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Stark Street iniziava dal fiume, a nord del palazzo del governatore, e proseguiva verso nord-est. Brulicante di piccoli negozi, bar, locali per lo spaccio di crack e di tetre case a schiera a tre piani, si snodava per quasi un miglio. Gran parte delle case erano state trasformate in appartamenti o in abitazioni da affittare. Poche avevano l’aria condizionata, tutte erano sovraffollate. Con il caldo, gli inquilini sciamavano sui gradini all’ingresso e agli angoli della strada, in cerca di refrigerio e di diversivi. Alle dieci del mattino, la via era ancora relativamente tranquilla.

Al primo giro mi sfuggì la palestra, ricontrollai l’indirizzo sulla pagina che avevo strappato dall’elenco telefonico e tornai indietro guidando lentamente per leggere i numeri civici. Poi vidi l’insegna, STARK STREET GYM, scritta in lettere nere su una vetrina. Non era un granché come insegna, ma suppongo che non se ne curassero affatto. Dovetti allontanarmi di due isolati prima di trovare un parcheggio.

Chiusi a chiave la Nova, misi a tracolla la grande borsa nera e mi avviai. Ormai avevo dimenticato il fiasco con la signora Morelli e mi sentivo davvero disinvolta mentre, indossando un vestito adeguato all’occasione, mi portavo sulle spalle il mio armamentario da bounty hunter. Era imbarazzante doverlo ammettere, ma mi sentivo a mio agio nel mio nuovo ruolo: non c’era niente di meglio che portare in giro un paio di manette per metter un po’ di brio nell’andatura di una donna.

La palestra era situata al centro dell’isolato, oltre una carrozzeria. Le porte del garage erano aperte e, quando attraversai il piazzale di cemento, dall’interno iniziarono a guaire come gatti in calore e a schioccare baci al mio indirizzo. La mia indole m’imponeva di rispondergli per le rime ma, in nome della discrezione, tenni la bocca chiusa e affrettai il passo.

Sull’altro lato della strada una figura indistinta si ritrasse da una finestra al terzo piano. Il movimento attirò la mia attenzione. Qualcuno mi sorvegliava. Non c’era da sorprendersi, avevo percorso la via non una, ma due volte. Quel mattino si era staccata la marmitta della mia auto e il rombo del motore rimbalzava sui muri di Stark Street. La mia non si poteva certo definire una missione segreta.

La porta della palestra dava su un piccolo atrio con una scala d’accesso al piano superiore. Le pareti del pozzo della scala erano dell’usuale color verde, ricoperte di graffiti dipinti con lo spray e di impronte che vi si erano accumulate in vent’anni. Il locale emanava un odore sgradevole: il tanfo di urina che esalava dai gradini inferiori era misto all’odore rancido del sudore stagnante e al lezzo di effluvi corporei. Il secondo piano aveva l’aspetto di un magazzino e non era meglio del primo.

Un gruppetto di uomini lavorava ai pesi. Il ring era deserto, ai sacchi non c’era nessuno. Conclusi che dovevano essere tutti quanti fuori, in cerca di guai o a rubare auto. Fu l’ultima osservazione amena che mi concessi. Al mio ingresso l’attività languiva, e se mi ero sentita a disagio per la strada lì era molto peggio. Mi sarei aspettata che un campione fosse circondato da un’aura di professionalità, non avevo previsto un’atmosfera carica di ostilità e diffidenza. Ero solo un’ingenua donna bianca che era entrata in una palestra di neri, e se quel silenzio ostile fosse stato più minaccioso, avrei girato i tacchi e mi sarei precipitata giù per le scale come un’invasata.

Assunsi una posa decisa, più per non svenire per la paura che per impressionare i ragazzi, e tirai su la tracolla del borsone. «Cerco Benito Ramirez.»

Un’enorme montagna di muscoli si alzò da una panca. «Sono io Ramirez.»

Era alto circa due metri, aveva una voce insinuante, le labbra piegate in un sorriso sognante. L’effetto generale era raccapricciante: la voce e il sorriso contrastavano con lo sguardo sfuggente e calcolatore.

Attraversai la stanza e gli tesi la mano. «Stephanie Plum.»

«Benito Ramirez.»

La sua stretta era troppo cordiale, troppo prolungata. Più una carezza che una stretta, e sgradevolmente sensuale. Lo fissai dritto negli occhi, assai ravvicinati e con le palpebre cascanti. Cominciai a pormi delle domande sui pugili: fino a quel momento avevo pensato che il loro fosse uno sport basato sulla prontezza e sull’aggressività, che mirassero a vincere senza mutilare necessariamente l’avversario. Sembrava che invece Ramirez godesse a uccidere. C’era qualcosa nel suo sguardo ottuso che suggeriva la presenza del male; i suoi occhi erano come dei buchi neri che risucchiavano tutto e nulla facevano trasparire. Il sorriso, un po’ ebete, aveva un che di morboso nella sua dolcezza e lasciava intravedere la follia. Mi chiesi se non si trattasse di una posa per impaurire gli avversari prima del match. Per studiata che fosse, mi metteva i brividi.

Cercai di liberare la mano ma la sua stretta si rafforzò.

«Allora, Stephanie Plum, che cosa posso fare per te?» mi chiese con la sua voce di velluto.

Come dipendente di E.E. Martin avevo avuto a che fare con la feccia, ma avevo imparato a farmi valere pur restando gradevole e professionale. Il mio viso e la mia voce dicevano a Ramirez che ero un tipo cordiale. Le parole un po’ meno. «Se mi lasci andare la mano, ti do il mio biglietto da visita.»

Il sorriso gli rimase incollato sulla faccia, ora più amabile e curioso che folle. Gli diedi il biglietto da visita e lo osservai mentre lo leggeva.

«Agente incaricato della cattura dei latitanti», disse chiaramente divertito. «Un lavoro importante per una ragazzina.»

Non mi ero mai considerata una ragazzina finché non m’ero trovata vicino a Ramirez. Sono alta un metro e settanta e ho un’ossatura robusta, che ho ereditato dal buon ceppo ungherese dei Mazur, contadini con il fisico perfettamente costruito per lavorare nei campi di paprika, trascinare l’aratro e sfornare bambini come conigli. Correvo e saltavo periodicamente i pasti per mantenermi snella, ma continuavo a pesare sui sessanta chili. Non ero certo robusta, ma neppure minuta. «Cerco Joe Morelli. L’hai visto?»

Ramirez scosse la testa. «Non conosco Joe Morelli. So soltanto che ha sparato a Ziggy.» Guardò gli altri uomini e chiese: «Qualcuno di voi ha visto questo Morelli?»

Nessuno rispose.

«Mi è stato detto che c’era un testimone alla sparatoria e che è sparito», ripresi. «Hai idea di chi potesse essere?»

Di nuovo nessuna risposta.

Non mi arresi. «Che mi dici di Carmen Sanchez? La conosci? Ziggy ti ha mai parlato di lei?»

«Fai un sacco di domande», osservò Ramirez.

Eravamo in piedi vicino alle grandi finestre vecchio stile della stanza e per nessun’altra ragione, se non per istinto, spostai la mia attenzione all’edificio di fronte. Ecco di nuovo la figura indistinta dietro una finestra del terzo piano. Un uomo, mi parve. Non avrei potuto dire se fosse bianco o nero. Non che avesse importanza.

Ramirez mi tirò per la manica della giacca. «Ti andrebbe una Coca? Abbiamo il distributore. O se preferisci ti offro dell’acqua tonica.»

«Grazie, ma mi aspetta una mattinata intensa e devo andare. Se vedi Morelli, ti pregherei di avvertirmi.»

«Di solito le ragazze sono onorate di sentirsi offrire una bibita dal campione.»

Non io, pensai. La sottoscritta pensava che il campione fosse fuori di testa, forse. E non le piaceva affatto l’atmosfera della palestra.

«Mi piacerebbe restare, ma ho un appuntamento per il pranzo», spiegai. Con una scatola di Fig Newtons.

«Non fa bene affannarsi tanto. Dovresti fermarti e rilassarti. Lascia perdere l’appuntamento.»

Spostai il mio peso cercando di allontanarmi di qualche centimetro, mentre dicevo la bugia. «Veramente si tratta di un appuntamento d’affari con il sergente Gazarra.»

«Non ti credo», dichiarò Ramirez. Il suo sorriso si era fatto teso e nella voce non c’era un briciolo di cordialità. «Sono convinto che mi racconti una balla, con questa storia del pranzo.»

Mi si chiuse lo stomaco per il panico e mi costrinsi a non reagire. Ramirez stava giocando con me a beneficio dei suoi amici. Probabilmente era offeso perché non avevo ceduto al suo fascino. Ora doveva salvare la faccia.

Guardai ostentatamente l’orologio. «Mi dispiace che la pensi così, ma devo vedere Gazarra fra dieci minuti. Non sarà contento se arrivo in ritardo.»

Mossi un passo indietro e Ramirez mi agguantò per la collottola, affondando le dita tanto da farmi piegare la schiena.

«Tu non vai da nessuna parte, Stephanie Plum», bisbigliò il campione. «Non ho ancora finito con te.»

Il silenzio nella palestra era opprimente. Nessuno si muoveva. Nessuno protestava. Guardai gli altri che mi fissarono impassibili. Nessuno di loro mi avrebbe aiutata. Per la prima volta provai un brivido di paura.

Abbassai la voce per adeguarmi al bisbiglio di Ramirez. «Sono venuta qui come rappresentante della legge, a cercare informazioni che possano aiutarmi a rintracciare Joe Morelli. Non ti ho dato motivo di fraintendere le mie intenzioni. Sono una professionista ed esigo rispetto.»

Ramirez mi trascinò più vicino. «Devi imparare alcune cosette, riguardo al campione», sibilò. «Prima di tutto, non parlargli di rispetto. Secondo: il campione ottiene sempre ciò che vuole.» Mi diede uno scossone prima di soggiungere: «Sai cosa vuole il campione, in questo momento? Vuole che tu sia gentile con lui, baby. Molto gentile e carina. Mostragli un po’ di rispetto». Il suo sguardo si spostò sui miei seni. «Fagli vedere che hai paura. Hai paura di me, vero, sgualdrina?»

Qualsiasi donna, anche con un quoziente d’intelligenza drammaticamente basso, avrebbe avuto paura di Benito Ramirez.

Lui ridacchiò e a me si accapponò la pelle.

«Sei spaventata ora», sussurrò lui soddisfatto. «Mi pare di fiutare la tua paura. Scommetto che hai le mutandine bagnate. Forse dovrei infilarci la mano per accertarmene.»

Avevo una pistola nella borsa e l’avrei usata se fosse stato indispensabile, ma non finché non fossi riuscita a dissuaderlo con altri mezzi. Dieci minuti di istruzioni non avevano fatto di me una tiratrice scelta, d’accordo. Non volevo uccidere nessuno, volevo solo tenere a bada quella gente per squagliarmela. Feci scivolare la mano nella borsa finché sentii l’arma, dura e confortante sotto il palmo della mano.

Infila la mano, prendi la pistola, pensai. Puntala contro Ramirez con aria decisa. Ero capace di premere il grilletto? Onestamente non lo sapevo. Avevo i miei dubbi. Speravo di non dover arrivare a tanto.

«Lasciami andare il collo», ordinai. «È l’ultima volta che te lo chiedo.»

«Nessuno può permettersi di dire al campione che cosa deve fare», ruggì, perdendo la calma, con il viso stravolto dalla rabbia. Per una frazione di secondo vidi dentro di lui, ne percepii la follia e l’odio così inestinguibile che mi toglieva il respiro.

Ramirez mi afferrò per la camicetta e, mentre urlavo, sentii lacerarsi la stoffa.

Nei momenti di crisi, quando una persona reagisce d’istinto, fa la cosa più semplice. Io feci ciò che avrebbe fatto qualsiasi donna americana in una simile circostanza. Colpii Ramirez alla testa con la borsa. Con la pistola, il cercapersone e l’assortimento di oggetti vari, il borsone doveva pesare quasi cinque chili.

Ramirez barcollò su un fianco e io schizzai verso le scale. Non feci in tempo a muovere qualche passo che lui mi afferrò per i capelli e mi fece volare attraverso la stanza come una bambola di pezza. Caddi a faccia in giù, sbattendo le mani a terra e scivolando sul pavimento di legno dipinto. L’impatto mi tolse l’aria dai polmoni.

Ramirez piombò su di me a cavalcioni, il posteriore sulla mia schiena, tirandomi selvaggiamente i capelli. Strinsi la borsa, ma non riuscii a prendere la pistola.

Sentii il crack di un’arma ad alto potenziale e le finestre andarono in frantumi. Altri spari. Qualcuno stava svuotando il caricatore nella palestra. Gli uomini nello stanzone corsero gridando in cerca di un riparo. Fra loro c’era anche Ramirez. Presi a muovermi come un granchio sul pavimento, incapace di reggermi sulle gambe. Raggiunsi le scale, mi rialzai e mi precipitai verso la ringhiera. In preda al panico, non riuscivo a coordinare i movimenti; saltai il secondo scalino e scivolai giù per tutta la rampa fino al pianerottolo coperto dal linoleum screpolato, a livello della strada. Mi tirai su e barcollai fuori nella calura e nella luce accecante del sole. Avevo le calze strappate e mi sanguinavano le ginocchia. Stavo appoggiata alla maniglia della porta cercando di riprendere fiato, quando una mano mi si posò sul braccio. Diedi un balzo e gemetti. Era Joe Morelli.

«Cristo!» disse lui spingendomi avanti. «Non restartene qui. Alza i tacchi e fila.»

Non ero sicura che Ramirez s’interessasse di me al punto da inseguirmi giù per le scale, ma non mi sembrava prudente rimanermene lì ad aspettare per scoprire se avevo ragione, perciò trotterellai dietro Morelli, con il petto che mi bruciava per la mancanza di ossigeno e la gonna arrotolata fino all’inguine. L’avesse fatto Kathleen Turner al cinema, sarebbe stato uno spettacolo, ma io dovevo essere molto meno affascinante. Mi colava il naso, perdevo bava dalla bocca, mandavo grugniti di dolore e piagnucolavo di paura; emettevo suoni animaleschi e lanciavo al Padreterno fantasiose promesse di vendetta.

Svoltammo all’angolo, tagliammo attraverso un vicolo dell’isolato successivo e percorremmo di volata una stradina fra i cortili dietro le case. Il viottolo era costeggiato da vecchi garage di legno e da bidoni traboccanti immondizia.

A due isolati di distanza risuonò l’urlo delle sirene. Senza dubbio un paio di auto di pattuglia e un’ambulanza stavano accorgendo, chiamate da qualcuno dopo la sparatoria. Quanto sarebbe stato meglio se fossi rimasta nei paraggi della palestra e mi fossi rivolta ai poliziotti per chiedere aiuto a rintracciare Morelli. Un particolare da ricordare la prossima volta che avrebbero tentato di violentarmi e di picchiarmi.

Morelli si fermò di colpo e mi trascinò in un garage vuoto. Le doppie porte erano socchiuse quanto bastava per intrufolarsi dentro, non abbastanza però perché qualcuno, passando, potesse vedere all’interno. Il pavimento era ingombro di sporcizia, nell’aria opprimente un odore metallico. Rimasi colpita dall’ironia del caso: eccomi di nuovo, dopo tanti anni, in un garage con Morelli. Lui aveva un’espressione di collera, gli occhi duri, gli angoli della bocca piegati in una smorfia. Mi afferrò per la giacca e mi inchiodò contro la ruvida parete di legno. Una pioggia di polvere cadde dalle travi. Serrai i denti.

La sua voce era tesa per la rabbia, che riusciva appena a controllare. «Che diavolo credevi di fare entrando nella palestra?»

La domanda fu accompagnata da uno scossone che fece cadere altra polvere su di noi.

«Rispondi!» ordinò Morelli.

Ero dolente, sul serio. Ero stata una stupida. E ora, per aggiungere il danno alla beffa, Morelli si prendeva gioco di me. Era davvero umiliante, quasi come il fatto che fosse stato proprio lui a salvarmi. «Ti stavo cercando», risposi.

«Be’ congratulazioni, mi hai trovato. Inoltre hai fatto saltare la mia copertura e di questo non sono affatto felice.»

«Eri tu l’ombra alla finestra del terzo piano che sorvegliava la palestra dall’edificio di fronte?»

Morelli non rispose. Nel buio del garage dilatò gli occhi scurissimi.

Feci schioccare mentalmente le nocche. «E ora immagino che ci sia una sola cosa da fare.»

«Non vedo l’ora di saperlo.»

Infilai la mano nella borsa, tirai fuori la pistola e la puntai contro il petto di Morelli. «Sei in arresto.»

Lui sbarrò gli occhi attonito. «Hai una pistola? Perché non l’hai usata contro Ramirez? Gesù, l’hai colpito con la borsa come una scolaretta! Perché non gli hai puntato la dannata pistola?»

Mi accorsi di arrossire. Che dire? La verità era troppo imbarazzante. E controproducente. Ammettere con Morelli di aver avuto paura più della pistola che di Ramirez non avrebbe certo giovato alla mia credibilità come agente.

Non ci volle molto perché Morelli lo intuisse. Con un grugnito di disgusto spinse da parte la canna dell’arma e mi prese la pistola. «Se non la usi, non dovresti portarla. Hai il porto d’armi per circolare con una pistola nascosta nella borsa?»

«Sì», risposi, ma ero poco convinta che il documento fosse legale.

«Dove hai preso il permesso?»

«Me l’ha procurato Ranger.»

«Ranger Manoso? Cristo, probabilmente lo ha fabbricato nella sua cantina.» Morelli estrasse i proiettili e mi restituì la pistola.«Cercati un altro impiego. E sta’ lontana da Ramirez. È pazzo. È stato incriminato per stupro in tre occasioni e ogni volta è stato assolto perché la vittima è immancabilmente scomparsa.»

«Non sapevo…»

«C’è un sacco di cose che non sai.»

Il suo atteggiamento cominciava a irritarmi. Capivo anche troppo bene che avevo un mucchio di cose da imparare su come arrestare i criminali. Non avevo bisogno, però, di quell’aria di superiorità sarcastica di Morelli. «Qual è il tuo punto di vista?» domandai.

«Lascia perdere il mio caso. Vuoi fare carriera nell’ambiente come tutore della legge? Bene, accomodati pure, ma non esercitarti con me. Ho abbastanza problemi senza dovermi preoccupare di salvarti il culo.»

«Nessuno te l’ha chiesto. Me la sarei cavata da sola, se tu non avessi interferito.»

«Tesoro, non saresti stata capace di trovare il tuo culo neanche con tutte e due le mani.»

Le mie palme scorticate bruciavano in modo infernale. Mi doleva la testa all’altezza dell’attaccatura dei capelli. Mi tremavano le ginocchia. Volevo tornare a casa e ficcarmi sotto una doccia calda per cinque o sei ore, finché non mi fossi sentita di nuovo forte e pulita. Volevo mollare Morelli e raccogliere le idee. «Vado a casa», annunciai.

«Buona idea», approvò lui. «Dov’è la tua auto?»

«Fra Stark Street e Tyler.»

Lui si appiattì di fianco alla porta e gettò una rapida occhiata fuori. «Via libera.»

Avevo le ginocchia irrigidite e il sangue si era seccato coagulandosi su quel che rimaneva dei collant. Non mi pareva il caso di zoppicare, non dovevo indulgere in una simile debolezza davanti a uno come Morelli. Così strinsi i denti senza emettere un gemito. Quando raggiungemmo l’angolo, mi resi conto che lui mi aveva accompagnato fino a Stark Street. «Non ho bisogno di una scorta», dichiarai. «Sto bene.»

Lui mi teneva la mano sul gomito, guidandomi. «Non illuderti, non m’interessa tanto la tua salute quanto il fatto che tu esca dalla mia vita. Voglio essere certo che tu te ne vada. Voglio solo vedere il tubo di scappamento della tua macchina allontanarsi nel tramonto.»

Buona fortuna, pensai. Il tubo di scappamento e la marmitta della mia auto erano da qualche parte sulla Route 1.

Raggiungemmo Stark e io barcollai alla vista della mia auto. Era rimasta parcheggiata sulla strada per meno di un’ora e in quel lasso di tempo era stata completamente pitturata con lo spray. Per la maggior parte di rosa e verde, con le ovvie scritte oscene su entrambi i lati. Controllai la targa e guardai sul sedile posteriore cercando il pacco di Fig Newtons. Sicuro, era proprio la mia macchina.

Una nuova umiliazione che si aggiungeva alle altre della giornata. Me ne infischiai. Ero come intorpidita. E immunizzata dagli affronti. Cercai le chiavi nella borsa, le trovai e le infilai nella serratura della portiera.

Morelli si dondolava sui talloni, le mani in tasca, un sorrisetto che gli affiorava sulle labbra. «Certa gente si diverte così.»

«Crepa!»

Morelli piegò la testa e rise forte. Una risata fragorosa e profonda, quasi contagiosa, se non fossi stata in condizioni pietose. Aprii la portiera, salii al volante, girai la chiavetta dell’accensione, mollai un pugno al cruscotto e lasciai Joe a tossire nella nuvola dello scarico dello scappamento, in un rumore così assordante da squarciargli i visceri.

Ufficialmente abitavo al confine orientale della città di Trenton, ma in realtà il mio quartiere si trovava più nel territorio di Hamilton che in quello di Trenton. L’edificio in cui abitavo era un brutto cubo di mattoni rossi, costruito prima dell’avvento dell’aria condizionata centralizzata e delle finestre con i doppi vetri. I diciotto appartamenti dello stabile erano distribuiti su tre piani. Secondo lo standard moderno non era un condominio di lusso. Non aveva la piscina o i campi da tennis, l’ascensore era piuttosto inaffidabile. Il bagno era arredato con servizi color giallo senape. Gli accessori della cucina erano decisamente anonimi.

Di positivo c’era che l’appartamento era stato costruito con materiale resistente e solido. Nessun suono filtrava attraverso i muri, le stanze erano ampie e luminose, i soffitti alti. Abitavo al secondo piano e le mie finestre si affacciavano su un piccolo parcheggio privato. Non c’erano balconate, ma ero abbastanza fortunata da avere una vecchia scala antincendio vicino alla finestra della camera da letto. L’ideale per far asciugare le calze e per sedersi all’aperto nelle afose serate estive.

Ma la cosa più importante era che il brutto edificio di mattoni non faceva parte di un complesso di edifici altrettanto brutti e disposti a casaccio. Sorgeva in una via affollata di piccoli negozi e confinava con un quartiere di case modeste. Come vivere nella cittadella… ma meglio. Il fornaio era solo a un isolato.

Parcheggiai la macchina ed entrai dall’ingresso posteriore. Poiché Morelli non era nei paraggi, non dovevo mostrarmi forte e coraggiosa, perciò mi diressi verso il mio appartamento zoppicando e imprecando. Feci la doccia, mi disinfettai con ciò che trovai nella cassetta del pronto soccorso e indossai un paio di shorts con una maglietta. Le mie ginocchia erano spellate e ammaccate; le abrasioni stavano già assumendo una tinta violacea. I gomiti erano nelle stesse condizioni. Mi sentivo proprio come una bimba caduta dalla bicicletta, che un minuto prima gridava a distesa «Posso farcela, posso farcela!» e, improvvisamente, come una sciocca, si ritrovava a terra con le ginocchia scorticate.

Mi gettai sul letto supina, le braccia e le gambe distese. Era la posizione che assumevo quando dovevo riflettere sull’inutilità delle cose. Aveva certi vantaggi, naturalmente. Potevo sonnecchiare mentre aspettavo che mi venisse in mente qualche idea brillante. Giacqui sul letto a lungo, o così mi sembrò. Nessuna idea brillante mi si affacciò alla mente ed ero troppo agitata per dormire.

Non potevo fare a meno di rivivere la mia esperienza con Ramirez. Non ero mai stata aggredita da un uomo, prima. Né ci ero andata vicino. Quell’aggressione era stata a dir poco degradante, un’esperienza spaventosa. Ora che la situazione si era risolta, mi sentivo più tranquilla, ma anche violata e vulnerabile.

Considerai l’ipotesi di presentare un esposto alla polizia, ma la scartai immediatamente. Andare a piangere alla polizia non avrebbe certo giovato alla mia immagine di dura e abile bounty hunter. Non riuscivo a raffigurarmi Ranger che sporgeva una denuncia per lesioni.

Ero stata fortunata, conclusi. Me l’ero cavata con qualche graffio. Grazie a Morelli.

Quest’ultima ammissione mi fece emettere un gemito. Essere salvata da Morelli era stato maledettamente imbarazzante. E ingiusto. Tutto considerato, non pensavo di essermi comportata tanto male. Mi era stato affidato quel caso da meno di quarantotto ore e avevo scovato il mio uomo per ben due volte. Vero, non ero riuscita ad arrestarlo, ma stavo ancora imparando. Nessuno si aspetta che uno studente d’ingegneria al primo anno costruisca un ponte perfetto. Pensavo di meritare la stessa indulgenza.

Dubitavo che la pistola mi fosse di qualche utilità. Non mi ci vedevo a sparare a Morelli. Forse a un piede. Ma quali possibilità avevo di colpire un bersaglio mobile? Nessuna. Chiaro che dovevo trovare un modo meno letale per bloccare la mia preda. Magari una bomboletta spray sarebbe stata più congeniale al mio stile. L’indomani sarei tornata dall’armaiolo a cercare qualcosa da aggiungere all’assortimento della mia borsa.

La radiosveglia sul comodino indicava che erano le cinque e cinquanta minuti. La guardai distrattamente, per un momento avevo perso il senso del tempo, poi mi sentii prendere dall’orrore. Mia madre mi aspettava a cena anche quella sera.

Balzai giù dal letto, mi precipitai al telefono. Non dava segni di vita. Non avevo pagato la bolletta. Afferrai le chiavi della macchina dal banco della cucina e sfrecciai fuori dalla porta.

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