4

Uno degli ultimi incidenti del Massacro dei mulini-a-parole (che qualche storico paragonò più tardi all’incendio della Biblioteca di Alessandria, o ai roghi di libri dei nazisti, e qualche altro alla Presa della Bastiglia) si verificò fuori della grande sala a volta, proprietà comune della Editrice Razzi e dell’Editoriale Protone. Là, dopo l’orribile fine del Maestro Parolaio di Gaspard a opera di Heloise Ibsen, vi era stata una pausa nell’orgia di distruzione. Tutti i visitatori superstiti erano fuggiti, tranne le due anziane insegnanti che, appoggiate a una parete, si stringevano l’una all’altra per sorreggersi e si guardavano intorno sconvolte e inorridite, incapaci di agire.

Aggrappato alle due donne ed evidentemente altrettanto spaventato, c’era uno snello robot di alluminio anodizzato di un rosa molto carico… un robot dalla vita di vespa e dalle caviglie e dai polsi esilissimi, molto più snello dell’elegante Zane Gort e dall’aspetto stranamente femmineo.

Circa un minuto dopo l’esplosione, Joe la Guardia si levò in piedi, accanto all’orologio, attraversò lentamente il locale e tolse da un armadietto una ramazza e una pattumiera dal coperchio a scatto, poi tornò indietro lentamente e cominciò con lentezza ancora maggiore a spazzare intorno agli orli il mucchio dei detriti che circondavano il mulino-a-parole sfasciato, raccogliendo schegge metalliche, pezzi di isolante e stoffa turchese.

Una volta raccolse un bottone d’opale dai rottami e lo fissò per dieci interi secondi prima di scuotere il capo e di lasciarlo cadere nel secchio con un lieve ping.

Le due insegnanti e il robot clamorosamente roseo lo seguirono con tutti i loro cinque occhi, quasi aggrappandosi a ognuno dei suoi movimenti. Era una ben povera figura paterna e un ben povero simbolo di sicurezza, per quel che potevano valere quei simboli e quelle figure, ma per il momento era tutto quello che c’era a disposizione e quindi avrebbe dovuto bastare.

Joe la Guardia aveva riempito e vuotato due volte la pattumiera (un’operazione che ogni volta richiedeva una lunga assenza dalla sala), quando gli scrittori resi frenetici dalla vittoria apparvero in forze, spingendosi nella vasta sala in un cuneo al cui vertice c’erano, terrificanti, le fiamme lunghe sei metri di tre lanciafiamme.

Mentre le tre squadre, composte rispettivamente dall’uomo che manovrava la canna del lanciafiamme e dall’uomo che reggeva il serbatoio, si mettevano al lavoro sui cinque mulini-a-parole che ancora rimanevano, gli altri scrittori vorticarono tutto intorno, strillando a pieni polmoni: sembravano abitanti dell’inferno, nel bagliore rosso e fumoso. Si stringevano reciprocamente le mani, si battevano le mani sulle spalle e si baciavano, si gridavano nelle orecchie i particolari più atroci della distruzione di un mulino-a-parole più odiato degli altri, e poi esplodevano in risate ruggenti.

Le due insegnanti e il robot clamorosamente roseo si strinsero in un abbraccio ancora più disperato. Joe la Guardia si voltò a guardare gli intrusi, scosse di nuovo il capo e, imprecando sottovoce, proseguì il suo inutile tentativo di rimettere in ordine.

Alcuni scrittori formarono spontaneamente una fila indiana a forma di serpente e ben presto tutti gli altri, a eccezione di coloro che maneggiavano i lanciafiamme, si unirono loro. Con le mani sulle spalle dello scrittore che lo precedeva, ciascuno camminava battendo o trascinando i piedi in una spirale contorta che si attorse due volte attorno alla sala, passando in mezzo ai mulini-a-parole anneriti e sconquassati, e curvando attorno alle fiamme fetide. Mentre si muovevano, due passi avanti e un passo indietro, lanciavano ritmicamente grida e grugniti animaleschi.

Quando una spira del serpente si piegò verso di loro, le due insegnanti e il robot roseo arretrarono ancora contro la parete. Joe la Guardia era rimasto in trappola tra la spirale interna e quella esterna, ma continuò a spazzare, scrollando ininterrottamente il capo e brontolando fra sé.

Gradualmente, le parole gridate all’unisono cominciarono a prendere il sopravvento tra i grugniti animaleschi e ad acquistare una cadenza regolare. Finalmente, l’intera perversa cantilena divenne inequivocabilmente chiara:

A morte i dannatissimi editori!

A morte i dannatissimi editori!

Parole… di… cin… que… lettere!

Crepitio poi tutti i programmatori!

Crepitio poi tutti i programmatori

Mulini-a-parole… Mai più!

A quel punto vi fu uno sbalorditivo cambiamento nel contegno del robot rosato. Si raddrizzò, respingendo da sé le due maestre, poi avanzò coraggiosamente, agitando le sottili braccia di alluminio come avrebbe fatto una persona per scacciare una nuvola di moscerini, e gridando con una voce sottile qualcosa che venne sommerso dal canto degli scrittori.

Gli scrittori lo videro avvicinarsi, ed essendo abituati come tutti a togliersi dalla strada di un robot quando il robot era di un certo umore, ruppero la catena per lasciarlo passare, canzonandolo allegramente.

Uno scrittore dal cappello a cilindro tutto ammaccato e dalla cappa nera a brandelli gridò: — È della censura, ragazzi!

L’osservazione scatenò un’enorme allegria: una minuscola scrittrice che indossava abiti maschili del Diciannovesimo secolo, fra l’altro molto in disordine (si chiamava Simone Wolfe-Sand Sagan) gridò al robot:

— Sta’ attenta, Rosellina! La roba che scriveremo d’ora in poi farà saltare i circuiti a tutti voi robot della censura governativa!

Il robot roseo raggiunse la parte opposta della sala, dopo aver attraversato per quattro volte la catena. Girò su se stesso e continuò, per un poco, ad agitare le braccia e a squittire senza riuscire a farsi ascoltare, mentre gli scrittori più vicini voltavano il capo per ruggirgli la loro canzone con grandi sogghigni.

A questo punto, il robot batté al suolo un piede d’alluminio, si voltò pudicamente verso il muro e, chinando il capo, regolò le manopole che portava sul petto. Poi tornò a voltarsi e il suo squittio divenne improvvisamente un sibilo da spaccare i timpani, che bloccò di colpo la catena, spezzò il canto e costrinse tutti, comprese le due maestre che erano le più lontane, a coprirsi le orecchie rabbrividendo.

— Oh, voi gente terribile! — gridò il robot roseo con una voce altissima che sarebbe stata piacevole se non fosse stata tanto zuccherosa. — Voi non sapete ciò che fanno ai miei condensatori e ai miei relais parole come le vostre, ripetute in continuazione! Non potete capirlo, altrimenti non le pronuncereste! Se lo farete ancora, griderò davvero. Oh, voi poveri cari delinquenti, avete fatto e detto tante cose terribili che io so a malapena da dove cominciare le mie correzioni… ma non sarebbe più carino — oh, tanto più carino! — se, per cominciare, cantaste il vostro canto in questo modo?

E qui, il robot rosato, stringendo davanti al petto roseo le pinze snelle, gridò melodiosamente:

Amate gli adorabili editori!

Amate gli adorabili editori!

Pa-ro-le… pulitissime!

Lodato sia ogni programmatore!

Lodato sia ogni programmatore!

Mulini-a-parole… sempre!

Risate isteriche e ringhi rabbiosi, mescolati in proporzioni quasi eguali, furono la risposta degli scrittori a quella melodia.

Due dei lanciafiamme avevano esaurito la scorta di combustibile, ma avevano compiuto fino in fondo il loro lavoro: gli ultimi mulini contro cui erano stati puntati (un Prosatore e un Proteiforme della Protone) erano arroventati e puzzavano di isolanti carbonizzati. Il terzo lanciafiamme, la cui canna era impugnata da Homer Hemingway, giocava ancora leggermente su un lucente Fraseggiatore della Editrice Razzi… Homer aveva ridotto il flusso delle fiamme, due minuti prima, per prolungarsi il divertimento.

Gli scrittori non ricostituirono la fila, ma parecchi di loro, soprattutto gli apprendisti maschi, avanzarono verso il robot roseo, urlando disordinatamente e poi all’unisono tutte le parole sconce che conoscevano, e che in realtà erano sorprendentemente poche per specialisti in letteratura: non più di sette, infatti.

A questo punto, il robot roseo “gridò davvero”, facendo salire e scendere al suo fischio tutta la scala delle tonalità, da certi infrasuoni che mettevano i brividi a certi ultrasuoni che provocavano feroci emicranie. L’effetto fu eguale a quello di sette antiche sirene da pompieri con un vertice sonoro più elevato e una base più bassa. Tutti si portarono le mani alle orecchie. Espressioni di autentica sofferenza si dipinsero sui loro volti.

Homer Hemingway ripiegò il braccio sinistro sul capo per ripararsi entrambe le orecchie, eppure batté ancora le palpebre per il fastidio. E con la destra puntò la fiamma davanti a sé, fino a che raggiunse il robot roseo.

— Piantala, sorella! — ruggì, facendo passare la fiamma avanti e indietro, sulle esili gambe curvilinee del robot.

Il grido cessò e un ronzio desolante uscì dal robot roseo, come se una grande molla fosse scattata. L’essere metallico barcollò e cominciò ad oscillare come una trottola che avesse quasi esaurito la carica.

In quell’istante Zane Gort e Gaspard de la Nuit irruppero nella sala. Il robot d’acciaio azzurro avanzò a grandi passi, come può permetterselo un robot (ossia, cinque volte più rapidamente di un uomo) e afferrò il robot roseo mentre quello stava per afflosciarsi. Lo sorresse saldamente, senza dire nulla, e fissò Homer Hemingway che, dal momento in cui era comparso Zane, aveva puntato di nuovo, con un po’ di apprensione, la canna del suo lanciafiamme verso il Fraseggiatore.

Mentre Gaspard lo raggiungeva correndo, Zane gli disse: — Reggimi la signorina Blushes, amico mio. Abbi riguardo, è in stato di shock.

Poi puntò diritto verso Homer.

— Girami al largo, sporco negro di latta! — urlò quello, in tono piuttosto belante, e diresse la fiamma verso il bruncio robot che avanzava. Ma, o il combustibile si esaurì in quel momento, oppure la chela destra protesa di Zane aveva qualche strano potere, perché in quell’istante la fiamma si spense.

Zane gli strappò la canna dalle mani, lo afferrò per la collottola del suo abito da cacciatore, lo rovesciò sul suo ginocchio d’acciaio azzurro e lo sculacciò vigorosamente per cinque volte con la canna scottante.

Homer ululò. Gli scrittori gelarono, guardando Zane Gort come un branco di romani storditi dal piacere avrebbero potuto guardare Spartaco.

Загрузка...