5

Avevo chiamato Ranger per chiedergli aiuto. Ero troppo inesperta per introdurmi illegalmente in una casa. Quando entrai nel parcheggio. Ranger mi aspettava. Tutto vestito di nero. Maglietta senza maniche e pantaloni neri. Stava appoggiato a una lucida Mercedes nera con tante antenne che avrebbe potuto comunicare con Marte. Parcheggiai piuttosto lontano perché il fumo del mio tubo di scappamento non gli appannasse la vernice della Mercedes.

«Tua, la macchina?» chiesi. Come se la vettura potesse appartenere a qualcun altro.

«La vita è stata generosa con me.» Ranger spostò lo sguardo verso la mia Nova. «Bel lavoretto», commentò. «Sei stata in Stark Street?»

«Sì, e mi hanno rubato la radio.»

«Eh, eh. È stato bello da parte tua contribuire per i meno fortunati.»

«lo sarei disposta a offrire la macchina completa, ma nessuno la vuole.»

«Quei teppisti sono pazzi, ma non sono affatto stupidi.» Ranger indicò con la testa l’appartamento di Morelli. «Sembra che in casa non ci sia nessuno, perciò dovremo compiere il giro senza la guida turistica.»

«È illegale?»

«Diavolo, no. Siamo tutori della Legge, baby. I bounty hunter possono fare qualsiasi cosa. Non ci serve neppure un mandato di perquisizione.» Ranger si allacciò alla vita un cinturone nero di nylon e vi infilò la sua Glock 9 mm. Appese un paio di manette alla cintura e infilò la stessa giacca nera che indossava quando lo avevo incontrato la prima volta al bar. «Non penso che Morelli sia là, ma non si sa mai. Bisogna sempre tenersi pronti.»

Forse anch’io avrei dovuto prendere quelle precauzioni, ma non mi ci vedevo con il calcio di una pisola che spuntava dalla cintura della gonna. E comunque sarebbe stato inutile. Morelli sapeva che non avrei mai avuto il coraggio di sparargli.

Attraversammo il parcheggio e percorremmo il portico fino all’appartamento di Morelli. Ranger bussò alla porta e aspettò un momento. «C’è nessuno in casa?» domandò. Nessuna risposta.

«E adesso che facciamo?» chiesi. «Hai intenzione di buttar giù la porta a calci?»

«Assolutamente no. C’è il pencolo di rompersi un piede con una bravata del genere.»

«Allora vuoi far saltare la serratura, giusto? Usi una carta di credito?»

Ranger scosse la testa. «Hai visto troppi telefilm», decretò. Prese di tasca una chiave e la inserì nella serratura. «L’ho avuta dal custode, mentre ti aspettavo.»

L’appartamento di Morelli era composto da soggiorno, angolo cottura, cucina, bagno e camera da letto. Era abbastanza pulito e arredato in modo essenziale. Un piccolo tavolo quadrato di quercia, un tavolino da caffè, quattro sedie, un comodo divano e una sedia rigida. In soggiorno c’era uno stereo costoso e un piccolo televisore in camera da letto.

Ranger e io perquisimmo la cucina alla ricerca di un’agenda degli indirizzi. Sfogliammo le fatture ammonticchiate davanti al tostapane.

Era facile immaginare Morelli a casa sua che, gettate le chiavi sul ripiano della cucina, si liberava delle scarpe e scorreva la posta. Mi assalì un’ondata di rimorso al pensiero che probabilmente Joe non sarebbe stato più in grado di compiere nessuno di quei semplici rituali. Aveva ucciso un uomo e così facendo aveva posto fine anche alla sua vita. Come poteva essere stato così stupido? Come poteva essersi cacciato in questa maledetta storia? Perché accadono certe cose?

«Qui non c’è niente», annunciò Ranger. Premette il tasto sulla segreteria telefonica. «Ciao bellimbusto!» tubò una voce femminile. «Sono Carlene. Richiamami.» Bip.

«Joseph Anthony Morelli, sono tua madre. Ci sei? Pronto, pronto!» Bip.

Ranger capovolse l’apparecchio e copiò il codice di sicurezza e quello dei messaggi speciali. «Tieni questi numeri, puoi avere accesso ai suoi messaggi anche da un telefono esterno. Chissà che non salti fuori qualcosa.»

Ci spostammo nella camera da letto, setacciammo tutti i cassetti, sfogliammo libri e riviste, esaminammo attentamente alcune fotografie sul cassettone. Erano solo foto di famiglia, niente di utile. Nessun ritratto di Carmen. Per la maggior parte. i cassetti erano vuoti, lui s’era portato via calzini e biancheria. Peccato, mi sarebbe piaciuto vedere che biancheria indossava.

Ritornammo in cucina.

«Questo posto è pulito», concluse Ranger. «Non troveremo niente che possa aiutarti. E dubito che lui ritorni. Mi pare che abbia portato via tutto ciò che gli serviva.» Afferrò un mazzo di chiavi da un gancio su una parete della cucina e me lo diede.

«Queste tienile. È inutile disturbare il custode, se vuoi entrare di nuovo.»

Chiudemmo la porta con la chiave del custode e gliela facemmo scivolare sotto la porta della guardiola. Ranger salì sulla Mercedes, inforcò gli occhiali scuri, spinse indietro il tettuccio apribile, inserì una cassetta nel mangianastri e se ne andò veloce come Batman.

Con un sospiro di rassegnazione guardai la mia Nova. Perdeva olio. Lì vicino, la nuova jeep Cherokee rossa di Morelli luccicava al sole. Sentivo il peso delle chiavi che mi penzolavano dal dito. Una chiave di casa e due dell’auto. Decisi che non c’era niente di male se davo un’occhiata da vicino, perciò aprii la portiera della Cherokee e guardai all’interno. Odorava ancora di nuovo. Il cruscotto era lucido, i tappetini puliti, l’imbottitura rossa, soffice e perfetta. La vettura era a cinque posti, aveva quattro ruote motrici e tanti cavalli da inorgoglire un uomo. Era equipaggiata con condizionatore d’aria, una radio Alpine con mangianastri, una ricetrasmittente della polizia, un telefono cellulare e un CB. Un’auto terrificante. E apparteneva a Morelli. Non era giusto che un ricercato come lui avesse un’auto favolosa e io un catorcio come la Nova.

Visto che avevo già aperto la portiera, avrei dovuto metterla in moto, pensai. Non era bene che una macchina restasse ferma a lungo, lo sanno tutti. Inspirai profondamente e con cautela salii al volante. Aggiustai il sedile e lo specchietto retrovisore. Misi le mani sul volante, gustando una sensazione di sicurezza. Con una macchina così potevo prendere Morelli. Ero intelligente e tenace, mi mancava solo un’auto. Chissà se sapevo guidarla, mi chiesi. Forse accendere il motore non era sufficiente, forse bisognava fare il giro dell’isolato. Meglio ancora, avrei dovuto guidarla per un giorno o due per togliermi il capriccio.

Okay, chi cercavo di ingannare? Stavo pensando di rubare la macchina di Morelli. No, non rubare, puntualizzai a me stessa. Requisire. Dopo tutto ero una bounty hunter e probabilmente potevo sequestrare una macchina in caso d’emergenza. Sbirciai in direzione della Nova. Mi sembrava proprio una situazione d’emergenza.

Mi si offriva un altro vantaggio, rubando la jeep. Morelli non l’avrebbe affatto gradito. E se si fosse arrabbiato, avrebbe fatto l’errore di tentare di riprendersela.

Girai la chiave dell’accensione e cercai di ignorare il fatto che il cuore mi martellava impazzito. Il segreto di un buon bounty hunter era quello di cogliere l’occasione. Flessibilità. Adattamento. Creatività. Tutti attributi necessari. Niente di male se poi avevi anche le palle.

Respirai lentamente e premetti il pedale della mia prima auto rubata. Avevo un’altra meta sull’agenda. Dovevo andare allo Step-in Bar Grill, l’ultimo posto di lavoro di Carmen. Il locale era situato sul lato inferiore di Stark Street, a due isolati dalla palestra. Ero incerta se dovessi andare a casa a cambiarmi per indossare abiti più casual, ma alla fine decisi di tenermi il vestito che avevo. Tanto non avevo nessuna intenzione di mescolarmi con i frequentatori del bar.

Trovai un posto per parcheggiare a mezzo isolato. Chiusi a chiave la macchina, percorsi a piedi il breve tratto fino al bar, che era chiuso. La porta aveva un lucchetto, le vetrine sbarrate. Nessuna spiegazione. Non ero poi tanto delusa. Dopo l’incidente nella palestra non me la sentivo proprio di fare irruzione in un altro santuario della virilità di Stark Street. Mi affrettai verso la Cherokee e percorsi su e giù la via nella vaga speranza di incontrare Morelli. Alla quinta corsa, visto che la benzina scarseggiava, rinunciai. Cercai nel portaoggetti, sperando che vi avesse dimenticato una carta di credito, ma non ne trovai. All’inferno. Niente benzina, niente soldi, niente carte di credito.

Se dovevo continuare a dare la caccia a Morelli, mi occorrevano i soldi per le spese. Vinnie era la risposta ai miei problemi. Doveva anticiparmi un po’ di denaro contante. Mi fermai a un semaforo e mi concessi un attimo per studiare il telefono di Morelli. Azionai l’apparecchio e il numero apparve sul display. Comodo. Perché limitarsi a rubare l’auto di Morelli? Potevo anche sfruttare il suo telefono.

Chiamai l’ufficio di Vinnie, mi rispose Connie.

«C’è Vinnie?» m’informai.

«Sì, ci sarà per tutto il pomeriggio», rispose lei.

«Arrivo fra dieci minuti, devo parlargli.»

«Hai acciuffato Morelli?» volle sapere Connie.

«No, ma gli ho requisito la macchina.»

«Ha il tetto apribile?»

Alzai gli occhi al cielo. «No, non ce l’ha.»

«Peccato!» fu il commento di Connie.

Riappesi e svoltai nella Southhard, cercando di decidere come formulare una richiesta che Vinnie non giudicasse irragionevole. Mi occorreva denaro per due settimane e, se volevo usare la jeep per prendere Morelli, dovevo far installare un antifurto. Non potevo tenere d’occhio la Cherokee ventiquattr’ore su ventiquattro e non volevo che Morelli se la riprendesse mentre dormivo, facevo la pipì o andavo a fare la spesa.

Stavo pensando a una somma adeguata, quando suonò il telefono, il suo sommesso ronzio per poco non mi mandò a sbattere sul marciapiede. Una sensazione strana. Come se mi avessero sorpresa a origliare o a raccontare bugie, o fossi seduta sul water con le pareti del bagno che crollavano all’improvviso. Provai l’irrazionale impulso di allontanarmi dalla strada e correre via dalla macchina.

Mi misi ansiosamente in ascolto. «Pronto?»

Una pausa e poi una voce femminile. «Desidero parlare con Joseph Morelli.»

Dio santo. Era mamma Morelli. Come se non fossi già abbastanza incasinata. «Joe non c’è in questo momento.»

«Chi parla?»

«Sono una sua amica. Joe mi ha pregato di spostare l’auto di tanto in tanto.»

«Bugiarda!» tuonò la signora Morelli. «So chi sei, Stephanie Plum. Riconosco la tua voce. Che cosa ci fai nella macchina di Joseph?»

Nessuno sa mostrarsi sprezzante come mamma Morelli. Se al telefono ci fosse stata una madre normale, le avrei spiegato, o avrei chiesto scusa, ma la madre di Morelli mi terrorizzava.

«Come?» gridai. «Non sento. Cosa?»

Sbattei giù la cornetta e interruppi la comunicazione. «Brava», mi dissi a voce alta. «Molto professionale. Ottimi riflessi.»

Parcheggiai sulla Hamilton e percorsi a piedi il mezzo isolato fino all’ufficio di Vinnie. Mi preparavo allo scontro, l’adrenalina mi scorreva nel sangue aumentando le mie energie. Varcai la porta come un fulmine, salutai Connie alzando i pollici ed entrai nell’ufficio di Vinnie. Lui sedeva alla scrivania, chino su una schedina delle corse.

«Salve, come va?» salutai.

«E adesso che c’è?» fu la risposta di Vinnie.

Ecco quello che mi piace della mia famiglia. Sempre uniti, calorosi e disponibili l’uno con l’altro. «Voglio un anticipo sul mio compenso. Devo sostenere delle spese per l’incarico.»

«Un acconto? Stai scherzando?»

«Non scherzo affatto. Quando arresterò Morelli mi spettano diecimila dollari. Ne voglio duemila come anticipo.»

«Col cavolo! E non credere di potermi ricattare. Se parli con mia moglie, sono un uomo morto, e non si può cavare un accidente da un morto, furbona.»

Vinnie aveva segnato un punto a suo favore. «Okay, il ricatto non funziona. Mettiamola così, allora; tu mi dai subito duemila dollari e io non prenderò la mia percentuale completa.»

«E se non prendi Morelli? Ci hai mai pensato, a questo?»

Ogni minuto della mia vita. «Lo prenderò.»

«Ah, ah. Scusami, ma non condivido la tua sicurezza. E ricordati che ho acconsentito a questa follia solo per una settimana. Ti rimangono quattro giorni. Se per lunedì non lo avrai arrestato, affiderò il caso a qualcun altro.»

Entrò Connie. «C’è qualche problema? Stephanie ha bisogno di soldi? Perché non le dai Clarence Sampson?»

«Chi è Clarence Sampson?» chiesi.

«Uno della nostra famigliola di ubriaconi. Di solito è perfettamente tranquillo, ma di tanto in tanto commette qualche stupidaggine.»

«Per esempio?»

«Per esempio guida in stato di ubriachezza con un’alta percentuale di alcol nel sangue. In questa particolare occasione ha avuto la sfortuna di incappare in un’auto della polizia.»

«Ha investito un’auto della polizia?»

«Non esattamente», spiegò Connie. «Lui tentava di guidare l’auto della polizia. È finito in un negozio di liquori in State Street.»

«Hai una foto di questo individuo?»

«Ho un voluminoso dossier con fotografie accumulatosi durante gli ultimi vent’anni. Abbiamo garantito la cauzione per Sampson tante volte che conosco a memoria il numero della sua tessera di previdenza sociale.»

Seguii Connie nell’ufficio accanto e aspettai che tirasse fuori una cartella da un mucchio di fascicoli.

«Quasi tutti i nostri agenti si occupano contemporaneamente di diversi casi», spiegò Connie. «Il lavoro rende di più, in questo modo.» Mi porse una dozzina di cartellette. «Questi sono i casi che Morty Beyers stava seguendo per noi. Sarà fuori combattimento per un po’, potresti darci un’occhiata. Alcuni sono più facili di altri. Manda a memoria nomi e indirizzi e associali alle fotografie. Chissà mai che tu non abbia fortuna. La settimana scorsa Andy Zabotsky era in coda che aspettava il suo pollo fritto quando ha riconosciuto l’uomo davanti a lui, uno che non si era presentato all’udienza. Un bel colpo, tanto più che si trattava di uno spacciatore. Avremmo perso trentamila dollari.»

«Non sapevo che pagaste la cauzione anche per gli spacciatori di droga», osservai. «Ho sempre pensato che vi occupaste di roba da poco.»

«Gli spacciatori di droga rendono bene», disse Connie. «Non vogliono lasciare le loro zone. Hanno dei clienti e guadagnano bene. Se non pagano la cauzione, puoi star sicura che di solito ricompaiono.»

Mi ficcai i documenti sotto il braccio con la promessa di fotocopiarli e restituire gli originali a Connie. La storia del pollo mi era piaciuta. Se Andy Zabotsky era stato capace di arrestare un criminale in una rosticceria, pensate alle mie possibilità: io mangio sempre pollo. E mi piace. Forse avrei potuto farcela come bounty hunter. Una volta saldati i miei debiti, avrei potuto mantenermi arrestando gente come Sampson, magari facendo irruzione in un fast food.

Spinsi la porta e trattenni il respiro passando repentinamente dall’aria condizionata alla vampa esterna. La giornata, già calda, era diventata rovente. L’aria era pesante e appiccicosa, il cielo velato, il sole scottava sulla pelle esposta; guardai verso l’alto coprendomi gli occhi e aspettandomi di vedere il buco di ozono che si spalancava sopra di me come l’occhio di un gigantesco ciclope pronto a lanciare raggi radioattivi. Sapevo che il buco si trovava sopra l’Antartide, ma mi aspettavo che prima o poi arrivasse anche nel New Jersey. Il Jersey era uno dei maggiori produttori di resine ureiche e nello stato si ammassavano i rifiuti abbandonati al largo di New York. Era logico pensare che, prima o poi, arrivasse anche il buco di ozono.

Aprii la Cherokee e mi misi al volante. Il denaro per la cattura di Sampson non mi avrebbe certo permesso di andare alle Barbados, ma mi avrebbe consentito di mettere qualcosa nel frigorifero, oltre la muffa. E, cosa più importante, mi avrebbe offerto l’occasione di far pratica come agente. Quando Ranger mi aveva accompagnato al posto di polizia per farmi ottenere il porto d’armi, mi aveva spiegato anche la procedura dell’arresto, ma non esisteva un surrogato all’esperienza diretta.

Premetti il tasto sul telefono dell’auto e composi il numero di casa di Clarence Sampson. Non rispose nessuno. E non mi era stato fornito un numero del posto di lavoro. Dal rapporto della polizia risultava il suo indirizzo: 5077 Limeing Street. Non conoscevo Limeing Street, perciò consultai una cartina stradale e scoprii che Sampson abitava a due isolati da Stark Street. Avevo la foto del ricercato incollata sul cruscotto e ogni secondo la confrontavo con gli uomini che camminavano lungo la via.

Connie mi aveva suggerito di visitare i bar sul tratto inferiore di Stark Street. Proprio la mia aspirazione, passare un’oretta al Rainbow Room all’angolo tra la Limeing e la Stark. Avrei preferito che mi tagliassero i pollici con un coltello smussato. Conclusi che era altrettanto efficace e meno pericoloso aspettare chiusa nella Cherokee e sorvegliare la strada. Se Clarence Sampson si trovava in un bar, prima o poi sarebbe uscito.

Impiegai un bel po’ a trovare uno spazio libero all’angolo tra la Limeing e la Stark. Da lì avevo una buona visuale della Stark e potevo sorvegliare fino a metà di un isolato della Limeing. Ero piuttosto appariscente nel mio tailleur, con quella grande macchina rosso fiamma, ma lo sarei stata altrettanto se fossi entrata nel Rainbow Room. Alzai i finestrini e mi allungai sul sedile, cercando di mettermi comoda.

Un ragazzino con una massa di capelli e una catena d’oro del valore di settecento dollari al collo, guardò dentro l’auto mentre due compagni si piazzavano poco lontano. «Ehi, bambola», sghignazzò il ragazzino. «Che ci fai qui?»

«Aspetto qualcuno», risposi.

«Ah, sì? Una bella bambola come te non dovrebbe aspettare nessuno.»

Uno dei suoi amici si fece avanti. Cominciò a emettere dei sospiri e a mostrarmi la lingua. Quando si accorse che lo guardavo, cominciò a leccare il finestrino.

Frugai nella borsa, trovai la pistola e la bomboletta. Posai il tutto sul cruscotto. Qualche passante si fermava a guardare di tanto in tanto, ma nessuno si attardò più di tanto.

Alle cinque mi sentivo nervosa e avevo la gonna completamente spiegazzata. Cercavo Clarence Sampson, ma pensavo a Joe Morelli. Lui era da qualche parte, lì vicino. Me lo suggeriva la morsa allo stomaco. Mi sembrava che una leggera scarica elettrica mi attraversasse la spina dorsale. Immaginavo la scena dell’arresto. Lui non se lo aspettava, io gli piombavo alle spalle e lo neutralizzavo con lo spray. Se la sorpresa non fosse stata possibile, avrei dovuto distrarlo facendolo parlare e aspettare il momento giusto per scaricargli addosso la bomboletta. Una volta caduto al suolo paralizzato, l’avrei ammanettato. Dopo di che, tutto sarebbe diventato più facile.

Alle sei avevo eseguito mentalmente l’arresto quarantadue volte ed ero agitata. Alle sei e mezzo avevo il morale sotto i tacchi e mi si era addormentata la guancia sinistra. Mi stirai meglio che potei. Cominciai a contare le auto in transito, recitai le parole dell’inno nazionale e lessi lentamente gli ingredienti sul pacchetto di gomma da masticare che trovai nella borsa. Alle sette chiesi l’ora al servizio telefonico per assicurarmi che l’orologio di Morelli funzionasse.

Stavo recriminando sul fatto di avere il sesso e il colore sbagliati per operare con efficacia nei quartieri di Trenton, quando un uomo che corrispondeva alla descrizione di Sampson uscì incespicando dal Rainbow Room. Guardai la foto sul cruscotto, tornai a fissare l’uomo, e di nuovo la foto. Ero sicura al novanta per cento che fosse Sampson. Flaccido e corpulento, testa piccola, sguardo torvo, capelli e barba scuri, bianco caucasico. Somigliava a Bruto. Doveva essere Sampson. Ragioniamo: quanti bianchi grassi e barbuti vivevano nel quartiere?

Rimisi la pistola e la bomboletta nella borsa, mi allontanai dal marciapiede e percorsi due isolati per poter svoltare in direzione di Limeing e piazzarmi fra Sampson e la sua casa. Parcheggiai in doppia fila e scesi dall’auto. Un gruppo di ragazzi chiacchierava all’angolo, due bambine sedevano con le loro Barbie in grembo sugli scalini di un ingresso. Dall’altra parte della via, sul marciapiede, un divano sgangherato senza cuscini: la versione di Limeing Street di un dondolo da giardino. Due vecchi sedevano sul divano fissando muti il vuoto, le facce rugose immobili.

Sampson barcollava lentamente, chiaro che era «cotto». Il suo sorriso era contagioso. Gli sorrisi di rimando. «Clarence Sampson?»

«Sono io», rispose.

Voce impastata, cattivo odore, come quello dei vestiti dimenticati per settimane nel cesto della biancheria.

Gli tesi la mano. «Sono Stephanie Plum, rappresento la sua compagnia di garanzia. Lei non si è presentato in tribunale e vorremmo che si rimettesse in regola per una nuova udienza.»

Un’espressione confusa gli increspò la fronte, l’uomo assorbì l’informazione e tornò a sorridere.

«Suppongo di essermene scordato.»

Sampson non era certo il tipo che definiremmo dalla personalità ben definita. Non sarebbe mai morto per un attacco cardiaco causato dallo stress, più facile che morisse per apatia.

Continuai a sorridere. «Okay. Capita spesso. Ho qui la macchina…» Indicai la Cherokee. «Se non le dispiace, l’accompagnerò alla stazione di polizia. Così sbrighiamo le formalità necessarie.»

Lui guardò in direzione della sua casa. «Non so…»

Lo presi a braccetto puntandogli un gomito nel fianco, affabile come un vecchio mandriano che guida verso il branco un vitello smarrito. Su bello. «Non ci vorrà molto.» Tre settimane, forse.

Sprizzavo amabilità e fascino da tutti i pori e intanto premevo con i seni sul suo braccio carnoso come ulteriore incentivo. Lo feci girare attorno alla macchina e aprii lo sportello del passeggero. «Le sono veramente grata», dissi.

Alla portiera Sampson s’impuntò: «Tutto quello che devo fare è fissare una nuova data per l’udienza, giusto?»

«Giusto.» E poi restare in una cella finché l’udienza non sarà fissata sul calendario. Non provavo simpatia per lui. Avrebbe potuto ammazzare qualcuno, guidando in stato di ebbrezza.

Lo convinsi a salire e agganciai la cintura. Girai attorno alla Cherokee, salii a mia volta e accesi il motore, con il timore che una lampadina si accendesse nel minuscolo cervello di Sampson e capisse che ero un’agente. Non riuscivo a immaginare che cosa sarebbe successo quando fossimo arrivati alla stazione di polizia. Un passo alla volta, mi dissi. Se diventava violento, lo avrei neutralizzato con la bomboletta. Forse.

I miei timori erano prematuri. Non avevo percorso pochi metri, che Sampson mi guardò con occhi annebbiati e si addormentò rannicchiato contro la portiera come un gigantesco lumacone. Innalzai una rapida preghiera perché non si pisciasse addosso, non vomitasse o avesse qualche altra reazione tipica degli ubriachi.

Dopo parecchi isolati mi fermai a un semaforo e gli diedi un’occhiata. Dormiva. Finora tutto bene.

Un furgone Econoline di un azzurro sbiadito attirò la mia attenzione sull’altro lato dell’incrocio. Tre antenne. Un robusto equipaggiamento per un vecchio furgone sgangherato. Guardai il conducente con gli occhi socchiusi, un’ombra dietro il vetro sfumato, e una strana sensazione mi prese alla nuca. Scattò il semaforo. Le auto attraversarono l’incrocio. Il furgone mi passò vicino. Rimasi atterrita alla vista di Joe Morelli al volante, che mi guardava attonito.

Il mio primo impulso fu quello di rimpicciolire fino a diventare invisibile. In teoria avrei dovuto essere contenta di aver stabilito un contatto, ma in realtà in quel momento ero terribilmente confusa. Ero davvero brava a fantasticare l’arresto di Morelli, ma nel momento in cui mi si presentava la possibilità, la mia sicurezza si era già dissolta. Dietro di me stridettero dei freni e nello specchietto retrovisore vidi il furgone salire sul marciapiede per compiere un’inversione a U.

Mi aspettavo che mi seguisse, ma non con quella velocità. Le portiere della jeep erano chiuse, ma per precauzione premetti di nuovo il tasto della sicura. Tenevo in grembo la bomboletta di Sure Guard. La stazione di polizia si trovava a meno di un chilometro. Mi chiesi se dovevo mollare Clarence e mettermi all’inseguimento di Morelli. Dopo tutto era lui il mio obiettivo principale.

Presi in esame tutti i modi possibili per arrestarlo, ma nessuno mi parve soddisfacente. Non volevo che Morelli mi piombasse addosso mentre mi occupavo di Clarence e non mi andava di mollarlo nella via. Non in quel quartiere. Non ero sicura di poter controllare le conseguenze.

Morelli era cinque auto dietro di me, quando mi fermai al semaforo. Vidi aprirsi la portiera del posto di guida e Morelli scendere dal furgone. Correva verso di me. Afferrai la bomboletta e pregai che il semaforo diventasse verde. Morelli era a pochi passi, quando le auto ripresero a muoversi e lui fu costretto a tornare al furgone.

Il buon Clarence continuava a dormire, la testa china, la bocca aperta, emettendo suoni soffocati. Svoltai a sinistra in North Clinton e il telefono ronzò.

Era Morelli e non sembrava di buonumore. «Che diavolo credi di fare?» abbaiò.

«Sto portando il signor Sampson alla stazione di polizia. Se vuoi seguirci, sarà un piacere per noi. Renderebbe ogni cosa più facile per me.»

Una buona risposta, considerando che m’era preso un attacco d’ansia.

«Quella che stai guidando è la mia macchina!»

«Mmm. Be’, l’ho requisita.»

«Che cosa?!»

Interruppi la comunicazione prima che la conversazione degenerasse in minacce di morte. Il furgone sparì a due isolati dalla polizia e io proseguii con il mio prigioniero che continuava a dormire come un bambino.

Il dipartimento di polizia di Trenton è dislocato sui tre piani di un edificio di mattoni a forma di cubo, un tentativo maldestro di applicare criteri di funzionalità all’architettura municipale. Chiaramente a corto di fondi, l’avevano costruito badando all’essenziale. Era stata una scelta positiva, considerando il fatto che il distretto era in pieno ghetto e che, se fosse scoppiata una sommossa di vaste proporzioni, sarebbe stato comunque completamente distrutto.

L’adiacente parcheggio cintato veniva usato dalle auto di servizio e dai furgoni, dagli impiegati, dai poliziotti, nonché dai cittadini assillati dai problemi con la giustizia.

Case a schiera di arenaria e piccoli negozi, tipici della zona, sorgevano di fronte all’entrata principale: una pescheria, un bar privo di insegna luminosa con sinistre sbarre di metallo alle finestre, una drogheria all’angolo, un negozio di elettrodomestici usati, che metteva in mostra una fila variopinta di lavatrici esposte sul marciapiede, e una chiesa mormone.

Entrai nel piazzale, attivai il telefono e chiesi aiuto per il trasferimento di un ricercato in stato d’arresto. Mi fu ordinato di proseguire fino alla porta di sicurezza sul retro, dove mi avrebbe aspettato un agente in divisa. Continuai fino alla porta designata e indietreggiai nel viale sistemando l’auto con la portiera di Clarence vicino all’edificio. Non vidi nessun agente in divisa, perciò chiamai di nuovo con il telefono. Mi risposero di stare calma. Facile per loro… quelli sapevano che cosa fare.

Dopo qualche minuto Crazy Carl Costanza mise la testa fuori dalla porta. Avevo fatto la prima comunione con Crazy Carl, fra l’altro.

Lui guardò verso di me, oltre Sampson. «Stephanie Plum?»

«Ciao, Carl.»

La sua faccia s’illuminò di un sorriso. «Mi avevano detto che qua fuori c’era una rompiscatole.»

«Io», confermai.

«Chi è il bell’addormentato?»

«Un ricercato.»

Carl si fece avanti per dare un’occhiata da vicino. «È morto?»

«Non credo.»

«Puzza come un cadavere.»

Ero d’accordo. «Gli farebbe bene un bagno con la canna.» Diedi a Clarence uno scossone e gli gridai all’orecchio: «Andiamo. È ora di svegliarsi».

Clarence tossicchiò e aprì gli occhi. «Dove sono?»

«Alla stazione di polizia», risposi. «Scendiamo.»

Lui mi fissò con lo sguardo dell’ubiiaco che non connette e rimase seduto inerte come un sacco di sabbia.

«Fa’ qualcosa», dissi a Costanza. «Tiralo giù.»

Costanza afferrò Clarence per le braccia e io appoggiai il piede sul sedere del prigioniero. Lo spingemmo a poco a poco e riuscimmo a far scendere quell’ammasso di carne putrida di Sampson dal sedile sul marciapiede.

«Ecco perché faccio il poliziotto», dichiarò Costanza. «Non so resistere al fascino di certe situazioni.»

Trascinammo Clarence attraverso la porta di sicurezza, lo ammanettammo a una panca di legno e lo consegnammo all’addetto alle registrazioni di questi casi. Tornai fuori di corsa e spostai la Cherokee in uno spazio del parcheggio dove sarebbe stata meno visibile ai poliziotti, nel caso la scambiassero per un’auto rubata.

Quando rientrai, Clarence era stato spogliato della cintura, dei lacci delle scarpe e degli effetti personali; sembrava disperato e patetico. Era il mio primo arresto, avevo creduto di provare soddisfazione per il mio successo e invece mi era difficile esaltarmi per le disgrazie altrui.

Ritirai l’attestato per l’arresto e passai qualche minuto a chiacchierare con Crazy Carl dei vecchi tempi. Poi mi diressi al parcheggio. Avevo sperato di andarmene prima del buio, ma la notte era scesa presto sotto un banco di nubi. Il cielo era senza stelle e senza luna. Traffico leggero, più facile tallonare qualcuno, conclusi fra me, ma non ci credevo. Avevo scarsa fiducia nelle mie possibilità di individuare Morelli.

Nessuna traccia del furgone. Questo non significava molto. Ormai Morelli poteva essere alla guida di qualsiasi veicolo. Mi diressi verso Nottingham con un occhio sulla strada e l’altro sullo specchietto. Dubitavo che Morelli non fosse là fuori, da qualche parte, ma almeno mi usava la cortesia di non farsi vedere. Questo voleva dire che mi prendeva abbastanza seriamente. Un pensiero confortante che mi fece nascere l’idea di un piano. Semplicissimo. Andare a casa, parcheggiare la Cherokee, aspettare fra i cespugli con la bomboletta micidiale e immobilizzare Morelli se avesse tentato di recuperare la sua macchina.

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