L’uomo grassoccio continuò a seguire Kyle Graves, che rientrava a Mullin Hall masticando la sua mela. Si chiamava Fogarty e stava svolgendo un incarico per conto dell’Associazione Bancaria Nordamericana. Non che l’ΑΒΝ fosse per lui un gran cliente, ma comunque ogni tanto Cash gli telefonava proponendogli qualche lavoretto.
A Fogarty tornava proprio bene che Graves non fosse andato direttamente in stazione, perché altrimenti non avrebbe avuto l’opportunità di guadagnarsi l’onorario in giornata. Invece così non ci sarebbero stati problemi a sorprendere Graves da solo in ufficio o in laboratorio. D’estate l’università era di per sé poco frequentata, e nel tardo pomeriggio Mullin Hall doveva essere quasi completamente deserto. Fogarty si fermò a un distributore di giornali e scaricò il “Globe And Mail” in un digimemo rubato. Aveva in precedenza perlustrato Mullin Hall: se ne sarebbe rimasto tranquillamente seduto a leggere nella sala studenti al terzo piano, aspettando che l’edificio si svuotasse. Poi avrebbe risolto, una volta per tutte, il problema Kyle Graves.
All’improvviso Heather sentì che qualcosa s’impadroniva di lei. Il suo corpo invisibile, sinora liberamente fluttuante nello psicospazio, fu come afferrato da una mano gigantesca. Si vide sollevare e allontanare inesorabilmente dalla parete di esagoni. Senza alcuno sforzo mentale da parte sua la prospettiva mutò dall’interno dei due emisferi congiunti alla visione esterna delle due sfere separate, col maelstrom d’oro e argento e rosso e verde a far da sfondo in lontananza.
Due lunghi serpenti iridescenti guizzarono quasi contemporaneamente di fronte a lei, uno verso l’alto, uno verso il basso. Si stava adesso proiettando avanti a velocità mozzafiato, o così almeno le sembrava, dato che non avvertiva alcuna resistenza aerodinamica, a parte la quasi subliminale sensazione del ricircolo d’aria all’interno della struttura.
La sagoma immensa dei due globi andava precipitosamente svanendo alle sue spalle. Avvenne per un istante una nuova conversione di Necker che offrì alla sua percezione una diversa prospettiva dimensionale. Heather vide il maelstrom trasformarsi in una serie di esili forme discoidi bronzodorate cupreoargentee che simili a piattelli da hockey o sensori cercametalli visti di fianco si accatastavano in colonne vacillanti, mentre lo spazio circostante si dissecava in lunghi nastri di seta biancastra.
L’inedito scenario si riconvertì quasi immediatamente nell’interno degli emisferi, e lei si ritrovò a sfrecciare orizzontalmente verso uno sconfinato oceano di mercurio la cui scintillante superficie pur non restituendo vampirescamente traccia del suo riflesso l’indusse a sollevare istintivamente le mani a proteggersi il volto un attimo prima di…
… colpire la superficie, che si frantumò appunto come fosse mercurio in migliaia di grumi rotondeggianti.
Ulteriore oscillazione di Necker in visuale esterna, coi due globi ormai lontani, il maelstrom dritto di fronte, e lei che continuava a catapultarsi innanzi dopo l’impatto che visivamente splendido ma perfettamente innocuo l’aveva scagliata incolume oltre i confini della sfera.
Il maelstrom non appariva più come uno sfondo infinitamente distante. Si andava con impressionante rapidità delineando a ogni momento più vicino, prossimo, incombente…
…finché una cavità pentagonale perfettamente regolare non le si parò dinanzi.
Proprio così: un pentagono in luogo di un esagono. Le forme poligonali incontrate finora nel tetraspazio si erano tutte manifestate con sei lati, ma questa apertura ne presentava solo cinque.
Nell’approssimarsi ulteriormente Heather constatò che non si trattava di una semplice cavità, bensì piuttosto di una profondissima galleria a sezione anch’essa pentagonale le cui pareti interne apparivano lucide, umide, azzurrine… un colore che, si rese conto, non aveva mai prima d’ora rilevato osservando lo psicospazio.
Intuì che il pentagono doveva appartenere all’altra supermente e che proprio in esso si estrinsecava l’estensione protesasi a saggiare con quel primo contatto l’inconscio collettivo umano.
Non solo, ma d’improvviso comprese anche quale fosse il proprio ruolo e perché mai i Centauri si fossero presi tutto quel disturbo per insegnare agli umani a costruire un dispositivo con cui accedere al tetraspazio.
La supermente umana non poteva scrutare dentro di sé, non più di quanto Heather fosse in grado di vedere l’interno del proprio corpo. Adesso però che una delle sue estensioni tridimensionali, penetrata sotto la superficie, la percorreva in lungo e in largo, essa poteva utilizzarne le facoltà percettive per determinare con esattezza che cosa stesse accadendo. Heather fungeva dunque da laparoscopio per l’inconscio collettivo, occhi e orecchie al servizio dell’umanità intera mentre essa si adoperava a trarre un senso da quanto stava per la prima volta sperimentando.
I Centauri avevano sopravvalutato l’intelligenza umana. Agendo nella convinzione che quando la loro super-mente fosse entrata in contatto con la nostra avrebbe trovato milioni di umani già in navigazione alla scoperta dello psicospazio, l’avevano invece mandata a incontrare un solo piccolo fragile individuo.
Tuttavia il loro intento era chiaro: avevano bisogno che la supermente umana accogliesse il visitatore come un amico e non come una minaccia, e che l’umanità gli porgesse il benvenuto e non il guanto della sfida. Forse la supermente terrestre non era la prima con cui i Centauri tentassero un approccio; forse un precedente contatto non era andato per il verso giusto e quell’impressionante primo tocco dall’esterno aveva gettato nel terrore chissà quale altra supermente aliena o l’aveva addirittura fatta impazzire.
Heather stava in effetti operando, a beneficio della supermente, ben più che non il semplice vedere: faceva da tramite per i suoi pensieri. Nel considerare la presenza aliena con meraviglia, trepidazione ed entusiasmo sentiva, in un equivalente psichico della visione periferica, quelle stesse emozioni riverberarsi nella supermente umana.
E questo era un fatto positivo e promettente, era esaltante, stimolante, affascinante e…
…e anche qualcos’altro.
La marea psichica invertì il suo moto, pensieri provenienti dalla supermente umana presero a riversarsi su Heather inondandola, sommergendola. Era una sensazione completamente nuova, per la supermente, qualcosa di mai provato prima. Si trattava invece per Heather, come per gran parte delle estensioni tridimensionali popolanti il pianeta Terra, di un fenomeno già talvolta, seppur limitatamente, sperimentato di persona. E lei si trovò di nuovo a fare da tramite per i pensieri della supermente, aiutandola a foggiarli, a interpretarli.
E poi…
E poi ecco levarsi di ritorno altre onde della nuova sensazione: onde immense, stavolta, possenti, meravigliose onde…
Onde travolgenti…
Mentre l’intera supermente umana irresistibilmente risuonava su di un’unica nota cristallina trasformandosi, trascendendo, trasumanando…
Heather chiuse gli occhi tenendoli ben stretti e la struttura le si riformò intorno appena in tempo, prima che lo tsunami della nuova inebriante percezione irrompesse impetuoso a trascinarla via.
Perfettamente calmo nel grigiore della sua giacca anonima, Fogarty spense il digimemo e se lo fece scivolare in tasca, dove quello urtò con rumore di plastica lo storditole militare che già vi si trovava.
Ormai da mezzora in corridoio non passava nessuno; l’edificio era deserto e silenzioso come meglio non poteva essere. Quando Graves vi era entrato, Fogarty l’aveva seguito, osservando la sua preda raggiungere non il laboratorio bensì l’ufficio.
Fogarty si alzò e impugnò lo storditore nel palmo grassoccio. Non doveva far altro che toccare il corpo di Graves, e l’uomo sarebbe stato attraversato da una corrente elettrica sufficiente a fermargli il cuore. Coi precedenti cardiaci che si ritrovava, era difficile che qualcuno potesse sospettare un’aggressione. Ma poi che sospettassero pure. Chi avrebbe mai potuto metterla in relazione con Fogarty o con Cash? Una scarica di storditore non porta la firma di nessuno. A ogni buon conto, Fogarty aveva le mani coperte da uno strato di plastipelle modellata con le impronte digitali dello stesso Graves, il che gli avrebbe consentito d’ingannare la serratura scongiurando nel contempo il rischio di lasciare in giro tracce compromettenti.
Fogarty diede un’ultima occhiata in corridoio per assicurarsi che fosse deserto, poi si diresse verso la porta dell’ufficio di Kyle.
Ovviamente non gliene fregava nulla della minaccia all’industria bancaria, non erano fatti suoi. A sentir Cash avevano già comprato il silenzio di uno scienziato israeliano, ma se questo Graves era troppo stupido per approfittare dell’occasione, be’, peggio per lui.
Fogarty fece un passo e…
…e tutt’a un tratto si sentì confuso, lievemente disorientato, lo smarrimento di un attimo.
Finito. Però…
Kyle Graves, pensò. Età quarantacinque, stando all’informativa fornitagli da Cash.
Padre, marito… secondo Cash si era da poco riconciliato con la moglie.
Brian Kyle Graves… un altro essere umano.
Fogarty palpeggiò lo storditore, quasi a sincerarsi di averlo ancora in mano.
Certo, dall’informativa veniva fuori che quel Kyle era un tipo per bene e oltretutto…
Ecco, oltretutto a Fogarty non sarebbe piaciuto che qualcuno facesse a lui uno scherzetto del genere.
Un altro passo. Gli giunse il suono soffocato di Graves che dettava all’elaboratore testi.
Fogarty s’immobilizzò, incapace di procedere oltre. Che diavolo gli prendeva, solo nell’anno scorso aveva risolto una trentina di problemi così; e adesso…
Adesso invece…
“Non posso farlo” pensò. “Non posso”.
Si girò e si allontanò in silenzio per il corridoio.
Terminato di dettare la relazione, Kyle prese la via dell’Abbeveratoio dove aveva appuntamento con Stone Bentley, proveniente direttamente da un convegno al Royal Ontario Museum.
— Una volta tanto sembreresti decisamente di buon umore — lo accolse Stone, mentre Kyle gli sedeva di fronte. — Che ti succede?
Kyle sorrise. — Era un pezzo che non mi sentivo così bene. Mia figlia si è resa conto di essersi sbagliata.
Le sopracciglia di Stone diedero un soprassalto. — Questa sì ch’è una buona notizia!
— Vero, eh? Fra poche settimane è il mio compleanno e non avrei potuto sperare in un regalo migliore.
Arrivò la cameriera.
— Un bicchiere di vino rosso — ordinò Kyle. Stone era già alle prese col solito boccale di birra.
La cameriera trotterellò via.
— Ti volevo ringraziare, Stone — disse Kyle. — Senza di te non so se ce l’avrei fatta. — Stone rimase zitto e Kyle proseguì. — A volte essere uomini non è facile per niente… quando ci sono di mezzo certe questioni, la gente dà per scontato che uno sia colpevole. A ogni modo il tuo sostegno ha voluto dire molto per me. Sapere che ti eri già trovato in una situazione un po’ come la mia, uscendone magari un tantino malconcio ma ancora vivo, mi dava… non so, credo che “speranza” sia il termine giusto.
Ricomparve la cameriera e depose il vino sul tavolo. Kyle la ringraziò con un cenno del capo, quindi alzò il bicchiere. — A noi due… i sopravvissuti.
Dopo un attimo anche Stone sollevò il boccale, consentendo a Kyle di fare cincin. Però lo riappoggiò senza bere. E distolse lo sguardo, fissandolo nel vuoto.
— Nel mio caso era vero — mormorò. Kyle non aveva capito. — Come, scusa?
Stone tornò a fissarlo. — Quella ragazza, cinque anni fa… l’avevo molestata davvero. — Sostenne lo sguardo di Kyle per qualche secondo, forse in attesa di una reazione, poi chinò gli occhi sulla tovaglia.
— Ma la studentessa non ritrattò? — domandò Kyle.
Stone assentì quasi impercettibilmente. — Prove non ne aveva, sapeva di aver perso la partita, e poi in facoltà non campava più, con quasi tutti gli altri maschi che le tenevano il muso o facevano finta di non vederla. In quel modo sperava di sdrammatizzare un po’ le cose. — Stone si decise a mandar giù un sorso di birra. — Comunque ha finito per trasferirsi alla York… In certe situazioni, meglio darci un taglio.
Non sapendo che dire, Kyle prese tempo guardandosi attorno nel locale.
— Il fatto è che… — continuò Stone. — Ecco, lo so anch’io che c’è poco da giustificarsi, ma cavolo, per me era un momentaccio. Io e Denise stavamo divorziando, e… — Tacque un momento. — Comunque fu un’idiozia, una vera idiozia.
Kyle sospirò. — E tutto questo tempo te ne sei stato qui tranquillo a farti raccontare i miei problemi con Becky?…
Stone si strinse un poco nelle spalle. — Be’… pensavo che tu fossi colpevole.
La voce di Kyle si fece dura. — Ma se ti avevo detto di no.
— Lo so, lo so. Ma se invece eri colpevole… allora eri un bastardo anche peggiore di me, non credi? Tu sei un tipo a posto Kyle… e ho pensato che se uno come te poteva commettere una porcheria del genere, be’, allora quello che avevo combinato io un pochino almeno si ridimensionava. Insomma, cose che a volte succedono, mi spiego?
— Stone, ma ti rendi conto di quello che dici?
— Hai ragione. Comunque stai sicuro che non ci ricasco.
— Il lupo perde il pelo…
— No, ti giuro, adesso sono diverso. Non te lo so spiegare, ma sono cambiato, sul serio. Qualcosa dentro di me non è più come prima. — Stone si frugò in tasca ed estrasse la sua SmartCash. — Ascolta, capisco che non mi vorrai più vedere. Sono contento che fra te e tua figlia si sia aggiustato tutto. Davvero, sono proprio contento. — Si alzò.
— No — disse Kyle. — Rimani. Stone parve esitare. — Sei sicuro? Kyle annuì. — Sì, sono sicuro.
Martedì mattina Heather arrancava su per gli scalini di Mullin Hall, le braccia stracariche dei libri che voleva avere a portata di mano durante la conferenza stampa indetta per il giorno dopo al laboratorio di Kyle. Oggi l’umidità era abbastanza bassa e il cielo era sereno, un’incontaminata coppa cerulea.
Proprio dinanzi a sé Heather scorse un paio d’ampie spalle dall’aspetto familiare, bardate d’una giacca in pelle Varsity Blues col nome KOLMEX impresso a chiare lettere: lo stesso marmittone che due settimane prima aveva sbattuto in faccia a lei e a Paul la porta di Sid Smith.
Pensò di richiamare la sua attenzione ma non ce ne fu bisogno, perché il giovane atleta, lasciandola di stucco, raggiunto l’ingresso si fermò, si guardò attorno per controllare se arrivava qualcuno, vide Heather, spinse la porta e rimase lì a tenerle aperto il battente.
— Grazie — sorrise Heather nel passargli accanto.
— Piacere mio. Buona giornata — rispose lui restituendole il sorriso.
Ma la cosa davvero strana, pensò Heather, era che dava l’impressione di dire sul serio.