8

Il mio palazzo non disponeva di una lavanderia e l’attuale proprietario non sembrava disposto a spendere per certe comodità. La più vicina lavanderia a gettoni, la Super Suds, si trovava a circa mezzo miglio, a Hamilton. Non un tragitto impraticabile ma comunque una bella scocciatura.

Cacciai nella borsa il mucchietto di schede che mi aveva dato Connie, misi la borsa a tracolla, trascinai il cesto della biancheria nel corridoio, chiusi la porta a chiave e arrancai verso l’auto.

Il Super Studs non era male, come posto. C’era un parcheggio in un piccolo piazzale di fianco all’edificio e, poco distante, una tavola calda dove uno poteva gustare un panino imbottito di pollo, se avesse avuto a disposizione un po’ di contante. Per combinazione io non ne avevo, perciò infilai la biancheria in una macchina, aggiunsi il detersivo e mi sedetti per rileggere le schede dei ricercati.

Lonnie Dodd era il primo e sembrava la preda più facile. Aveva ventidue anni e viveva in Hamilton Township. Era stato accusato di furto d’auto. Incensurato. Usai il telefono a gettoni della lavanderia per chiamare Connie e verificare se Dodd non si era ancora presentato in tribunale.

«Probabilmente lo trovi nel suo garage intento a cambiare l’olio», mi avvertì Connie. «Succede sempre così. Una mania degli uomini. Diavolo, pensano, nessuno mi dà ordini. Ho rubato solo qualche auto, perché tante storie? Perciò non si presentano all’appuntamento in tribunale.»

Ringraziai Connie e tornai alla mia sedia. Appena finito di fare il bucato, sarei andata a casa di Dodd per vedere se riuscivo a trovarlo.

Rimisi le schede nella borsa e trasferii i panni nella macchina ad asciugare. Tornai a sedermi e guardai fuori dalla grande vetrina. In quel momento passò il furgone blu. Fui così sorpresa che rimasi di sasso, la bocca spalancata, gli occhi sbarrati, incapace di pensare. Non fu certo una reazione veloce. Il furgone sparì lungo la via e in lontananza vidi accendersi gli stop. Morelli si era fermato nel traffico.

Finalmente mi mossi. Credo di aver volato, non ricordo di aver toccato terra. Sfrecciai fuori dal parcheggio sgommando, raggiunsi l’angolo e scattò l’allarme. Nella fretta m’ero scordata di digitare il codice.

Non riuscivo a pensare per il frastuono. La chiavetta del codice era nel mazzo attaccato alla chiave dell’accensione. Frenai di colpo e con un testacoda mi fermai in mezzo alla strada. Guardai nel retrovisore con un sospiro di sollievo nel constatare che dietro non c’erano altre macchine. Disattivai l’allarme e ripartii.

C’erano parecchie auto fra me e Morelli. Lui svoltò a destra; strinsi forte il volante e avanzai piano piano, inventando nuove imprecazioni colorite mentre mi facevo strada fino all’incrocio. Quando svoltai, Morelli era sparito. Percorsi lentamente le vie su e giù. Stavo per arrendermi quando vidi il furgone, fermo nel parcheggio di Manni’s Deli.

Mi fermai all’entrata del parcheggio e fissai il furgone, chiedendomi che cosa dovevo fare. Non avevo modo di vedere se Morelli fosse al volante. Poteva essersi sdraiato per schiacciare un pisolino, o poteva essere entrato da Manni’s a ordinare un piatto di tonno. Probabilmente avrei dovuto parcheggiare e indagare. Se non era nel furgone, mi sarei nascosta dietro un’auto e lo avrei immobilizzato con il gas della bomboletta appena fosse stato a tiro.

M’infilai in uno spazio libero a quattro auto dal furgone e spensi il motore. Stavo per prendere la borsa quando improvvisamente si spalancò la portiera del posto di guida, e mi sentii strappare dal sedile. Barcollai e andai a sbattere contro il muro che era il petto di Morelli.

«Mi cercavi?» chiese lui.

«Potresti arrenderti», replicai. «Io non mi arrendo.»

Lui serrò le labbra. «Ragioniamo. Supponiamo che mi sdrai sul selciato e che tu m’investa con la mia macchina, passandomi sopra tre o quattro volte… proprio come ai vecchi tempi. Ti piacerebbe? Prendi il denaro anche se mi consegni morto?»

«Non c’è bisogno di arrabbiarsi. Io ho un incarico da svolgere. Niente di personale.»

«Niente di personale? Hai disturbato mia madre, mi hai rubato la macchina e adesso vai in giro a dire che ti ho messa incinta. A mio avviso, mettere una donna incinta è un affare molto personale. Gesù, non basta che sia accusato di omicidio? Chi sei, la bounty killer venuta dall’inferno?»

«Sei troppo nervoso.»

«Peggio, sono rassegnato. Tutti hanno una croce da portare… tu sei la mia. Mi arrendo. Prenditi pure l’auto, non m’importa più. Ti chiedo solo di non graffiare le portiere e di cambiare l’olio quando si accende la luce rossa.» Morelli guardò all’interno della Cherokee. «Non usi il telefono, vero?»

«No, naturalmente.»

«Le telefonate costano.»

«Non preoccuparti.»

«Merda», borbottò lui. «La mia vita è una merda.»

«Probabilmente è solo una fase transitoria.»

La sua espressione si addolcì. «Mi piace come sei vestita.» Infilò un dito nell’ampia scollatura della mia casacca e sbirciò nel reggiseno. «Molto sexy.»

Un’ondata di calore mi invase lo stomaco. Mi dissi che era collera, ma sospettai che si trattasse di paura di perdere il controllo. Gli scostai la mano. «Non fare il cafone.»

«Beh, ti ho messa incinta, no? Un gesto d’intimità non dovrebbe offenderti.» Morelli si fece più vicino. «E mi piace anche il tuo rossetto. Rosso ciliegia. Che tentazione.»

Abbassò la testa e mi baciò.

Capisco che avrei dovuto dargli una ginocchiata all’inguine, ma fu un bacio delizioso. Joe Morelli sapeva ancora baciare. Un bacio lento e tenero all’inizio, poi sempre più profondo e sensuale. Lui si tirò indietro e sorrise e io compresi di essere stata fregata.

«Preso!» disse lui.

Morelli mi girò attorno e levò le chiavi dell’accensione. «Non voglio che tu mi segua.»

«È il mio ultimo pensiero.»

«Sicuro. A ogni modo farò di tutto per rallentare i tuoi movimenti.»

Si avviò verso il cassonetto del Manni’s Deli e vi gettò le chiavi. «Buona caccia», augurò dirigendosi verso il furgone. «Pulisciti i piedi prima di salire sulla mia auto.»

«Aspetta un minuto», gridai. «Devo farti qualche domanda sull’omicidio. Voglio sapere di Carmen Sanchez. E se è vero che c’è un contratto su di te.»

Lui si issò nella cabina del furgone e uscì dal parcheggio.

Il cassonetto era di dimensioni industriali: un metro e cinquanta per un metro e ottanta; largo un metro e mezzo. Mi alzai sulle punte dei piedi e guardai oltre il bordo. Era pieno per un quarto e puzzava terribilmente. Le chiavi non si vedevano.

Una donnicciola sarebbe scoppiata in lacrime. Una donna più intelligente si sarebbe procurata un altro mazzo di chiavi. Trascinai una cassa di legno di fianco al bidone e mi issai sopra per guardare meglio. Gran parte dei rifiuti era contenuta in sacchetti di plastica, alcuni dei quali si erano squarciati quando erano stati gettati nel cassonetto spargendo avanzi di cibo, rimasugli di insalata di patate, fondi di caffè, grasso di carne alla griglia, porcherie non meglio identificate, piedi di lattuga ridotti a brodo primordiale.

Mi vennero in mente gli animali spiaccicati sull’asfalto. Cenere alla cenere, maionese… ai suoi vari ingredienti. Che si tratti di gatti o di insalata di cavoli, la decomposizione non ha nulla di attraente.

Passai in rassegna tutte le persone che conoscevo, ma non trovai nessuno tanto scemo da calarsi nel cassonetto per me. Okay, decisi, adesso o mai più. Scavalcai con una gamba il bordo del bidone e rimasi così per un momento, cercando di raccogliere tutto il mio coraggio. Poi mi abbassai lentamente, le labbra serrate in una smorfia. Se avessi fiutato la presenza di un topo, sarei schizzata fuori.

I barattoli sotto ai miei piedi galleggiavano su una poltiglia molle e maleodorante. Mi accorsi di scivolare, mi appoggiai perciò con una mano al bordo del cassonetto sbattendo il gomito contro la parete. Imprecai e trattenni le lacrime.

Trovai una borsa di plastica per il pane relativamente pulita e la usai come un guanto per frugare nel sudiciume. Mi muovevo con cautela per paura di finire a faccia in giù sui carciofi e sulle cervella di vitello in salsa verde. La quantità di cibo gettato era impressionante, tutto quello spreco mi rivoltava lo stomaco, come l’odore di marcio che impregnava l’aria, mi pungeva le narici e mi si attaccava al palato.

Dopo un momento che mi parve un’eternità, trovai le chiavi affondate in una poltiglia giallo scuro. Non vedevo pannolini in giro, perciò mi augurai che la fanghiglia fosse senape. Ficcai la mano in quello schifo coprendomi la bocca.

Trattenni il respiro, gettai le chiavi oltre il bordo del cassonetto e non persi tempo a seguirle. Ripulii le chiavi alla meglio con il sacchetto del pane. La roba gialla venne via, rendendo le chiavi abbastanza pulite per una guida d’emergenza. Mi levai le scarpe e con due dita mi sfilai i calzini. Esaminai il resto del mio abbigliamento. A parte qualche macchia di salsa sul davanti della casacca, sembrava pulito.

Vicino al cassonetto c’era un mucchio di giornali da riciclare: coprii il sedile di guida con le pagine sportive, giusto nel caso non mi fossi accorta di qualche porcheria rimastami attaccata al posteriore. Ricoprii con il resto del giornale il pavimento dalla parte del passeggero e vi posai con cautela le scarpe e i calzini.

Gettai un’occhiata alle altre pagine del giornale e lessi un titolo. CONCITTADINO UCCISO A COLPI D’ARMA DA FUOCO SPARATI DA UN VEICOLO IN CORSA. Sotto il titolo, una foto di John Kuzack. Lo avevo visto mercoledì, ora era venerdì. Il giornale era vecchio di un giorno. Lessi il trafiletto trattenendo il respiro. Kuzack era stato abbattuto nella tarda notte di mercoledì davanti al palazzo dove abitava. Il cronista proseguiva ricordando che il morto era stato un eroe del Vietnam, dove si era guadagnato una medaglia al valore, e che era un personaggio caratteristico e benvoluto in tutto il quartiere. Al momento, la polizia non aveva formulato alcuna ipotesi né individuato il movente.

Mi appoggiai alla Cherokee cercando di capacitarmi della morte di John Kuzack. Era così imponente e pieno di vita quando gli avevo parlato. E ora era morto. Prima Edleman, investito da un’auto pirata, e adesso Kuzack. Delle tre persone che avevano visto e ricordavano il testimone scomparso, due erano morte. Pensai alla signora Santiago, ai suoi bambini e rabbrividii.

Piegai accuratamente il giornale e lo infilai nello scomparto della carta stradale. Appena tornata a casa avrei chiamato Gazarra per avere rassicurazioni sull’incolumità della signora Santiago.

Non mi pareva più di puzzare, ma per precauzione guidai con i finestrini abbassati.

Parcheggiai vicino alla lavanderia ed entrai scalza a recuperare i miei panni. Nello stanzone c’era solo una persona, una donna anziana seduta al tavolo in fondo.

«Cielo!» esclamò stralunata. «Cos’è quest’odore?»

Mi sentii arrossire. «Dev’essere fuori», spiegai. «Probabilmente è entrato quando ho aperto là porta.»

«Spaventoso!»

Annusai, ma non sentivo niente. Mi si era chiuso il naso per una forma di autodifesa. Sbirciai la mia casacca. «Le sembra che la mia maglia abbia un odore di salsa?»

Lei si teneva una federa premuta sulla faccia. «Mi viene da vomitare.»

Ammucchiai la mia biancheria nel cesto e uscii. A metà strada da casa mi fermai a un semaforo e mi accorsi che mi lacrimavano gli occhi. Brutto segno, pensai. Per fortuna nessuno era in vista quando svoltai nel parcheggio ed entrai nel palazzo. L’atrio e l’ascensore erano deserti. Fino a quel momento tutto bene. Le porte dell’ascensore si aprirono al secondo piano, e anche lì non incontrai nessuno. Tirai un sospiro di sollievo, trascinai il cesto del bucato fino alla porta, entrai in casa, mi tolsi i vestiti e li cacciai in un sacco di plastica per i rifiuti.

Sotto la doccia, mi insaponai e mi strofinai energicamente tre volte. Indossai abiti puliti e andai dal signor Wolesky, che abitava di fronte, per fare una verifica.

Lui aprì la porta e subito si tappò il naso. «Uh!» ansimò. «Che cos’è questo odore?»

«Me lo stavo giusto chiedendo», risposi. «Pare che venga dal corridoio.»

«Una puzza insopportabile.»

«Già», convenni con un sospiro. «È stata anche la mia prima impressione.»

Rientrai nel mio appartamento. Dovevo rilavare ogni cosa ed ero rimasta senza spiccioli. Avrei dovuto fare il bucato in casa. Guardai l’orologio: erano quasi le sei. Avrei chiamato mia madre con il telefono sulla macchina per avvertirla che sarei andata da lei a cena.

Parcheggiai davanti alla casa e mia madre apparve come per magia, probabilmente guidata da un misterioso istinto materno che le suggeriva sempre il momento in cui la figlia toccava il marciapiede.

«Un’auto nuova!» esclamò. «Che bella. Dove l’hai presa?»

Avevo il cesto dei panni sotto un braccio e il sacco per i rifiuti sotto l’altro. «Me la sono fatta prestare da un amico.»

«Chi è questo amico?»

«Non lo conosci. È uno con cui sono andata a scuola.»

«Be’ sei fortunata ad avere simili amici. Dovresti portargli qualcosa, una torta per esempio.»

Le passai davanti e mi diressi verso la scala della cantina. «Ho portato i miei panni da lavare. Non ti dispiace, vero?»

«Certo che non mi dispiace. Cos’è questo odore? Sei tu? Puzzi come un bidone per le immondizie.»

«Mi sono cadute le chiavi in un cassonetto dei rifiuti e ho dovuto calarmici dentro per riprenderle.»

«Non capisco proprio come mai certe cose succedano solo a te. Agli altri non capita mai. Chi farebbe cadere le chiavi in un cassonetto? Nessuno. Solo tu.»

Nonna Mazur uscì dalla cucina. «C’è odore di vomito.»

«È Stephanie», spiegò mia madre. «È entrata in un cassonetto.»

«Che cosa ci faceva in un cassonetto? Cercava dei cadaveri? Ho visto un film alla televisione, dove dei delinquenti spappolavano il cervello a un tale prima di gettarlo in un bidone, in pasto ai topi.»

«Cercava le chiavi», spiegò mia madre. «È stato un incidente.»

«Peccato», commentò nonna Mazur. «Mi aspettavo di meglio da lei.»

Dopo aver cenato, chiamai Eddie Gazarra, misi in lavatrice il secondo carico e lavai con una canna le scarpe e le chiavi. Spruzzai del Lysol all’interno della Cherokee e abbassai completamente i finestrini. L’allarme non scattava con i finestrini aperti, ma non pensavo di correre il rischio che il padrone venisse a reclamare l’auto davanti alla casa dei miei genitori. Dopo la doccia indossai abiti puliti, freschi di bucato e asciutti.

Ero spaventata per la morte di John Kuzack e non mi andava di rientrare a casa con il buio, perciò mi congedai presto. Avevo appena chiuso la porta, quando suonò il telefono. Dall’altro capo risuonò una voce soffocata, tanto che dovetti tendere l’orecchio, guardando di sbieco il ricevitore, come se questo potesse aiutarmi a sentir meglio.

La paura è un’emozione illogica. Nessuno può fare del male al telefono, ma mi ritrassi lo stesso quando capii che era Ramirez.

Riappesi subito e quando il telefono squillò di nuovo staccai la spina dal muro. Avevo bisogno di una segreteria telefonica, ma non potevo permettermela se non avessi eseguito un arresto. L’indomani, per prima cosa, sarei andata a cercare Lonnie Dodd.


Mi svegliai al tamburellare della pioggia sulla scala antincendio. Proprio quello che ci voleva per complicarmi ancor di più la vita. Scesi dal letto e scostai le tende, per niente contenta alla prospettiva di una giornata in ammollo. Il parcheggio era lucido, rifletteva una luce che proveniva da fonti misteriose. Il resto del mondo appariva grigio, la coltre di nubi sembrava non terminare, gli edifici apparivano privi di colore per la pioggia.

Feci la doccia, indossai jeans e maglietta, lasciando asciugare i capelli all’aria. Tanto mi sarei inzuppata appena messo piede fuori dal palazzo. Feci colazione, mi lavai i denti, mi applicai uno strato di ombretto turchese tanto per avere un che di allegro. Calzai le scarpe del cassonetto in onore della pioggia. Le guardai e annusai. Forse puzzavano un po’ di prosciutto cotto, ma tutto considerato non era tanto male.

Feci l’inventario del contenuto del borsone, per essere certa di avere tutto l’occorrente: manette, manganello, torcia, pistola, munizioni di scorta; anche se avevo già scordato come si caricava una pistola, avrei potuto comunque servirmene come oggetto contundente da tirare in testa a qualche delinquente in fuga. Misi nella borsa la scheda di Dodd oltre a un ombrello pieghevole e a un pacchetto di cracker per uno spuntino estemporaneo. Presi il giaccone di gore-tex rosso e nero che avevo comperato quando appartenevo alla classe privilegiata dei lavoratori e mi diressi verso il parcheggio.

Era il giorno adatto per rimanersene a casa, sotto le coperte a leggere i fumetti e a sgranocchiare dolci. Non era certo la giornata ideale per andare a caccia di delinquenti. Sfortunatamente ero a corto di soldi e non potevo permettermi di fare troppo la schizzinosa.

Dall’elenco, l’indirizzo di Lonnie Dodd risultava 2115 Barnes. Controllai la carta stradale per potermi orientare. Hamilton Township era circa tre volte Trenton, a forma di cuneo. Barnes era situata a ridosso della ferrovia Conrail, appena a nord di Yardville, sul tratto inferiore della contea.

Imboccai la Chambers e svoltai in Apollo Street. Barnes era poco lontano. Il cielo si era leggermente rischiarato ed era possibile leggere i numeri delle case. Più mi avvicinavo al 2115 e più mi sentivo depressa. Il valore delle proprietà calava a ritmo impressionante. Quello che era sorto come un quartiere rispettabile con tanti bungalow monofamiliari si era degradato fino a ospitare gente a basso reddito o addirittura senza alcun reddito.

Il numero 2115 si trovava in fondo alla via. L’erba era cresciuta assai alta sul prato, una bicicletta arrugginita e una lavatrice con il coperchio piegato ornavano lo spiazzo davanti alla costruzione. La casa stessa pareva un ammasso di cenere poggiato su un basamento. Più che di una casa, aveva l’aspetto di un fabbricato destinato all’allevamento di polli o di maiali. Alla finestra sul davanti era attaccato un lenzuolo, apparentemente senza scopo. Probabilmente per permettere agli abitanti di godersi la loro privacy mentre si fracassavano in testa lattine di birra o meditavano altre piacevolezze del genere.

Mi dissi che doveva essere ora o mai più. La pioggia batteva sul tetto dell’auto e inondava il parabrezza. Per farmi coraggio mi ripassai il rossetto sulle labbra. Ma non era sufficiente, così mi rifeci completamente il trucco. Mi guardai nello specchietto: Wonder Woman sarebbe schiattata dall’invidia. Esaminai la foto di Dodd un’ultima volta. Non volevo affrontare l’uomo sbagliato. Misi le chiavi nella borsa, alzai il cappuccio del giaccone e scesi dall’auto. Bussai alla porta, sperando che nessuno fosse in casa. La pioggia, il quartiere e quella piccola casa sinistra mi davano i brividi. Se al secondo tentativo non apre nessuno, pensai, vuol dire che è destino. Perciò me ne vado.

Nessuno rispose quando bussai la seconda volta, ma avevo sentito scorrere l’acqua del water e sapevo che in casa c’era qualcuno. Maledizione. Presi a tempestare la porta di pugni. «Aprite», gridai. «Devo consegnare la pizza.»

Un individuo dall’aspetto macilento, i capelli neri lunghi fino alle spalle aprì. Era più alto di me, non aveva le scarpe né la camicia, indossava un paio di jeans logori e sporchi, con la lampo tirata su a metà. Alle sue spalle riuscivo a vedere il soggiorno cosparso di rifiuti. Sentivo odore di gatto.

«Non ho ordinato nessuna pizza», dichiarò lui.

«Lonnie Dodd?»

«Sì. Cos’è questa cazzata della pizza?»

«Era un trucco per farti aprire la porta.»

«Che cosa?»

«Lavoro per Vincent Plum, il garante della tua cauzione. Non ti sei presentato all’udienza e il signor Plum vorrebbe che ti facessi fissare una nuova udienza.»

«Non mi faccio fissare nessuna udienza.»

La pioggia colava dal mio giaccone inzuppandomi i jeans e le scarpe. «Basterebbero pochi minuti, ti accompagno io con la macchina.»

«Plum non fa servizio d’auto, lui assume solo due tipi di persone… donne con le tette grosse e a punta e sporchi bounty hunter. Niente di personale, con quell’impermeabile è difficile vedere, ma non mi sembra che tu abbia le tette grosse e a punta. Perciò devi essere una sporca bounty hunter.»

Senza preavviso allungò il braccio nella pioggia, mi prese la borsa dalla spalla e ne gettò il contenuto sul vecchio tappeto rossiccio alle sue spalle. La pistola atterrò con un tonfo.

«Potresti avere un sacco di guai, a circolare con un’arma nascosta», mi fece osservare.

Socchiusi gli occhi. «Sei disposto a collaborare?»

«Tu cosa pensi?»

«Io penso che sei un ragazzo intelligente; vai a metterti le scarpe e una camicia e vieni con me.»

«Supponiamo che non sia così intelligente.»

«Bene. Allora ridammi la mia roba e io sarò ben felice di andarmene.» Mai pronunciato parole più sincere.

«Non ti do un accidente. Questa roba è mia, adesso.»

Ero ancora combattuta dal desiderio di mollargli un calcio nelle palle, quando lui mi diede una spinta facendomi cadere sul cemento. Caddi pesantemente con il posteriore nel fango.

«Va’ a fare un giretto», suggerì Dodd. «Altrimenti ti sparo con la tua stessa fottuta pistola.»

La porta sbatté, il catenaccio si chiuse con un colpo secco. Mi rialzai e mi asciugai le mani sul giaccone impermeabile. Non riuscivo a credere che mi avesse buttato fuori, dopo aver preso la mia borsa. Che cosa m’ero messa in testa?

Avevo pensato di avere a che fare con Clarence Sampson e non con Lonnie Dodd. Lonnie non era un grassone ubriaco, avrei dovuto avvicinarlo con un atteggiamento più difensivo, mantenendo le distanze. E con la bomboletta in mano, non nella borsa.

Avevo un sacco di cose da imparare. Mi mancava l’abilità ma, cosa ancor più problematica, non avevo la grinta necessaria. Ranger aveva cercato di dirmelo, ma io non avevo capito. Mai abbassare la guardia, aveva detto. Quando cammini per la strada, devi osservare tutto, senza lasciarti sfuggire nulla. Lascia divagare la mente e potresti morire. Quando dai la caccia a un latitante, preparati al peggio.

Mi era sembrato un po’ drammatico, quando Ranger aveva parlato in quel modo. Ripensandoci, ora mi sembrava un ottimo consiglio.

Tornai barcollando verso la jeep e rimasi in piedi fumante di rabbia, imprecando contro me stessa, contro Dodd ed E.E. Martin. Feci un pensierino anche a proposito di Ramirez e Morelli e sferrai un calcio a un pneumatico.

«E adesso?» gridai nella pioggia. «Che cosa hai intenzione di fare, genio?»

Beh, di sicuro sapevo che non me ne sarei andata senza Lonnie Dodd ammanettato sul sedile posteriore. Però avevo bisogno d’aiuto e mi si presentavano due possibilità: la polizia o Ranger. Se chiamavo gli agenti, potevo cacciarmi nei guai per via della pistola. Meglio rivolgersi a Ranger.

Chiusi gli occhi. In realtà non volevo chiamare Ranger, avrei preferito arrangiarmi da sola per dimostrare a tutti quanto ero brava.

«L’orgoglio precede la caduta», citai a voce alta. Non sapevo esattamente che cosa volesse dire ma sembrava adatto alla circostanza.

Tirai un gran sospiro, mi levai il giaccone imbrattato di fango e gocciolante di pioggia, salii al volante e chiamai Ranger.

«Sì?» disse lui.

«Ho un problema.»

«Sei nuda?»

«No.»

«Peccato.»

«Ho un ricercato barricato in casa, ma non ho avuto fortuna nell’eseguire l’arresto.»

«Puoi essere più precisa sul fatto della fortuna?»

«Mi ha preso la borsa e mi ha sbattuto fuori a calci.»

Silenzio. Poi: «Suppongo che non sei riuscita a prendere la pistola.»

«Infatti. L’unica soddisfazione è che l’arma non era carica.»

«Ci sono delle munizioni nella borsa?»

«Può darsi che siano rotolate fuori.»

«Dove sei adesso?»

«Davanti alla casa, nella jeep.»

«E vuoi che venga lì per convincere il tuo uomo ad arrendersi.»

«Sì.»

«Buon per te che sono il tuo pigmalione. Qual è l’indirizzo?»

Glielo diedi e riappesi, sentendomi disgustata con me stessa. In pratica avevo armato il mio ricercato e ora mandavo Ranger ad aggiustare il pasticcio che avevo combinato. Dovevo farmi più furba, e in fretta. Dovevo imparare a caricare quella maledetta pistola e a sparare. Magari non avrei avuto il coraggio di sparare a Morelli, ma ero quasi sicura di riuscire a colpire Lonnie Dodd.

Guardai l’orologio sul cruscotto, aspettando Ranger, ansiosa di concludere questa faccenda lasciata in sospeso. Passarono dieci minuti, poi ecco la Mercedes, in fondo alla via, lucida e sinistra sotto la pioggia che scivolava sulla carrozzeria.

Scendemmo dalle rispettive auto nello stesso istante. Ranger aveva un berretto nero da baseball, jeans e maglietta neri. In vita portava un cinturone pure nero con la fondina, la pistola fissata alle gambe da una banda in velcro. A una prima occhiata poteva passare per una testa di cuoio. «Come si chiama il ricercato?»

«Lonnie Dodd.»

«Hai una foto?»

Corsi alla Cherokee, presi il ritratto di Dodd e lo diedi a Ranger.

«Che cosa ha fatto?» volle sapere lui.

«Furto d’auto. È incensurato.»

«È solo?»

«Per quello che ne so, credo di sì, ma non posso garantirlo.»

«La casa ha un’uscita posteriore?»

«Non lo so.»

«Cerchiamo di scoprirlo.»

Ci dirigemmo direttamente verso il retro passando attraverso l’erba alta e tenendo gli occhi fissi sulla porta principale e sulle finestre per cogliere qualsiasi movimento. Non m’ero curata di prendere il giaccone impermeabile, mi sembrava un ingombro inutile, a questo punto. Tutte le mie energie erano dirette alla cattura di Dodd. Ero zuppa fradicia ed era un sollievo capire che non avrei potuto bagnarmi di più. Il cortile sul retro era identico a quello davanti alla casa: erbacce, un’altalena arrugginita, due bidoni dei rifiuti stracolmi, con i coperchi per terra. Una porta di servizio si apriva sul cortile.

Ranger mi spinse vicino alla casa, fuori dalla vista della finestra. «Resta qui e sorveglia la porta sul retro. Io entro da quella principale. Non fare l’eroina, mi raccomando. Se vedi qualcuno che corre verso i binari della ferrovia, rimani fuori portata. Capito?»

L’acqua mi gocciolava dal naso. «Mi dispiace di metterti in questo pasticcio.»

«In parte è colpa mia. Non ti ho preso abbastanza sul serio. Se vuoi fare realmente questo lavoro, avrai bisogno di qualcuno che ti aiuti nei momenti difficili. E dovremmo dedicare un po’ di tempo a esaminare le tecniche di arresto.»

«Ho bisogno di un partner.»

«Sicuro.»

Ranger si allontanò compiendo il giro della casa, i passi attutiti dalla pioggia. Trattenni il fiato e tesi le orecchie: lo sentii bussare, sentii l’uscio che si apriva e lui che dichiarava le proprie generalità.

Qualcuno rispose dall’interno, ma non afferrai le parole. Seguirono rumori concitati e gli avvertimenti di Ranger che stava entrando, la porta che si spalancava, grida e infine un colpo di pistola.

L’uscio sul retro si aprì e Lonnie Dodd si precipitò fuori: non si diresse verso la ferrovia, ma verso la casa vicina. Era ancora vestito con i soli jeans, correva senza meta nella pioggia, in preda al panico. Ero nascosta parzialmente da una baracca e lui stava correndo verso di me, senza guardarsi attorno. Vidi il riflesso metallico della pistola che aveva infilato nella cintura. Oltre gli insulti e il resto, quel verme stava scappando con la mia pistola. Quattrocento dollari gettati alle ortiche, proprio quando avevo deciso di imparare a usare quel maledetto aggeggio.

Non avrei permesso che accadesse una cosa simile. Chiamai Ranger a voce spiegata e partii all’inseguimento di Dodd. Che non mi precedeva di molto; per di più io avevo il vantaggio di portare le scarpe. Lui scivolò sull’erba fradicia, cadde su un ginocchio e allora gli piombai sulla schiena. Crollammo a terra tutti e due. Lui se ne uscì con un grugnito, mentre gli cascavano addosso sessanta chili di femmina fuori di sé dalla rabbia. Beh, facciamo sessantuno, ma non un grammo di più, lo giuro.

Dodd faticava a respirare. Gli strappai la pistola non per istinto di difesa, ma per un senso della proprietà. Era la mia pistola, maledizione. Mi tirai su e puntai la 38 in direzione di Dodd, impugnandola con tutte due le mani per nascondere il tremito. Non mi venne neppure in mente di controllare se c’erano i proiettili. «Non muoverti o sparo.»

Con la coda dell’occhio vidi apparire Ranger. Piantò il ginocchio sulla schiena di Dodd, fece scattare le manette e lo fece alzare.

«Questo figlio di buona donna mi ha sparato», ringhiò Ranger. «Ci crederesti? Uno sporco ladro d’auto mi ha sparato.» Spinse Dodd davanti a sé verso la strada. «Porto sempre un giubbotto antiproiettile e dove pensi che mi abbia colpito? È così maldestro e fifone che mi spara a una gamba!»

Guardai la gamba del mio partner e per poco non svenni.

«Corri avanti e chiama la polizia», ordinò Ranger. «E chiama Al al garage perché venga a prendere la mia auto.»

«Sei sicuro di star bene?»

«È una ferita superficiale, niente di grave.»

Feci le telefonate, ritirai la mia borsa e oggetti vari dalla casa di Dodd e aspettai con Ranger. Legammo il ricercato come un salame, a faccia in giù nel fango. Ranger e io sedemmo sul marciapiede. Lui non sembrava troppo preoccupato per la ferita, disse che ne aveva passate di peggio, ma sul suo viso notavo un’espressione sofferente.

Strinsi le braccia attorno al corpo e serrai i denti perché non battessero. Esteriormente avevo assunto un atteggiamento freddo e controllato, come Ranger, ma dentro di me tremavo così forte che sentivo il cuore contrarsi nel petto.

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