di come distinguere i ricordi falsi da quelli veri. Perché i ricordi posticci dovevano apparirle autentici a tutti gli effetti, altrimenti Becky li avrebbe senza dubbio respinti… sì, ovvio, dovevano sembrarle genuini al pari di ogni altro ricordo anche se visti dall’interno… con la differenza…

Con la differenza che non si sarebbe potuto usarli come trampolino per spostarsi nella mente di qualcun altro.

Ma certo!

La traslazione di Necker, il trasferimento nella mente di una persona che doveva aver vissuto e quindi ricordare la medesima scena, sicuramente non avrebbe funzionato se i ricordi erano falsi, se non esisteva effettiva corrispondenza mnemonica fra le due menti.

Heather, nel caso avesse nutrito dubbi residui circa il comportamento di Kyle, avrebbe potuto violare l’intimità di Becky, rintracciare i falsi ricordi e dimostrare a se stessa l’impossibilità di passare dalla prospettiva di Becky a quella di Kyle.

Dubbi, però, grazie al cielo non ne aveva; e inoltre…

Inoltre, una cosa era cercare ricordi che si era augurata con tutto il cuore non esistessero… ben altra cosa vedersi proporre un episodio di molestia, per quanto falso. No, molto meglio lasciare a Becky, che già aveva marchiate dentro di sé quelle immagini ripugnanti, il compito di sperimentare personalmente l’impossibilità, per loro tramite, della traslazione di Necker. Immagini posticce, scene mai avvenute, ricordi creati ad arte… ma Heather preferiva non assistervi.

Se poi Becky avesse preteso un’ulteriore prova, l’avrebbe senz’altro ottenuta ripercorrendo il cammino di Heather, tramite un accesso diretto alla mente di Kyle.

Kyle ne sarebbe uscito completamente scagionato… ma sarebbero davvero migliorate le cose fra padre e figlia se, pur scacciato quel demone, Becky avesse scoperto che nell’affetto di lui aveva contato di più la figlia maggiore, che la sua nascita andava imputata in realtà a un malaugurato incidente che aveva mandato a picco il bilancio familiare in un periodo in cui i suoi genitori stavano ancora lottando per completare il loro corso di studi… e che, oltretutto, nel cervello di suo padre trovavano comunque posto anche pensieri meschini e volgari?

Passava effettivamente di lì la strada verso la guarigione?

Non sembrava proprio.

E poi c’era un modo migliore: far sì che Becky potesse scrutare nella mente dell’analista, constatando di persona la manipolazione e le menzogne.

Il che avrebbe anche potuto, di per sé, non fugare completamente i suoi dubbi. Sebbene i metodi dell’analista fossero inadeguati e fuorvianti, ciò non escludeva in assoluto la possibilità che si fossero verificati abusi. Ma dimostrandole nel contempo che i suoi ricordi erano falsi, presenti solo in lei, non condivisi da nessun altro, si sarebbe probabilmente riusciti a convincerla.

Era tempo di agire. La guarigione non poteva più attendere.

Heather prese il telefono e chiamò Becky.


Il Quartiere della Moda, dove Becky abitava e lavorava, era situato pochi isolati a ovest dell’Università; Heather chiese quindi a Becky d’incontrarsi a pranzo all’Abbeveratoio. Nei giorni trascorsi a indagare la mente di Kyle aveva appreso su di lui molte cose inedite e talvolta curiose, non ultimo il fatto che suo marito nutriva da qualche tempo un vero e proprio debole per quel locale, davanti al quale era passata lei stessa migliaia di volte senza mai entrarvi.

Al momento Kyle era impegnato a lezione, quindi il rischio che finissero per ritrovarsi lì tutti e tre sembrava scongiurato.

Heather conosceva già l’interno dell’Abbeveratoio attraverso la mente di Kyle: cercando i ricordi relativi a Becky, aveva fra l’altro individuato quella volta che Kyle si era confidato con Stone Bailey.

Visitare il locale dal vivo fu comunque sorprendente. Innanzitutto i colori le apparvero, ovviamente, diversi da quelli veduti nella mente di Kyle. Ma non finiva lì. Kyle aveva immagazzinato solo alcuni dettagli, trascurandone molti altri. Gran parte di quanto egli ricordava di quel luogo consisteva in interpretazioni o deduzioni. Certo, l’oloposter della birra Molson con la biondona supercarrozzata non gli era sfuggito, ma quanto agli altri poster che ravvivavano le pareti, li aveva completamente cancellati. E le tovaglie le ricordava di un rosso uniforme, mentre in effetti recavano un motivo a minuscoli quadrettini bianchi e rossi.

Era lunedì 14 agosto; questa settimana Becky lavorava al negozio d’abbigliamento per tutto il sabato e la domenica, però aveva liberi il lunedì e il martedì. Tuttavia era in ritardo e, quando finalmente arrivò, sfoggiava un’aria tutt’altro che allegra.

— Grazie per essere venuta — esordì Heather mentre Becky si accomodava dall’altra parte del tavolino rotondo.

— Ho accettato solo perché mi hai garantito che non ci sarebbe stato lui — rispose Becky, scura in volto; e non c’erano dubbi circa l’attribuzione di quel pronome.

Heather aveva sperato da sua figlia qualche battuta distensiva, qualche notizia di carattere personale, ma la conversazione nasceva sotto cattivi auspici. Inutile tirarla per le lunghe. Annuì, seria, e disse: — Dobbiamo risolvere questo problema con tuo padre.

— Se avete intenzione di propormi una transazione, allora voglio l’assistenza di un avvocato.

Heather si sentì come se l’avessero schiaffeggiata. Annaspò un poco, poi le riuscì di tirar fuori le parole. — Non ci sarà nessun processo.

— Neanch’io vorrei arrivare in tribunale — replicò Becky addolcendosi un po’. Non era mai stata brava a tenere il muso. — Però devi renderti conto che mi ha rovinato l’esistenza.

— No, non è vero.

— Non sono venuta qui per sentirti prendere le sue difese. Cercare di discolparlo è peggio che…

— Basta così! — tagliò corto Heather, con un tono di voce talmente aspro che persino lei ne fu sorpresa. Sul volto di Becky era evidente lo stupore.

— Fammi il piacere di stare zitta — continuò Heather. — Ti stai rendendo semplicemente ridicola. Quindi chiudi la bocca, prima di dire qualcosa di cui ti potresti pentire.

— Vedo che ho fatto male a venire — rinunziò Becky e cominciò ad alzarsi.

— Non ti muovere! — scattò Heather. I pochi avventori, ormai, non facevano più finta di ignorare la scena. Heather trafisse con lo sguardo il più vicino, costringendolo a tornare alla sua pietanza.

— Io posso dimostrarti che tuo padre non ti ha molestato — riprese Heather. — Posso di mostrartelo completamente, oltre ogni ombra di dubbio, finché non capirai e ti convincerai di quale è la verità.

Becky era rimasta a bocca aperta. Fissava sua madre, attonita.

Il cameriere scelse proprio quel momento per fare la sua comparsa. — Buongiorno, gentili signore. Cosa posso…

— Ora no — lo bloccò Heather. Il cameriere ci rimase male, ma batté rapidamente in ritirata.

Becky la guardava incredula. — Come sei diventata aggressiva…

— È perché ne ho strapieni i coglioni. — Per Becky una sorpresa dopo l’altra: quando mai sua madre aveva usato un linguaggio del genere? — Nessuna famiglia dovrebbe passare quello che stiamo passando noi. —. Heather trasse un respiro profondo. — Ascolta, mi dispiace, ma questa storia deve finire. È chiaro? Deve finire! Non ce la faccio a continuare così, e nemmeno tuo padre. Quindi, appena usciamo di qui, tu vieni con me al mio ufficio.

— Che intenzioni hai? D’ipnotizzarmi per farmi credere quello che pare a te?

— Niente del genere. — Fece segno al cameriere, e mentre quello si avvicinava con qualche esitazione, Heather disse a sua figlia: — Se posso darti un consiglio, cerca di non bere troppo. Ho l’impressione che dopo pranzo passerà qualche ora prima che tu abbia occasione di fare pipì…


— Santo Iddio, e quello che sarebbe?

All’espressione di assoluto sbigottimento che si dipinse sul volto di sua figlia appena varcata la porta dell’ufficio, Heather non poté fare a meno di rispondere con un sorriso da guancia a guancia.

— Quello, mia cara, è ciò che i Centauri stavano cercando d’insegnarci a fare. Vedi le piastrelline di cui sono composti i pannelli grandi? Ciascuna di esse è la rappresentazione grafica di uno dei messaggi alieni.

Becky scrutava perplessa la struttura. — Ah, ecco — esitò. Poi, rivolgendosi a Heather: — Mamma, mi rendo conto che per te è stato un brutto colpo, ma…

Heather non poté trattenere una risata. — Così pensi che non abbia retto alla tensione, vero? E che non riuscendo a interpretare i messaggi mi sia messa a pasticciarci a caso, costruendoci degli aggeggi senza senso?

— Be’… — rispose Becky, e fece un gesto all’indirizzo della struttura, come se la sua semplice esistenza spiegasse tutto.

— No, tesoro, stai tranquilla, non mi ha dato di volta il cervello. Quello che vedi è veramente ciò che i Centauri desideravano che noi si facesse coi loro messaggi. Quanto alla forma… dunque, in pratica è lo sviluppo di un ipercubo.

— Di un cosa?

— L’equivalente, in quattro dimensioni, di un cubo tridimensionale. Ora tu lo vedi aperto, sviluppato in tre dimensioni, quindi ti appare come un insieme un po’ buffo di cubi qualunque. Ma nella sua condizione… naturale, cioè richiusa, le braccia sono ripiegate all’interno, le estremità combaciano, e il tutto diviene un vero e proprio solido geometrico… però a quattro dimensioni.

— Già, ma in parole povere a che servirebbe, di preciso? — domandò Becky in tono di palese scetticismo.

— Ti trasporta in un mondo a quattro dimensioni. Ti fa vedere la realtà quadridimensionale nella quale siamo immersi senza che ce ne accorgiamo.

Stavolta Becky non seppe che dire.

— Provare per credere — continuò Heather. — In pratica non devi far altro che entrarci dentro.

— Lì dentro?

Heather si accigliò. — Sì, lo so che avrei dovuto costruirlo più grande, ma insomma… è così.

— Quindi, se non ho capito male, questo coso sarebbe una specie di macchina del tempo che… che mi può riportare indietro a vedere quello che ha fatto papà?

— La quarta dimensione non è il tempo — spiegò Heather. — La quarta dimensione è una ulteriore direzione nello spazio, esattamente perpendicolare alle prime tre.

— Ah — disse Becky.

— E anche se noi esseri umani, in tre dimensioni, ci manifestiamo come individui, come organismi separati, a osservarci in quattro dimensioni si scopre che in realtà facciamo parte tutti quanti di un insieme più grande.

— Ma che diavolo stai dicendo?

— Sto cercando di spiegarti in qual modo abbia ottenuto la certezza che tuo padre non ti ha mai molestato. E di farti capire che allo stesso modo potrai conoscere anche tu la verità.

Becky rimase in silenzio.

— Ascolta, non ti sto raccontando frottole. — insisté Heather. — È probabile che presto decida di rendere pubblica la mia scoperta. Ma voglio farla conoscere a te prima che a chiunque altro. Voglio che tu faccia l’esperienza di entrare nella mente di un’altra persona.

— Vuoi dire nella mente di papà?

— No, ci ho riflettuto e non mi pare corretto. Voglio invece che tu faccia una visitina alla tua analista: ti dirò io come trovare la sua mente. Non credo che tu debba entrare nella mente di tuo padre senza il suo permesso. Ma quella maledetta analista… quell’infame non merita alcun rispetto.

— Via, mamma, in fondo non la conosci neppure…

— Certo che la conosco. Sono anche andata a trovarla.

— Cosa? Ma se non sai nemmeno come si chiama.

— Lydia Gurdjieff. Ha l’ufficio a Lawrence West. Becky la fissò sbigottita.

— Lo sai cos’ha tentato di fare, con me? — incalzò Heather. — Ha cercato di farmi confessare l’abuso che a suo parere avrei subito da parte di mio padre.

— Ma… tuo padre… tuo padre…

— Morì prima della mia nascita. Esatto. Pur essendo quindi assolutamente impossibile che io sia stata molestata da lui, secondo la Gurdjieff mostrerei tutti i sintomi del caso. È abile e furba, e il suo mestiere lo conosce, questo è certo. Con le sue chiacchiere è quasi riuscita a convincermi che qualcuno abbia in effetti abusato di me. Non mio padre, si capisce, ma qualche altro parente.

— Io… io non ci credo. Te lo stai inventando. — Becky fece un gesto sprezzante verso la struttura. — Ti sei inventato tutto.

— E invece è tutto vero. Puoi controllare di persona. Vedrai la Gurdjieff instillare in te ricordi che non ti appartengono, basati solo sulle sue personali ossessioni, e in più ti spiegherò come ottenere un’ulteriore dimostrazione che si tratta di falsi ricordi. Dammi retta, entra nella struttura e…

Sebbene ancora sospettosa, Becky cominciava a cedere. — La struttura? È così che la chiami? Non la… centaurimobile?

Heather si sforzò di mantenere un tono calmo e paziente. — Bisognerà che ti presenti a Cita, un amico di tuo padre. Avete lo stesso senso dell’umorismo. — Respirò a fondo. — Ascolta, sono tua madre, e non ti farei mai del male. Devi darmi fiducia e accettare questa prova. Quando sarai lì dentro a occhi aperti non ci potremo parlare, ma se li chiudi, dopo qualche istante vedrai riapparire nella tua mente l’interno della struttura. Se hai bisogno di aiuto non devi far altro che premere il pulsante di arresto… quando sei in posizione te lo faccio vedere. In quel modo l’ipercubo si sviluppa e ridiventa come lo vedi ora, così tu riapri la porta e io ti spiego come andare avanti. Non preoccuparti, non è che ogni volta devi ricominciare da capo: a ogni partenza ti ritrovi nel punto in cui eri quando ti sei fermata. Adesso entra, per favore. A proposito, lì dentro fa abbastanza caldo. Non ti dico di metterti in mutandine e reggiseno come faccio io, però…

— In mutandine e reggiseno?

Heather sorrise rassicurante. — Cara, fidati di me. E adesso coraggio, entra.


Quattro ore dopo, Heather aiutò Becky a rimuovere la porta cubica e Becky uscì dalla struttura, accettando ben volentieri la mano salda e rassicurante che era lì ad attenderla.

Il volto inondato di lacrime, incapace di esprimere a parole ciò che provava, Becky cadde fra le braccia accoglienti di sua madre.

— È tutto a posto, tesoro, va tutto bene, ora — la cullò Heather carezzandole i capelli.

Becky tremava in tutto il corpo. — Incredibile — riuscì a mormorare. — In vita mia non avevo mai…

Heather sorrise. — Ne valeva la pena, vero?

La voce di Becky si fece più ferma e più dura. — Mi ha usato — disse. — Mi ha manipolato.

Heather non rispose. Sebbene addolorata per il turbamento di sua figlia, sentiva un gran sollievo inondarle il cuore.

— Mi ha usato — ripeté Becky. — Ma come ho fatto a essere tanto stupida? Come ho fatto a sbagliarmi così?

— Non angustiarti — la rincuorò Heather. — Non è stata colpa tua. E adesso è finita.

— No — replicò Becky. — Non è finita per niente. — Continuava a tremare e la spalla di Heather era umida delle sue lacrime. — C’è ancora papà. Con che coraggio… Che cosa dirò a papà?

— L’unica cosa che gli puoi dire. L’unica cosa che c’è da dire. Che ti dispiace.

— Ma ora non mi vorrà più bene — obiettò Becky esalando una vocina da scricciolo.

Ponendole una mano sotto il mento, Heather sollevò con delicatezza il volto lacrimoso di sua figlia. — Se c’è una cosa di cui sono assolutamente certa, tesoro mio, è che tuo padre non ha mai smesso di volerti bene.

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