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Quelli dell’Editrice Pazzi hanno un asso nella manica e sono vulnerabili al rapimento!

Le orecchie acute, ai tavoli vicini (e i microfoni direzionali a quelli più lontani), che fino a quel momento avevano afferrato soltanto frammenti del monologo di Heloise, udirono chiaramente quell’ultima frase.

Coloro che quella sera erano venuti alla Parola in caccia di allusioni e di piste in una promettente ma preoccupante crisi commerciale, decisero di aver trovato il bandolo che cercavano.

I treni dell’azione si misero in moto. Con vari gemiti, scricchiolii e tonfi figurati, le ruote cominciarono a girare. Fra tutti coloro che reagirono, i principali attori rappresentavano un vivido campionario dell’uomo dell’Età dello Spazio, ossessionato dal danaro.

Wiston P. Mears, agente con quattro stelle dell’Ufficio Federale di Giustizia, mandò a memoria il seguente promemoria per se stesso: “La Razzi ha le maniche gonfie. Uova? Cocomeri? Lattuga? Mettersi in contatto con la signorina Blushes”. Gli aspetti fantastici del Caso dei mulini-a-parole non turbavano affatto Mears. Era abituato a una società in cui quasi ogni azione di ogni individuo poteva essere considerata un reato, ma in cui qualsiasi reato commesso da gruppi od organizzazioni poteva essere giustificato almeno sei volte. Persino la dissennata distruzione dei mulini-a-parole non sembrava fuori dell’ordinario in un mondo abituato a tenere in piedi la propria economia distruggendo oggetti di valore. Mears, grassoccio e rubicondo, aveva assunto la personalità fittizia del buon Charley Hogan, un grosso coltivatore di plancton e di alghe proveniente da Baja, in California.

Gil Hart, procuraguai industriale, comprese che ora sarebbe stato in grado di riferire ai signori Zacheru e Zobel dell’Editoriale Protone che i sospetti sui loro colleghi e concorrenti diretti erano pienamente giustificati. L’investigatore privato soffiò sul bicchiere fiammeggiante e ingurgitò la tremenda sorsata di bourbon. Un sorriso raggrinzì le sue guance sfumate di azzurro. Rapimento? Avrebbe potuto darsi un po’ da fare, al riguardo, per scoprire il segreto della Razzi. Dopo tutto, il rapimento industriale era diventato un luogo comune in una società in cui due secoli di sequestri di persona perpetrati dal governo facevano ormai testo. Sarebbe stato divertente se fosse riuscito a rapire una ragazza della Razzi. Qualcuna vivace e loquace come quella esplosiva Ibsen, ma preferibilmente meno robusta. Le amazzoni dai cattivi costumi erano magnifiche, fino a che non sferravano pugni troppo forti.

Filippo Fenicchia, gangster interplanetario noto come La Garrota, sorrise ironicamente e chiuse gli occhi che erano la sola cosa viva sul suo viso lungo e pallido. Era uno dei vecchi frequentatori della Parola, che veniva a osservare quei buffoni degli scrittori; lo divertiva il fatto che la possibilità di concludere un affare lo perseguitasse perfino lì dentro. La Garrota era un uomo tranquillo, sereno nella certezza che la paura è il sentimento umano più fondamentale e duraturo, e che giocare sulla paura altrui è sempre il metodo più sicuro per ricavarne da vivere, fossero i tempi di Milone e di Clodio, di Cesare Borgia o di Al Capone. Il precedente riferimento alle uova gli si impresse nella mente. Decise che avrebbe dovuto consultare la Memoria.

Clancy Goldfarb, distributore clandestino di libri, così abile che la sua organizzazione era ufficiosamente riconosciuta come la quarta, in ordine di potenza, fra quelle che provvedevano alla distribuzione libraria, decise che molto probabilmente ciò che la Razzi aveva nella manica erano libri prodotti in surplus dai mulini. Accese un sigaro venusiano lungo una trentina di centimetri e sottile come una matita, e cominciò a elaborare il piano di una delle sue perfette rapine.

Cain Brinks era un robot scrittore d’avventure, la cui Madame Iridio era la principale rivale del dottor Tungsteno di Zane Gort. Al momento Madame Iridio e la Bestia d’Acido stava battendo nelle vendite per cinque a quattro Il dottor Tungsteno allarga un dardo con un’alesatrice. Quando udì lo stridente sussurro di Heloise, Cain Brinks per poco non lasciò cadere il vassoio carico di Martini marziani che stava portando. Per penetrare nella Parola senza farsi riconoscere, Cain Brinks si era scrupolosamente sciupato la corazza, fino al punto di butterarla, quel pomeriggio, per poter impersonare un robot cameriere.

Ora il suo masochismo lo ripagava. In un lampo capì che cosa aveva nella manica l’Editrice Razzi… uno Zane Gort deciso a diventare lo zar della narrativa umana. E cominciò a fare i suoi piani per intervenire.

Mentre avvenivano tutte queste reazioni, una strana processione si faceva strada nell’interno della Parola, muovendosi fra i tavoli verdi verso il centro della sala. Era composta da sei giovanotti snelli e arroganti che davano il braccio a sei vecchie signore ossute e arroganti, seguiti da un robot tempestato di gemme che spingeva un carrello.

I giovani avevano i capelli lunghi e indossavano maglioni neri dal collo alto e aderenti calzoni neri. Le vecchie indossavano aderenti abiti da sera di lamé d’oro e d’argento, ed erano sovraccariche di abbaglianti collane, braccialetti, pendenti e tiare di brillanti.

— Mio Dio, pupa — riassunse succintamente Homer Hemingway, — guarda quelle vacche milionarie e quegli effeminati vestiti di nero, per favore.

Il corteo si fermò proprio accanto al loro tavolo. La femmina che lo guidava e i cui brillanti erano così grossi e scintillanti da fare male agli occhi, si guardò intorno con aria altezzosa.

Homer, la cui mente assonnata vagabondava come quella di un bambino, disse lamentosamente a Heloise: — Vorrei sapere quanto tempo ci metterà quella piccina a portarmi il latte. Se ci mette dentro qualche eccitante…

— Un afrodisiaco, più probabilmente, se pensa che tu ne valga la pena — gli disse Heloise, in un rapido sussurro, mentre fissava affascinata i nuovi arrivati.

La femmina indiamantata annunciò, con un tono di voce adatto a rabbuffare un fattorino: — Stiamo cercando il capo del sindacato scrittori.

Heloise, che non si lasciava mai cogliere di sorpresa, balzò su.

— Sono il membro di più alto rango del comitato esecutivo.

La femmina la squadrò da capo a piedi.

— Lei va bene — disse. Batté due volte le mani. — Parkins! — chiamò.

Il robot costellato di gioielli spinse avanti il carrello. Vi erano ammonticchiate in bell’ordine venti colonne, alte quattro piedi, di sottili libri rilegati le cui sovraccoperte elegantemente intonate avevano a loro volta una lucentezza gemmea. In cima al mucchio c’era un oggetto dalla forma irregolare avvolto di seta bianca.

— Noi siamo Gente di Penna — annunciò la femmina guardando in faccia Heloise e parlando con i toni penetranti che una imperatrice userebbe in una rumorosa piazza del mercato. — Per oltre un secolo noi abbiamo preservato le tradizioni del vero scrivere creativo, nelle nostre cerchie selezionate, in attesa del giorno glorioso in cui le orride macchine che confondono le nostre menti sarebbero state distrutte e lo scrivere sarebbe ritornato ai suoi unici veri amici… gli ispirati e devoti dilettanti. Per anni e anni abbiamo spesso esecrato il vostro sindacato per la sua complicità nella congiura intesa a fare dei mostri metallici i nostri padroni spirituali: ma ora desideriamo riconoscere il vostro coraggio nel distruggere i tirannici mulini-a-parole. Perciò, vi faccio dono di due pegni della nostra stima. Parkins!

Il costosissimo robot aprì la seta bianca, rivelando una statua d’oro, lucente come uno specchio, raffigurante un giovane nudo che affondava una enorme spada nel diaframma di un mulino-a-parole.

— Guardate! — gridò la femmina. — È opera di Gorgius Snelligrew, eseguita, fusa e levigata in un solo giorno. È posata sull’intera produzione letteraria della Gente di Penna durante l’ultimo secolo… Gli snelli candelieri, avvolti in sovraccoperte pastello cosparse di polvere di gemme, grazie ai quali abbiamo tenuto viva la fiamma della letteratura durante l’arida età delle macchine ora conclusa: millesettecento volumi di versi immortali!

Suzette scelse quel momento per arrivare ancheggiando e reggendo una coppa di cristallo piena di liquido bianco, dalla quale si levava una fiamma azzurra alta mezzo mètro.

La posò di fronte a Homer e la coprì per un attimo con un piatto d’argento.

Poi tolse il piatto. La fiamma era scomparsa e l’insopportabile puzzo della caseina bruciata riempì l’aria.

Con un’ultima mossa delle sue anche impertinenti, Suzette annunciò: — Ecco qui, caldo al punto giusto… il vostro latte alla fiamma, M’sieu.

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