10

Alle nove ero a casa e, non avendo di meglio da fare, decisi di pulire il mio appartamento. Non c’erano messaggi sulla segreteria telefonica, né pacchi sospetti davanti alla porta. Preparai il giaciglio per Rex, passai l’aspirapolvere sul tappeto, lavai per bene il bagno e lucidai i pochi mobili che mi erano rimasti. Così arrivarono le dieci. Controllai per l’ultima volta tutte le serrature, feci la doccia e mi coricai.

Mi svegliai alle sette, euforica. Avevo dormito come un ghiro. Sulla segreteria telefonica non c’erano messaggi, gli uccelli cantavano, il sole brillava, il mio volto si rifletteva sul tostapane. Indossai shorts e maglietta, e accesi la macchinetta del caffè. Scostai le tende del soggiorno e rimasi incantata da quella magnifica giornata. Il cielo era di un azzurro splendente, l’aria pulita dopo la pioggia e io provavo una immensa voglia di cantare.

Passai in camera da letto, tirai la tenda e rimasi impietrita alla vista di Lula legata alla scala antincendio. Era appesa come una bambola di pezza, le braccia piegate sopra la ringhiera in una posizione innaturale, la testa reclinata sul petto. Aveva le gambe allargate, cosicché sembrava seduta. Era nuda e coperta di sangue, che si era raggrumato sui capelli e sulle gambe. Dietro di lei era teso un lenzuolo per nasconderla alla vista dal parcheggio.

Gridai il suo nome, afferrai la serratura, il cuore mi batteva così forte che avevo gli occhi annebbiati. Aprii la finestra e per poco non caddi sulla scala antincendio; allungai le braccia nell’inutile tentativo di sciogliere i nodi che la tenevano legata.

Lula non si mosse, non emise un suono. Non capivo se respirava. «Andrà tutto bene», gridai con voce rauca e la gola serrata. «Vado a chiedere aiuto.» E sottovoce aggiunsi: «Non morire. Oh Dio, Lula, non morire…»

Mi fiondai dalla finestra per andare a chiamare una ambulanza, inciampai sul davanzale e crollai sul pavimento. Non sentivo dolore, solo panico. Strisciando carponi raggiunsi il telefono. Non riuscivo a ricordare il numero del pronto intervento. La mia mente, in preda a un attacco isterico, si era come bloccata lasciandomi smarrita e confusa di fronte a quella tragedia, improvvisa e inaspettata, che non riuscivo ad accettare.

Premetti lo zero e spiegai all’operatore che Lula era ferita sulla scala di sicurezza. Rividi in un lampo Jackie Kennedy che strisciava sopra il sedile dell’auto per soccorrere il marito morto, e scoppiai in lacrime, piangendo per Lula, per Jackie e per me stessa, tutte vittime della violenza.

Cercai freneticamente nel cassetto dei coltelli, finalmente trovai quello che cercavo nello scolapiatti. Non sapevo da quanto tempo Lula fosse legata, ma non potevo sopportare di vederla appesa là fuori.

Tornai alla finestra con il coltello, tagliai le corde e Lula mi si accasciò fra le braccia. Pesava almeno il doppio di me, ma in qualche modo trascinai il suo corpo inerte e insanguinato attraverso la finestra. L’istinto mi suggeriva di nasconderla e di proteggerla. Sentii le sirene in lontananza; dopo qualche secondo la polizia bussava alla mia porta. Non ricordo di averli fatti entrare, ma evidentemente avevo aperto la porta. Un agente in divisa mi condusse in cucina e mi fece sedere. Lo seguì un medico.

«Che cosa è successo?» volle sapere il poliziotto.

«L’ho trovata sulla scala antincendio», riferii. «Ho tirato le tende e l’ho vista.» Battevo i denti e il cuore mi martellava. Inghiottivo aria. «Lei era legata e appesa; ho tagliato le funi e l’ho trascinata dentro dalla finestra.»

Sentivo i medici che ordinavano di portare la barella. Il mio letto fu spinto da parte per fare spazio. Avevo paura di chiedere se Lula fosse viva. Inspirai di nuovo l’aria e serrai le mani in grembo, finché le nocche divennero bianche e le unghie si conficcarono nelle palme.

«Lula abita qui?» domandò il poliziotto.

«No. Qui abito io. Non so dove vive Lula, non conosco neppure il suo cognome.»

Suonò il telefono e con un gesto meccanico allungai il braccio per rispondere.

La voce all’altro capo del filo risuonò sommessa. «Hai ricevuto il mio regalo, Stephanie?»

Fu come se la terra avesse cessato improvvisamente di girare. Per un attimo provai un senso di smarrimento, poi misi tutto a fuoco. Premetti il tasto della segreteria telefonica e alzai il volume perché tutti potessero sentire.

«Di che regalo parli?» domandai.

«Lo sai benissimo. Ho visto che l’hai trovata, ti guardavo mentre la trascinavi dalla finestra. Ti sorvegliavo. Sarei potuto venire a prenderti stanotte mentre dormivi, ma volevo che prima vedessi Lula. Mi premeva che ti rendessi conto di che cosa so fare a una donna, così ora sai quello che ti aspetta. Pensaci, sgualdrina. Pensa a come ti farò male e a quanto dovrai supplicarmi.»

«Ti piace far male alle donne?» chiesi. Cominciavo a riprendere il controllo.

«Qualche volta le donne hanno bisogno di una lezione.»

Decisi di divagare. «Che mi dici di Carmen Sanchez? L’hai torturata?»

«Non così bene come farò con te. Ho in mente qualcosa di speciale.»

«Questo è il momento più adatto», dissi e fu uno choc comprendere che facevo sul serio. Non era una spacconata. Ero attanagliata da una furia fredda e implacabile, che mi chiudeva la bocca dello stomaco.

«Adesso ci sono i poliziotti, sgualdrina. Non vengo da te quando ci sono i piedipiatti. Capiterò quando sei sola e non mi aspetti. Così avremo tanto tempo per stare insieme.»

La comunicazione fu interrotta.

«Gesù Cristo!» esclamò l’agente in divisa. «È pazzo.»

«Sa chi era?»

«Temo di sì.»

Staccai il nastro dalla segreteria e scrissi il mio nome e la data sull’etichetta. La mano mi tremava con una violenza tale che la calligrafia era quasi illeggibile.

Una radio gracchiò dal soggiorno. Sentivo un mormorio di voci nella mia camera. Voci meno frenetiche, il ritmo dell’attività era diminuito. Mi guardai e vidi che ero coperta del sangue di Lula. Mi aveva inzuppato la maglietta e gli shorts, si stava coagulando sulle mani e sui piedi nudi. Anche il telefono, il pavimento e il banco della cucina erano macchiati di sangue.

Il poliziotto e il medico si scambiarono un’occhiata. «Forse sarebbe bene che si levasse di dosso quel sangue», suggerì il dottore. «Che ne dice di una doccia?»

Mentre andavo in bagno, guardai Lula. Stavano per portarla via. Era assicurata alla barella con le cinghie e coperta con un lenzuolo e una coperta. «Come sta?» m’informai.

Un membro della squadra del pronto intervento spinse avanti la barella. «È viva», rispose.

Quando uscii dalla doccia i barellieri e il medico se n’erano andati. Erano rimasti due agenti in divisa e quello che aveva parlato con me in cucina stava conferendo con un poliziotto in borghese nel soggiorno. Entrambi prendevano appunti. Mi vestii rapidamente, senza asciugarmi i capelli. Ero ansiosa di fare la mia deposizione e farla finita. Volevo andare all’ospedale a trovare Lula.

L’agente in borghese si chiamava Dorsey. L’avevo già visto, probabilmente da Pino’s. Era un tipo di statura media, corporatura normale e si avvicinava alla cinquantina. Era in maniche di camicia, con un paio di pantaloni di tela e mocassini. Notai che teneva il nastro della segreteria telefonica nel taschino della camicia. Reperto A. Gli riferii l’incidente nella palestra, omettendo il nome di Morelli e lasciando credere a Dorsey che l’identità del mio salvatore mi era rimasta sconosciuta. Se la polizia preferiva credere che Morelli aveva lasciato la città, per me andava bene. Non avevo perso le speranze di arrestarlo e di riscuotere il mio denaro.

Dorsey prese un sacco di appunti e guardò l’agente di pattuglia con aria d’intesa. Non sembrava sorpreso. Suppongo che quando uno lavora nella polizia da parecchio tempo, non si sorprenda di nulla.

Quando se ne furono andati, spensi la caffettiera, chiusi e feci scattare la serratura della finestra della camera, afferrai il borsone e, drizzando le spalle, mi preparai ad affrontare ciò che mi aspettava nel corridoio. Dovevo farmi strada passando davanti alla signora Orbach, il signor Grossman, la signora Feinsmith, il signor Wolesky e chissà quanti altri. Avrebbero voluto sapere i dettagli e io non ero dell’umore migliore per fornire particolari sull’accaduto.

A testa china, borbottai qualche scusa e puntai direttamente verso le scale. Sfrecciai fuori dal palazzo e corsi verso la Cherokee.

Imboccai la St. James fino a Olden, tagliai attraverso Trenton e puntai in direzione di Stark Street. Sarebbe stato molto più facile andare direttamente all’ospedale St. Francis, ma volevo cercare Jackie. Rombai giù per Stark Street, passai davanti alla palestra senza voltarmi. Per quello che mi riguardava, Ramirez era finito. Se fosse riuscito a sottrarsi alla legge anche stavolta, lo avrei sistemato io stessa. Magari tagliandogli il pisello con un coltello affilatissimo, se necessario.

Jackie stava uscendo dal Corner Bar, dove immaginai che avesse fatto colazione. Frenai di colpo e sporgendomi dalla portiera le gridai: «Sali!»

«Che succede?»

«Lula è all’ospedale. Ramirez l’ha massacrata.»

«Oh Dio!» piagnucolò Jackie. «Avevo tanta paura, me lo sentivo. È grave?»

«Non lo so. L’ho trovata sulla scala antincendio di casa mia. Ramirez l’aveva lasciata legata alla ringhiera. Un messaggio diretto a me. Lula era svenuta.»

«Ero là quando è venuto a prenderla. Lei non voleva andare, ma non si dice no a Benito Ramirez. Il protettore di Lula l’avrebbe picchiata a sangue.»

«Già. Be’, è stata picchiata a sangue, comunque.»

Trovai posto per parcheggiare a Hamilton, a un isolato dall’ingresso del pronto soccorso. Inserii l’antifurto e con Jackie partii al trotto. Lei si trascinava dietro la sua enorme stazza, ma non respirava affannosamente quando varcammo le doppie porte a vetri. Evidentemente saltare da un letto all’altro tutto il giorno mantiene in forma.

«Una ragazza di nome Lula è stata portata qui poco fa con un’ambulanza», dissi all’impiegata.

Lei mi guardò, poi sbirciò Jackie. Che indossava calzoncini corti verdi che le coprivano a malapena il sedere, un top rosa e sandali di gomma. «Lei è della famiglia?» volle sapere l’impiegata rivolgendosi a Jackie.

«Lula non ha famiglia, qui.»

«Bisogna che qualcuno riempia i moduli», decretò l’altra.

«Posso farlo io», replicò Jackie.

Riempiti i moduli, l’impiegata ci disse di sedere e aspettare. Obbedimmo in silenzio, sfogliando con gesti meccanici alcune riviste e osservando con distacco disumano i feriti che sfilavano l’uno dopo l’altro nel corridoio. Dopo mezz’ora chiesi nuovamente di Lula e mi risposero che era in radiologia. Quanto ci sarebbe rimasta? m’informai. L’impiegata non lo sapeva. Ci voleva un po’ di tempo, dopo di che un medico ci avrebbe avvertite. Riferii a Jackie.

«Uhh», fu il suo commento. «Naturale.»

Avevo voglia di un caffè, perciò lasciai Jackie ad aspettare e andai alla ricerca del bar. Mi dissero di seguire le impronte sul pavimento e ci sarei arrivata di sicuro. Trovai il bar, riempii un vassoio di cartone di pasticcini, vi aggiunsi due caffè doppi e due arance nel caso a Jackie e a me fosse venuta fame. Pensai che era improbabile, ma conclusi che era come premurarsi di portare un paio di mutandine pulite, in caso di un incidente d’auto. Meglio essere preparati.

Un’ora dopo apparve il dottore.

Guardò prima me, poi Jackie. Lei tirò su il top e tirò giù i calzoncini. Un gesto inutile.

«Lei è della famiglia?» domandò il medico a Jackie.

«Diciamo di sì», rispose la ragazza. «Come sta?»

«La prognosi è riservata, ma abbiamo speranze. Ha perso parecchio sangue e ha subito un trauma cranico. Ha ferite multiple, bisogna suturare. Sta per essere trasportata in chirurgia. Ci vorrà un po’ prima che la riportino nella sua stanza. Ora potete andare e tornare fra un’ora o due.»

«Io non mi muovo», decise Jackie.

Trascorsero due ore senza altre notizie. Avevamo mangiato tutti i pasticcini e stavamo per attaccare le arance.

«Non mi piace», disse Jackie. «Non mi va di stare rinchiusa in un ospedale. Questo posto puzza maledettamente di fagiolini in scatola.»

«Non ci sei abituata, vero?»

«Giusto.»

Non aggiunse altro e non insistetti. Mi spostai sulla sedia, mi guardai attorno e vidi Dorsey che parlava con l’impiegata. Il poliziotto annuiva, otteneva le rispose alle sue domande. L’impiegata indicò me e Jackie, Dorsey si avvicinò.

«Come sta Lula?» s’informò. «Novità?»

«È in chirurgia», risposi.

Lui sedette vicino a me. «Non siamo ancora riusciti a scovare Ramirez. Ha idea di dove possa essere? Ha detto niente di interessante prima che lei cominciasse a registrare?»

«Ha detto che mi aveva visto trascinare Lula dalla finestra. E che sapeva che la polizia era a casa mia. Doveva essere vicino.»

«Probabilmente chiamava dal telefono nell’auto.»

Ne convenni.

«Ecco il mio biglietto da visita.» Dorsey scrisse un numero dietro. «Questo è il numero di casa. Se vede Ramirez o le telefona, me lo faccia sapere immediatamente.»

«Gli sarà difficile nascondersi», osservai. «È una celebrità locale, lo si riconosce facilmente.»

Dorsey rimise la penna nella tasca interna della giacca e così ebbi modo di vedere la fondina che portava al fianco. «C’è un sacco di gente in questa città pronta a commettere un’infrazione per nascondere e proteggere Benito Ramirez. È già capitato in altre occasioni.»

«Sì, ma non avevate un nastro.»

«Giusto. Il nastro può fare la differenza.»

«Non farà nessuna differenza», dichiarò Jackie quando Dorsey se ne fu andato. «Ramirez fa quello che vuole. Non importa a nessuno se picchia una prostituta.»

«A noi importa», ribattei. «Possiamo fermarlo. E possiamo convincere Lula a testimoniare contro di lui.»

«Uhh», mormorò Jackie. «Tu non sai tante cose.»

Erano le tre quando ci permisero di vedere Lula. Lei non aveva ancora ripreso conoscenza. Ci dissero che la visita era limitata a dieci minuti ciascuna. Le strinsi una mano e le assicurai che se la sarebbe cavata. Quando il mio tempo fu scaduto, dissi a Jackie che dovevo andare a un appuntamento a cui non potevo mancare. Lei mi assicurò che sarebbe rimasta finché Lula riapriva gli occhi.

Arrivai da Sunny’s mezz’ora prima di Gazarra. Pagai la tariffa, comperai una scatola di munizioni e andai al poligono. Sparai alcuni colpi con il cane alzato e mi accinsi a esercitarmi seriamente. Immaginai di vedere Ramirez di fronte al bersaglio. Mirai al cuore, alle palle, al naso.

Gazarra arrivò alle quattro e mezzo. Lasciò cadere una scatola di munizioni sulla mia mensola ed entrò nella cabina accanto alla mia. Quando finii le due scatole di proiettili, mi sentivo piacevolmente rilassata e più sicura con la pistola. Ricaricai l’arma e la rimisi nella borsa. Finalmente battei la mano sulla spalla di Eddie e gli indicai che avevo finito.

Lui infilò la sua Glock nella fondina e mi seguì fuori. Aspettammo di essere nel parcheggio, prima di parlare.

«Ho saputo della telefonata», esordì Eddie. «Mi dispiace di non essere venuto, ma ero in servizio. Ho visto Dorsey al commissariato, ha detto che sei stata in gamba, ad accendere il registratore quando Ramirez era al telefono.»

«Avresti dovuto vedermi cinque minuti prima. Non riuscivo a ricordare il 911.»

«Non ti andrebbe l’idea di prenderti una vacanza?»

«Ci ho pensato.»

«Hai la pistola nella borsa?» volle sapere Eddie.

«Accidenti no, sarebbe un’infrazione alla legge.»

Gazarra sospirò. «Non farla vedere a nessuno, okay? E chiamami se hai paura. Shirley e io saremmo felici di ospitarti per tutto il tempo che vuoi.»

«Ti sono grata.»

«Ho controllato il numero di targa che mi hai dato. Appartiene a un veicolo sequestrato per sosta vietata e mai reclamato.»

«Ho visto Morelli guidare quel veicolo», riferii.

«Probabilmente se l’è fatto prestare.»

Sorridemmo entrambi al pensiero che il ricercato avesse rubato un furgone da un deposito di veicoli sequestrati.

«Sai niente di Carmen Sanchez? Ha una macchina?» domandai.

Gazarra tirò fuori un foglietto dalla tasca. «Questa è la marca e il numero della patente. L’auto non è stata sequestrata.»

Eddie tacque per un momento, poi si offrì: «Vuoi che ti accompagni a casa per assicurarci che nessuno si sia introdotto nel tuo appartamento?»

«Non è necessario», risposi. «Metà degli inquilini del palazzo probabilmente è ancora accampata nel mio corridoio.»

Ciò che più mi metteva a disagio era il sangue. Avrei dovuto entrare in casa e affrontare le orribili tracce del lavoro di Ramirez. Il sangue di Lula doveva essere ancora sul telefono, sulle pareti, sul banco in cucina e sul pavimento. Se la vista del sangue mi avesse provocato un nuovo attacco d’isteria, volevo cavarmela da sola, alla mia maniera.

Parcheggiai e sgattaiolai nello stabile inosservata. È l’ora buona, conclusi. I corridoi erano deserti, tutti erano in casa per la cena. Avevo la bomboletta in una mano e la pistola infilata nella cintura. Girai la chiave nella serratura e mi sentii mancare. Avanti, mi dissi, entra decisa, cerca sotto il letto eventuali stupratori, infilati un paio di guanti di gomma e pulisci il disastro.

Mossi un passo incerto nell’anticamera e compresi che qualcuno si trovava nel mio appartamento. Qualcuno stava spignattando in cucina: sbatteva le pentole e faceva correre l’acqua, rumori gradevoli tutto sommato. Sentivo anche in sottofondo lo sfrigolio del cibo in padella.

«Ehi!» gridai impugnando la pistola, con il cuore che mi batteva all’impazzata. «Chi c’è?»

Morelli uscì dalla cucina. «Io. Metti via la pistola. Dobbiamo parlare.»

«Gesù, che arroganza! Ti è mai passato per la testa che potrei spararti con questa pistola?»

«No, non ci ho mai pensato.»

«Sto esercitandomi, sono abbastanza brava con le armi.»

Lui si spostò dietro di me e chiuse la porta. «Già, devi essere proprio in gamba a sparare contro quelle sagome di cartone.»

«Che cosa ci fai in casa mia?»

«Preparo la cena.» Lui tornò ai suoi tegami. «Ho saputo che hai avuto una giornata difficile.»

La mia mente turbinava. Mi ero spaccata il cervello nel tentativo di trovare Morelli ed eccolo qui, in casa mia. In quel momento mi voltava le spalle, potevo sparargli nel sedere.

«Non vorrai sparare a un uomo disarmato», disse lui, leggendomi nel pensiero. «Qui nel New Jersey non approvano cose del genere. Lasciatelo dire da uno che se ne intende.»

E va bene, non gli avrei sparato. Lo avrei incastrato con il Sure Guard. Non se ne sarebbe neanche accorto.

Morelli gettò nella padella dei funghi freschi e continuò a cucinare. Un buon profumino si diffuse nella casa. Lui stava rigirando peperoni verdi e rossi, cipolle e funghi; i miei istinti omicidi si stavano affievolendo a mano a mano che aumentava l’acquolina in bocca.

Cercai, fra me e me, di giustificare la decisione di mettere da parte la bomboletta. Forse dovevo ascoltarlo, ma, in verità, le mie motivazioni erano più basse. Ero affamata e depressa, più spaventata di Ramirez che di Joe Morelli. Anzi, in un certo senso, mi sentivo sicura con Morelli in casa.

Una cosa alla volta, decisi. Prima mangia, poi gli spruzzi il gas, per dessert.

Lui si voltò a guardarmi. «Hai voglia di parlarne?»

«Ramirez ha quasi ammazzato Lula e l’ha appesa alla mia scala antincendio.»

«Ramirez è come un parassita che si alimenta con la paura degli altri. L’hai mai visto sul ring? I suoi fan lo adorano perché si mantiene lontano dall’avversario finché l’arbitro non gli intima di battersi. Gioca con l’avversario. Gli piace far scorrere il sangue, vuole punire chi gli sta di fronte. Parla con le sue vittime con quella sua voce suadente mentre le picchia, spiega loro che sarà sempre peggio e che si fermerà solo quando gli chiederanno di metterle KO. Così fa con le donne. Vuole vederle contorcersi dalla paura e dal dolore. Gli piace lasciare il suo marchio.»

Gettai la borsa sul banco. «Lo so. È bravissimo a mutilare le persone e a farsi supplicare. Si può dire che la sua è una vera ossessione.»

Morelli abbassò la fiamma del fornello. «Sto cercando di spaventarti, ma non credo che funzioni.»

«Sono già spaventata, più di così si muore.» Mi guardai intorno e notai che qualcuno aveva lavato il sangue. «Hai ripulito la cucina?»

«La cucina e la camera da letto. Dovrai far lavare il tappeto, però.»

«Grazie. Non avrei sopportato di vedere altro sangue.»

«È stato così brutto?»

«Già. Lei aveva la faccia irriconoscibile per le botte… e perdeva sangue dappertutto.» La voce mi morì in gola. Guardai il pavimento. «Merda.»

«C’è del vino nel frigorifero. Perché non scambi la pistola con un paio di bicchieri?»

«Perché sei così gentile con me?»

«Ho bisogno di te.»

«Cielo!»

«Non in quel senso.»

«Non intendevo in quel senso. Ho detto solo Cielo! Che cosa fai?»

«Bistecche. Le ho messe a cuocere quando sei entrata nel parcheggio.» Morelli versò il vino e mi porse il bicchiere. «Fai una vita un po’ spartana, qui.»

«Ho perso l’impiego e non sono riuscita a trovarne un altro. Ho venduto qualche mobile per tirare avanti.»

«È stato allora che hai deciso di lavorare per Vinnie?» volle sapere lui.

«Non avevo molte alternative», spiegai.

«Perciò mi dai la caccia solo per soldi. Niente di personale.»

«Al principio non era così.»

Lui si muoveva nella mia cucina come se ci fosse sempre vissuto; posò i piatti sul banco, prese un’insalatiera dal frigorifero. La sua disinvoltura avrebbe dovuto darmi sui nervi, ma in realtà era piacevole.

Morelli mise una bistecca su ciascun piatto, le coprì di peperoni e cipolle e vi aggiunse una patata al forno. Poi condì l’insalata, spense la griglia e si asciugò le mani. «Perché è personale, adesso?»

«Mi hai ammanettata all’asta della doccia, mi hai costretta a calarmi in un bidone per le immondizie per riprendere le mie chiavi! Ogni volta che ti incontro, fai il possibile per umiliarmi!»

«Non erano le tue chiavi, erano le mie.» Morelli bevve un sorso di vino e mi guardò negli occhi. «Mi hai rubato la macchina.»

«Avevo un piano», borbottai.

«Pensavi di incastrarmi se fossi venuto a riprendere l’auto?»

«Qualcosa di simile.»

Lui portò il suo piatto sul tavolo. «Ho saputo che da Macy’s assumono personale femminile.»

«Parli come mia madre.»

Morelli sogghignò e si tuffò sulla bistecca.

Era stata una giornata snervante, il vino e il buon cibo mi rianimarono. Mangiavamo allo stesso tavolo, seduti l’uno di fronte all’altra, gustando il pasto come una vecchia coppia. Ripulii il piatto e spinsi indietro la sedia. «Che cosa ti serve?»

«Collaborazione», rispose lui pronto. «In cambio cercherò di farti incassare il tuo premio in denaro.»

«Sono tutta orecchi.»

«Carmen Sanchez era un’informatrice. Una sera me ne stavo a casa a guardare la televisione, quando mi ha telefonato chiedendo aiuto. Mi dice di esser stata violentata e picchiata. Ha bisogno di soldi e di un posto sicuro dove nascondersi. In cambio mi fornirà informazioni importanti.

«Quando arrivo a casa sua, Ziggy Kulesza mi apre la porta e Carmen non si vede. Un altro individuo, il testimone scomparso, esce dalla camera da letto, mi riconosce chissà come, e si fa prendere dal panico. ‘Quest’uomo è un poliziotto’, grida a Ziggy. ‘Hai aperto la porta a un maledetto piedipiatti!’

«Ziggy mi punta una pistola e spara, io rispondo al fuoco e sparo a bruciapelo. Dopo di che, l’unica cosa che ricordo è che stavo fissando il soffitto. Il secondo individuo è sparito, Carmen pure, come la pistola di Ziggy.»

«Ma lui come può aver fallito il colpo a distanza così ravvicinata? E se ti ha mancato, dov’è finito il proiettile?» osservai.

«L’unica spiegazione che mi è venuta in mente è che la pistola si era inceppata.»

«Sicché adesso vuoi trovare Carmen perché convalidi la tua versione», ragionai.

«Non credo che Carmen potrà convalidare la storia di nessuno. La mia convinzione è che la ragazza sia stata picchiata da Ramirez, che poi ha mandato Ziggy e il suo amico a finire l’opera. Ziggy faceva tutto il lavoro sporco per Ramirez.

«Quando sei sempre sulla strada come me, si vengono a sapere tante cose. Ramirez ama infliggere sevizie alle donne. È capitato che due o tre ragazze viste l’ultima volta in sua compagnia, siano poi scomparse. Credo che lui le faccia portar via e poi le uccida. Oppure le picchia a sangue e poi manda qualcuno a finire il lavoretto per evitare che trapeli qualcosa. Dopo di che il corpo sparisce. Nessun cadavere, nessun reato. Credo che Carmen fosse morta nella camera da letto quando sono arrivato. Ecco perché Ziggy era terrorizzato.»

«C’è una sola porta», gli ricordai. «E nessuno l’ha vista uscire, viva o morta.»

«In camera da letto c’è una finestra che dà sulla strada di servizio», mi ricordò Morelli.

«Pensi che Carmen sia stata calata dalla finestra?»

Morelli mise il piatto nel lavello e accese la macchinetta del caffè. «Sto cercando l’individuo che mi ha riconosciuto. Ziggy ha mollato la pistola quando è caduto a terra. L’ho vista cadere da qualche parte. Quando sono stato colpito da dietro, il complice di Ziggy, deve aver preso la pistola, poi è sgusciato in camera, ha gettato Carmen dalla finestra e l’ha seguita.»

«Sono stata alla casa della Sanchez. È un bel salto, se non sei morto.»

Morelli strinse le spalle. «Forse lui è riuscito a intrufolarsi tra le persone chine su Ziggy e me. È uscito dalla porta sul retro, ha raccolto Carmen e si è allontanato con una macchina.»

«Adesso parliamo dei miei diecimila dollari.»

«Aiutami a dimostrare che ho sparato a Kulesza per legittima difesa e mi lascerò arrestare.»

«E, secondo te, come riuscirò a farlo?»

«L’unico legame con il testimone scomparso è Ramirez. L’ho tenuto d’occhio, ma senza risultato. Purtroppo non ho libertà di movimento. Ultimamente ho passato più ore a nascondermi che a cercare. Ho l’impressione di non avere più tempo né idee.»

Morelli tacque per alcuni secondi, poi riprese: «Nessuno sospetterebbe mai che sia tu ad aiutarmi».

«Perché dovrei darti una mano? Perché non dovrei cogliere l’occasione di portarti dentro?» obiettai.

«Perché sono innocente.»

«Questo è un problema tuo, non mio.» Era una risposta dura, che non rifletteva interamente la verità. Il fatto era che cominciavo a mostrarmi un po’ troppo tenera verso Morelli.

«Allora mettiamola così: mentre mi aiuti a cercare il testimone, io ti proteggo da Ramirez», propose lui.

Stavo per ribattere che non avevo bisogno di protezione, ma era semplicemente assurdo. Dovevo essere protetta, eccome. «E che succede se Dorsey arresta Ramirez e io non ho più bisogno della tua protezione?»

«Ramirez uscirà subito di galera su cauzione e doppiamente famelico. Ha amici potenti.»

«In che modo hai intenzione di proteggermi?» volli sapere.

«Ti offro protezione fisica, tesoro.»

«Non dormirai nel mio appartamento.»

«Dormirò nel furgone. Domani installerò i congegni necessari.»

«E stanotte?»

«Decidi tu», rispose Morelli. «Probabilmente ora non corri nessun pericolo. A parer mio, Ramirez vuol giocare con te per un po’. Per lui è come un combattimento. Vorrà gustarsi tutti i dieci round.»

Ero d’accordo. Ramirez avrebbe potuto introdursi in camera mia fracassando la finestra, ma preferiva aspettare.

«Anche se volessi aiutarti, non saprei da dove cominciare», osservai. «Che cosa posso fare io che non abbia già fatto tu? Forse il testimone è scappato in Argentina.»

«No, non è in Argentina. È qui ad ammazzare la gente, chiunque lo possa riconoscere. Ha ucciso due persone che abitavano nel palazzo di Carmen e ha fallito nel tentativo di eliminare la terza. Anch’io sono sulla sua lista, ma non riesce a trovarmi perché mi nascondo, e se mi mostro in pubblico per stanarlo, la polizia mi beccherà.»

Mi si accese una lampadina. «Vuoi che faccia da esca. Vuoi farmi ballonzolare sotto il naso di Ramirez e ti aspetti che gli tiri fuori delle informazioni mentre lui sperimenta su di me le sue tecniche di tortura. Gesù, Morelli, so che ce l’hai con me per quella volta che ti ho investito con la Buick, ma non pensi di esagerare con la tua vendetta?»

«Non si tratta di vendetta. La verità è… che mi piaci.» La bocca di Morelli si addolcì in un sorriso allettante. «In circostanze diverse tenterei perfino di riparare ai vecchi torti.»

«Oh, cielo.»

«Quando questa storia sarà finita, cercheremo di cancellare quella vena di cinismo che hai acquisito.»

«Tu mi chiedi di mettere in pericolo la mia vita per salvarti la pelle.»

«La tua vita è già in pericolo. Sei perseguitata da un gigante che stupra e tortura le donne. Se riusciamo a scovare il mio testimone, possiamo provare che è legato a Ramirez e mandarli entrambi in galera o in manicomio per il resto della loro vita.»

Morelli aveva un punto a suo favore.

«Piazzerò un microfono in anticamera e in camera da letto». riprese lui. «Così sentirò tutto ciò che avviene nell’appartamento, tranne che nel bagno. Se chiudi la porta del bagno probabilmente, non potrò sentire niente. Quando esci, nasconderemo un dispositivo d’intercettazione sotto la tua camicia, così potrò seguirti a distanza.»

Tirai un profondo sospiro. «Mi lascerai incassare il premio quando troveremo il testimone?»

«Certamente.»

«Hai detto che Carmen era un’informatrice. Che genere di informazioni ti passava?»

«Vendeva qualsiasi briciola di notizia le capitava. Per la maggior parte sullo spaccio di droga e nomi di appartenenti a una posse. Non so che cosa volesse riferirmi, quando mi ha chiamato. Non l’ho mai saputo.»

«Membri di una posse?» ripetei.

«Ma sì, i componenti di una gang di giamaicani. Striker ha messo su la banda principale a Philadelphia e mette lo zampino in qualunque affare di droga qui a Trenton. Al confronto quelli della mafia sembrano delle mammolette. I suoi ragazzi portano qui la droga più velocemente di quanto riescano a venderla e noi non sappiamo come ci arrivi. Abbiamo avuto dodici decessi per overdose da eroina, questa estate. La merce è così disponibile che gli spacciatori non si curano neppure di tagliarla secondo le regole.»

«Credi che Carmen avesse informazioni su Striker?» chiesi.

Morelli mi fissò per qualche istante. «No», disse finalmente. «Credo che volesse dirmi qualcosa sul conto di Ramirez. Probabilmente aveva sentito qualcosa mentre era con lui.»

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