7

La calotta dello spinterogeno era sotto un cespuglio, dove l’avevo lasciata, vicino alla facciata dell’edificio. La rimontai e uscii dal parcheggio dirigendomi verso Hamilton. Trovai un posto libero davanti all’ufficio di Vinnie e riuscii a parcheggiare la Cherokee al terzo tentativo.

Connie era alla scrivania, intenta a guardarsi in uno specchietto per liberare le ciglia dai grumi di mascara.

Alzò lo sguardo appena mi scorse. «Tu non usi mai questa roba per allungare le ciglia?» chiese. «Sembra fatta con i peli di topo.»

Le agitai sotto il naso la ricevuta rilasciatami il giorno prima dalla polizia. «Ho preso Clarence.»

«Bene!» commentò lei stringendo le dita a pugno e tirando indietro il gomito.

«C’è Vinnie?»

«È dovuto passare dal dentista… per farsi affilare gli incisivi, credo.» Connie prese gli originali della pratica e afferrò la mia ricevuta. «Non c’è bisogno di Vinnie, ti faccio io l’assegno.» Scrisse un appunto sulla cartelletta dei documenti e la depositò nel contenitore in un angolo lontano della scrivania. Poi prese il libretto e staccò l’assegno. «Come va con Morelli? Lo hai localizzato?»

«Non esattamente, ma so che è ancora in città.»

«È davvero un bel tipo», disse Connie. «L’ho visto sei mesi fa, prima che scoppiasse il caso. Stava ordinando del provolone in un negozio. Ho dovuto compiere uno sforzo per non affondargli i denti nelle natiche.»

«Si direbbe che ti piace la carne!»

«Macché, quell’uomo è irresistibile.»

«È anche accusato di omicidio», le ricordai.

Connie sospirò. «Un sacco di donne a Trenton piangeranno quando sapranno che Morelli è in galera.»

Probabilmente era vero, ma io non mi sarei trovata fra quelle donne. Dopo la notte appena trascorsa, il pensiero di Morelli dietro le sbarre suscitava sensazioni piacevoli nel mio cuore, umiliato e in preda a un desiderio di vendetta. «Hai un elenco telefonico?» m’informai.

Connie si girò sulla sedia per indicarmi gli schedari. «È il librone sopra il cassetto G.»

«Sai qualcosa sul conto di Mooch Morelli?» domandai mentre cercavo il nominativo.

«Solo che ha sposato Shirley Gallo.»

L’unico Morelli in Hamilton Township figurava al 617 Bergen Court. Cercai la località sulla cartina dietro la scrivania di Connie. Se ricordavo bene la zona, era un quartiere di casette a piani sfalsati, piuttosto degradate.

«Hai visto Shirley, ultimamente?» chiese Connie. «È grossa come un cavallo. Deve aver messo su almeno quaranta chili dalla scuola superiore. L’ho vista alla festa di Margie Manusco. Occupava tre sedie quando si sedeva e aveva una borsa piena di Ding Dong. Probabilmente per casi d’emergenza… se qualcuno tentava di soffiarle l’insalata di patate.»

«Shirley Gallo grassa? Era magra come un chiodo, a scuola.»

«Le vie del Signore sono misteriose.»

«Amen.»

Il cattolicesimo che praticavano nella cittadella era una religione comoda. Nel dubbio, c’era sempre Dio, dietro le quinte, ad assumersi le colpe degli uomini.

Connie mi consegnò l’assegno e si rimosse un grumo di mascara dalle ciglia dell’occhio sinistro. «Sai cosa ti dico? È maledettamente complicato apparire una donna di classe», dichiarò.


Il garage che mi aveva raccomandato Ranger si trovava in un piccolo complesso industriale e il retro dava sulla Route 1. Il complesso era costituito da sei edifici di cemento tipo bunker dipinti di giallo, con la tinta sbiadita dal tempo e dai gas di scarico provenienti dall’autostrada. Nel concepirne il progetto, gli architetti probabilmente avevano previsto di circondarlo di prati e cespugli. All’atto pratico, però, i prati erano diventati una distesa di terra battuta, di mozziconi di sigarette, barattoli ed erbe infestanti. Ognuno dei sei edifici era munito di un viale d’accesso lastricato e di un parcheggio.

Superai lentamente una tipografia e uno stabilimento per la lavorazione di materie plastiche e mi fermai davanti a una carrozzeria: Al’s Auto Body recitava l’insegna. Le porte d’accesso erano tre di cui solo una spalancata. Nel cortile sul retro erano ammonticchiate diverse vetture sfasciate e arrugginite, più o meno smontate; altre macchine, ultimo modello con il paraurti incurvato, erano parcheggiate in un recinto di filo spinato adiacente alla terza entrata.

Mi addentrai nel parcheggio e mi fermai vicino a una Toyota nera quattro per quattro sollevata con un cric per asportarne le enormi ruote, più adatte a un’escavatrice.

Per strada, avevo fatto una sosta in banca e avevo depositato l’assegno. Sapevo perfettamente quanto denaro ero disposta a spendere per l’antifurto, e non avrei sborsato un centesimo di più. Probabilmente la somma che avevo in mente non sarebbe bastata, ma non c’era niente di male a chiedere.

Aprii la portiera e scesi nella calura opprimente, respirando lentamente per non farmi soffocare dalle esalazioni mefitiche. Il sole sembrava sporco vicino all’autostrada: lo smog ne offuscava la luce e ne appiattiva la sagoma. Il rumore di un avvitatore ad aria compressa proveniva dalla carrozzeria.

Attraversai il parcheggio e lanciai un’occhiata furtiva all’interno di quella bolgia indistinta di pistole per ingrassaggio, filtri per l’olio e uomini dall’aria scostante in tuta arancione. Uno di loro, mi venne incontro lentamente. Portava a mo’ di copricapo una calza di nylon di misura spropositata, annodata a un’estremità. Evidentemente l’accorgimento gli sarebbe tornato utile se avesse deciso di rapinare un minimarket mentre tornava a casa. Gli dissi che stavo cercando Al, mi rispose che l’avevo trovato.

«Voglio installare un antifurto sulla mia auto. Ranger ha detto che lei mi avrebbe fatto un buon prezzo.»

«Come mai conosce Ranger?»

«Lavoriamo insieme.»

«Questo copre un campo piuttosto vasto.»

Non sapevo che cosa volesse dire e probabilmente non volevo saperlo. «Sono un’agente.»

«Perciò le serve un impianto antifurto perché le capita di trovarsi in quartieri pericolosi.»

«Veramente l’auto l’ho rubata e temo che il proprietario cercherà di riprendersela.»

I suoi occhi mandarono un lampo divertito. «Meglio ancora.»

Il garagista si avvicinò a un banco in fondo al locale e tornò con un oggetto di plastica nera di forma quadrata. «Questo è un vero gioiello», spiegò. «Funziona con la pressione dell’aria. Ogni volta che cambia la pressione, per un finestrino rotto o una portiera aperta, si mette a suonare tanto forte da rompere i timpani.» Rigirò l’aggeggio nella mano. «Basta premere il tasto, poi passano venti secondi prima che entri in azione. Così ha il tempo di scendere e di chiudere la portiera. Altri venti secondi, dopo che si apre la portiera, e può così inserire il codice per disattivarlo.»

«Come faccio a chiuderlo, una volta che è scattato l’allarme?»

«Con una chiavetta.» L’uomo mi mise in mano una piccola chiave d’argento. «Le consiglio di non lasciare la chiave nell’auto. Così non serve allo scopo.»

«È più piccolo di quanto credessi.»

«Piccolo ma potente. E il bello è che costa poco perché è facile da installare. Basta avvitarlo sul cruscotto.»

«Quanto costa?»

«Sessanta dollari.»

«Venduto.»

Lui prese un cacciavite dalla tasca posteriore. «Mi faccia vedere dove desidera che lo metta.»

«Sulla Cherokee rossa vicino a quel camion. Preferirei che lo sistemasse in qualche punto poco visibile. Non vorrei rovinare il cruscotto.»

Dopo qualche minuto mi dirigevo verso Stark Street, piuttosto compiaciuta di me stessa. Ora avevo un antifurto che non mi era costato un patrimonio e che potevo trasferire senza difficoltà nell’auto che intendevo acquistare quando avessi riscosso i soldi per l’arresto di Morelli. Mi fermai al 7-Eleven e comperai uno yogurt alla vaniglia e una confezione di succo d’arancia per pranzo. Bevvi continuando a guidare, decisamente comoda in quello splendore di macchina con l’aria condizionata. Possedevo un antifurto, una bomboletta di gas, uno yogurt. Che altro potevo desiderare dalla vita?

Parcheggiai di fronte alla palestra, finii di bere il succo d’arancia, attivai l’allarme, presi la borsa e le foto di Morelli e chiusi l’auto. Stavo agitando un drappo rosso sotto il naso di un toro. Per farmi notare ancora di più avrei dovuto attaccare un cartello sul parabrezza. ECCOMI! VENITE A PRENDERMI!

Nella via ogni attività si svolgeva al rallentatore, per il caldo pomeridiano. Due prostitute stavano in piedi all’angolo, come se aspettassero l’autobus, ma l’autobus non passava in Stark Street. Le donne se ne stavano là chiaramente annoiate e deluse. Impossibile agganciare un cliente a quell’ora del giorno. Indossavano ciabatte di plastica da poco, top elasticizzati e shorts aderenti di maglina. Avevano i capelli cortissimi, a spazzola. Non ero sicura di come facessero le prostitute a stabilire il loro prezzo, ma se gli uomini le pagavano a peso, quelle due facevano al caso loro.

Non nascosero la loro ostilità mentre mi avvicinavo: le mani sui fianchi, le labbra inferiori sporgenti e gli occhi così spalancati che sembravano schizzare fuori dalle orbite.

«Ehi, bella, che ci fai qui?» strillò una delle due. «Questa è la nostra zona, chiaro?»

Credevo che ci fosse una bella differenza tra una ragazza della cittadella e una battona.

«Sto cercando un amico, Joe Morelli», risposi mostrando la foto del ricercato. «Per caso l’avete visto nei paraggi?»

«Che cosa vuoi da questo Morelli?»

«È una questione personale.»

«Me l’immagino.»

«Lo conosci?»

Lei spostò il peso da una gamba all’altra. Mica tanto facile. «Può darsi.»

«In realtà, eravamo più che amici», precisai.

«Cioè?»

«Quel bastardo mi ha messa incinta.»

«Non sembra, a vederti.»

«Dammi tempo un mese.»

«Puoi rimediare.»

«Sicuro», convenni. «E la prima cosa è trovare Morelli. Sapete dove sia?»

«No… uh.»

«Voi conoscete una certa Carmen Sanchez? Lavorava allo Step-in.»

«Ti ha messo incinta anche lei?»

«Pensavo di trovarla con Morelli.»

«Carmen è scomparsa», dichiarò l’altra prostituta. «Capita spesso alle donne in Stark Street. È un rischio ambientale.»

«Vuoi spiegarti meglio?»

«Lei vuole tenere la bocca chiusa, ecco cosa vuole fare», si intromise la prima ragazza. «Non sappiamo niente di questa storia. E non abbiamo tempo di restare a parlare con te. Dobbiamo lavorare.»

Controllai tutta la via. Non c’era lavoro in vista, così pensai che volessero darmi il benservito. Chiesi i loro nomi, mi risposero che si chiamavano Lula e Jackie. Lasciai a tutte e due il mio biglietto da visita pregandole di darmi un colpo di telefono se avessero visto Morelli o la Sanchez. Avrei voluto chiedere anche del testimone scomparso, ma che cosa potevo dire? Scusate avete visto per caso un uomo con la faccia piatta come una padella?

Passai di porta in porta a parlare con le persone sedute sugli scalini, a interrogare i bottegai. Alle quattro avevo il naso bruciato dal sole e nient’altro. Avevo cominciato dal lato settentrionale di Stark Street e mi ero spinta due isolati a ovest. Poi attraversai la strada e tornai indietro. Ero passata con circospezione davanti al garage e alla palestra. Avevo però scartato i bar. Potevano costituire la mia migliore fonte d’informazioni, ma mi sembravano pericolosi, troppo al di sopra delle mie capacità. Forse ero eccessivamente prudente, forse quei bar pullulavano di persone perbene, a cui non poteva fregare di meno della mia vita. In verità, non ero abituata a far parte di una minoranza: mi sentivo come un nero sorpreso a sbirciare donne bianche in un rispettabile quartiere alla periferia di Birmingham.

Percorsi due isolati e mezzo dirigendomi a sud, poi tornai indietro attraversando la strada. Sull’altro lato gran parte degli edifici era di tipo residenziale e una folla sempre più numerosa di persone sciamava verso la strada; per questo procedevo più lentamente verso il punto in cui avevo lasciato la macchina.

Per fortuna la Cherokee era sempre accanto al marciapiede, ma sfortunatamente Morelli non si era fatto vivo. Evitai di guardare le finestre della palestra. Se Ramirez mi osservava, preferivo far finta di niente. Avevo stretto i capelli in una coda di cavallo e sentivo un certo prurito alla nuca. Probabilmente mi ero scottata al sole. Non mi davo troppa pena per scegliere una crema solare. In realtà, mi aspettavo che l’inquinamento filtrasse i raggi cancerogeni.

Una donna si diresse a passo rapido verso di me dall’altra parte della strada. Era robusta, vestita sobriamente, con i capelli neri tirati indietro e raccolti in uno chignon alla nuca.

«Mi scusi», esordì. «Lei è Stephanie Plum?»

«Sì.»

«Il signor Alpha vorrebbe parlarle», annunciò. «Il suo ufficio è proprio di fronte.»

Non conoscevo nessun signor Alpha e non mi entusiasmava fermarmi nel territorio di Benito Ramirez, ma la donna emanava una certa rispettabilità cattolica, perciò la seguii. Entrammo nell’edificio vicino alla palestra, una casa a schiera come tante altre in Stark Street. Stretta, tre piani, esterno fuligginoso, finestre sudice. Salimmo rapidamente una rampa di scale fino a un piccolo pianerottolo, dove si affacciavano tre porte. Una era socchiusa, l’aria condizionata filtrava nel corridoio.

«Da questa parte», m’invitò la donna guidandomi in una sala d’attesa quasi completamente occupata da un divano di pelle verde e da una grande scrivania chiara di legno screpolato. Su un tavolo scolorito erano sparse riviste di boxe sgualcite e foto di pugili tappezzavano le pareti che imploravano di essere ritinteggiate.

La donna mi introdusse in un ufficio interno e chiuse la porta alle mie spalle. L’ufficio era simile alla sala d’attesa, con due finestre che si affacciavano sulla strada. L’uomo alla scrivania si alzò quando mi vide entrare. Indossava pantaloni con la piega e camicia con le maniche corte aperta sul collo. Aveva lineamenti marcati e mascelle quadrate; il suo corpo robusto mostrava ancora i muscoli, ma l’età aveva aggiunto qualche piega alla vita e i capelli neri cominciavano a ingrigirsi. Valutai che stesse avviandosi ai sessanta e conclusi che per lui la vita non era stata tutta rose e fiori.

L’uomo si chinò e mi tese la mano. «Jimmy Alpha. Sono il manager di Benito Ramirez.»

Annuii, non sapendo che cosa rispondere. La mia prima reazione fu quella di strillare, ma probabilmente sarebbe stata assai poco professionale.

Lui m’indicò una sedia pieghevole di fianco alla scrivania. «Ho saputo che è tornata e ho voluto cogliere l’occasione di porgerle le mie scuse. So che cosa è accaduto in palestra fra lei e Benito. Ho cercato di telefonarle, ma il suo apparecchio era isolato.»

Le scuse destarono in me una nuova rabbia. «Il comportamento di Ramirez è stato gratuito e imperdonabile.»

Alpha sembrava sinceramente imbarazzato. «Non ho mai pensato che avrei avuto problemi del genere», confessò. «Volevo solo scovare un pugile di classe e adesso che ce l’ho, mi ritrovo con l’ulcera.» Tirò fuori una bottiglietta di Mylanta dal primo cassetto della scrivania. «La vede questa? La compro apposta.» Svitò il tappo e bevve. Portò la mano chiusa a pugno verso il petto e sospirò. «Mi creda, sono sinceramente dispiaciuto per quanto è accaduto in palestra.»

«Non c’è ragione di scusarsi, non è un suo problema.»

«Vorrei che fosse vero. Purtroppo, è un mio problema.» Alpha riavvitò il tappo, rimise la bottiglietta nel cassetto e si sporse avanti, le braccia sulla scrivania. «Lei lavora per Vinnie, vero?»

«Sì.»

«Conosco Vinnie da un pezzo, è un originale.»

Alpha sorrise e io conclusi che il manager doveva aver sentito parlare di quel bel tipo di mio cugino.

Alpha tornò serio, gli occhi appuntati sui pollici e affondò leggermente nella sua poltroncina. «A volte non so che cosa fare con Benito. Non è cattivo, ma s’intende solo di boxe, niente altro. Il successo può dare alla testa di un uomo che viene dal nulla come Benito.»

Alzò gli occhi per vedere se credevo a quello che diceva. Emisi un grugnito di derisione e lui capi che ero profondamente disgustata.

«Non cerco di scusarlo», riprese l’uomo mostrandosi amareggiato. «Benito fa cose sbagliate, e io non ho nessuna influenza su di lui, al momento. È pieno di sé, e si circonda di individui che hanno il cervello nei guantoni da pugile.»

«La palestra era affollata di ragazzi robusti che non hanno mosso un dito per aiutarmi.»

«Ho parlato con loro di questa faccenda. Un tempo le donne erano rispettate, ma ora il rispetto non esiste più. Omicidi, droga…» Alpha tacque e s’immerse nei propri pensieri.

Ricordai ciò che Morelli mi aveva detto di Ramìrez e delle precedenti accuse di stupro. Alpha stava nascondendo la testa sotto la sabbia come uno struzzo o forse stava cercando di coprire le malefatte della sua gallina dalle uova d’oro. Avrei scommesso sulla teoria dello struzzo.

Lo fissai in gelido silenzio, sentendomi troppo isolata, in quell’ufficio nel ghetto al secondo piano, per esprimere i miei pensieri, e troppo arrabbiata per mormorare una frase cortese.

«Se Benito la importuna di nuovo, mi avverta subito», continuò Alpha. «Non mi va che succedano certe cose.»

«L’altra notte è venuto a casa mia e ha tentato di entrare. Ha vomitato insulti pesanti nel corridoio e mi ha imbrattato la porta. Se succede di nuovo, lo denuncio.»

Alpha appariva visibilmente scosso. «Nessuno me l’ha detto. Non l’ha aggredita, vero?»

«No.»

Alpha prese un biglietto sulla scrivania e vi scribacchiò un numero. «Questo è il mio numero di casa», spiegò porgendomi il biglietto. «Se le dà fastidio di nuovo, mi chiami immediatamente. E se ha danneggiato la porta, provvederò a farla riparare.»

«La porta è okay; ma tenga quell’individuo lontano da me.»

Lui strinse le labbra e annuì.

«Immagino che lei non sappia niente di Carmen Sanchez?» insistetti.

«Solo ciò che si legge sui giornali.»


In State Street svoltai a sinistra e mi tuffai nel traffico dell’ora di punta. Il semaforo scattò e avanzammo tutti un po’ alla volta. M’era rimasto abbastanza denaro per comperare qualche provvista, perciò passai davanti a casa senza fermarmi e proseguii fino al Super Fresh.

Mentre ero alla cassa, mi venne in mente che Morelli doveva pur procurarsi il cibo da qualche parte o tramite qualcuno. Magari si aggirava per il Super Fresh con un paio di baffoni posticci alla Groucho Marx, occhiali e naso finti. E poi dove abitava? Forse nel furgone azzurro. Pensavo l’avesse abbandonato dopo che l’avevo individuato. O forse no. Probabilmente il veicolo gli faceva ancora comodo e lo usava come quartier generale con una fornitissima riserva di scatolame. Era anche possibile che il furgone fosse dotato di dispositivi di intercettazione. Aveva spiato Ramirez dalla strada, forse ne ascoltava anche le conversazioni.

Non avevo visto il furgone in Stark Street. Veramente non lo avevo neppure cercato, ma se ci fosse stato l’avrei di sicuro notato. Non sapevo granché della sorveglianza elettronica, ma sapevo che chi sorvegliava doveva essere abbastanza vicino al sorvegliato. Un aspetto questo che dovevo valutare meglio. Forse potevo trovare Morelli cercando il furgone.

Fui costretta a fermarmi in fondo al parcheggio e fu allora che imprecai fra me e me contro i vecchi disabili che occupavano i posti migliori. Afferrai i tre sacchetti di plastica della spesa e la confezione da sei lattine di birra, e chiusi la portiera della Cherokee con il ginocchio. Avevo le braccia tese nello sforzo di reggere il peso e arrancavo impacciata con le borse che mi sbattevano contro le ginocchia. Mi venne in mente una storiella che avevo sentito chissà dove e che aveva a che fare con i testicoli di un elefante.

Presi l’ascensore, barcollai per il breve tratto del corridoio e deposi le borse sullo zerbino mentre cercavo la chiave. Aprii la porta, accesi la luce, portai le borse in cucina e tornai indietro per chiudere la porta. Sistemai la roba separando le provviste che andavano nella dispensa da quelle per il frigorifero. Era bello avere di nuovo del cibo in casa. Fare incetta di viveri era parte integrante del mio patrimonio genetico. Le casalinghe della cittadella erano sempre pronte per le emergenze, accumulando carta igienica e scatolame nel caso in cui una bufera di neve dovesse ripetersi.

Perfino Rex era tutto eccitato mentre osservava l’attività in cucina dalla sua gabbietta, le zampette che premevano con forza sul vetro.

«Sono in arrivo giorni migliori, Rex», annunciai dandogli una fettina di mela. «D’ora in poi mangerai sempre mele e broccoli.»

Al supermercato avevo comperato una pianta della città, la aprii sul tavolo mentre mi sedevo per cenare. L’indomani avrei eseguito una ricerca accurata del furgone blu. Avrei ispezionato la zona intorno alla palestra e avrei controllato l’indirizzo di Ramirez. Tirai fuori l’elenco telefonico e cercai Ramirez. In elenco ce n’erano ventitré. Tre con il nome che iniziava con la B. Composi il primo numero e una donna rispose al quarto squillo. In sottofondo sentivo piangere un bambino.

«Benito Ramirez, il pugile, abita lì?» chiesi.

La risposta mi giunse in spagnolo e non suonò cordiale. Mi scusai per il disturbo e riappesi. Al secondo numero rispose Ramirez in persona ma non era quello che cercavo. Le tre B non portarono da nessuna parte. Conclusi che non valeva la pena di chiamare gli altri numeri. In un certo senso ero contenta di non aver trovato il pugile. Non so che cosa gli avrei detto. Niente, suppongo. Cercavo un indirizzo, non una conversazione. E la verità era che il solo pensiero di Ramirez mi dava i brividi. Avrei potuto piazzarmi alla palestra e tentare di seguire il pugile quando usciva, ma la Cherokee rossa non sarebbe certo passata inosservata. Forse Eddie poteva aiutarmi. I poliziotti trovano sempre il modo di ottenere un indirizzo. Chi altri conoscevo che avesse accesso agli indirizzi? Marilyn Truro lavorava alla Motorizzazione. Se avessi avuto un numero di targa, probabilmente avrebbe potuto risalire all’indirizzo. Oppure potevo chiamare la palestra. No, troppo facile.

Che diavolo, mi dissi. Provaci. Purtroppo avevo strappato la pagina con la pubblicità della palestra dal mio elenco, così chiamai il servizio telefonico. Ringraziai l’operatore e feci il numero che mi aveva dato. Dissi al tipo che mi rispose che dovevo incontrare Benito, ma che avevo perso l’indirizzo.

«320 Polk», rispose lui. «Non so il numero di appartamento, ma so che è al secondo piano. In fondo al corridoio. C’è il nome sulla porta, non può sbagliare.»

«Grazie di cuore», dissi.

Spinsi il telefono all’estremità del tavolo ed esaminai la mappa per localizzare Polk. La cartina indicava che si trovava a tre isolati dalla palestra e che correva parallela a Stark Street. Feci un cerchio con un evidenziatore giallo intorno all’indirizzo. Ora c’erano due posti dove cercare il furgone. Avrei parcheggiato e sarei andata a piedi, se necessario, percorrendo vicoli e chiedendo nei garage. Era la prima cosa da fare l’indomani mattina se non saltava fuori niente, sarei tornata a occuparmi dei casi che Connie mi aveva affidato. Giusto per mettere insieme il denaro dell’affitto.

Controllai tutte le finestre per assicurarmi che fossero ben chiuse, poi tirai le tende. Desideravo fare la doccia e andare a letto presto senza trovarmi davanti visitatori inaspettati.

Riordinai l’appartamento cercando di non far caso agli spazi vuoti dove prima c’erano gli elettrodomestici e di ignorare i segni dei mobili sul tappeto del soggiorno. Con i diecimila dollari per la cattura di Morelli avrei restituito una parvenza di normalità alla mia vita, ma era pur sempre una soluzione provvisoria. Probabilmente avrei dovuto continuare a cercare un impiego.

Chi volevo prendere in giro? Ormai non c’era più posto per me nel mio campo.

Potevo continuare a dar la caccia ai ricercati, ma sembrava piuttosto rischioso, nel migliore dei casi. E nel peggiore… non volevo neanche pensarci. Oltre ad abituarmi a essere minacciata, odiata e possibilmente molestata e magari ammazzata, avrei dovuto imparare a gestire la mia attività da sola. Avrei dovuto imparare le arti marziali e alcune tecniche della polizia per neutralizzare i delinquenti. Non avevo nessuna intenzione di trasformarmi in un Terminator, ma neppure ero disposta a continuare a operare come una sprovveduta. Se avessi avuto un televisore, avrei potuto guardare le repliche dei telefilm polizieschi.

Mi ricordai di aver deciso di far installare un altro catenaccio alla porta d’ingresso e decisi di andare da Dillon Ruddick, il custode. Dillon e io eravamo amici, forse per il fatto che eravamo gli unici in tutto il condominio a credere che ci si potesse alimentare senza ingoiare pillole. Riusciva a stento a leggere i fumetti, ma con un attrezzo qualunque in mano diventava un mago. Viveva nei meandri de! palazzo, in un’atmosfera di ovattata efficienza, senza mai vedere la luce del sole. Il borbottio delle caldaie e il fruscio dell’acqua nelle tubature accompagnavano le sue giornate cantandogli una sorta di serenata in sottofondo. Dillon diceva che gli piaceva, che gli ricordava l’oceano.

«Salve Dillon», lo salutai quando aprì la porta. «Come va?»

«Bene, non posso lamentarmi. Che cosa posso fare per lei?»

«Sono preoccupata per la crescente criminalità. Pensavo che sarebbe una buona idea aggiungere un altro catenaccio alla mia porta.»

«Ottima idea», approvò lui. «La prudenza non è mai troppa. Pensi che ho appena finito di mettere un catenaccio alla porta della signora Luger. Ha detto che un paio di giorni fa, nel cuore della notte, c’era un tipo grande e grosso che strillava nei corridoi. Era terrorizzata. Forse lo ha sentito anche lei, la signora Luger abita solo due porte dopo il suo appartamento.»

Trattenni a stento un singhiozzo, conoscevo il nome di quel tipo grande e grosso.

«Cercherò di mettere il catenaccio per domani», promise Dillon. «Intanto, che ne dice di una birra?»

«Molto volentieri.»

Lui mi porse una lattina di birra e una ciotola di noccioline. Successivamente alzò il volume del televisore e insieme ci sedemmo sul divano.


Avevo messo la sveglia sulle otto, ma alle sette ero già in piedi, ansiosa di andare alla ricerca del furgone. Feci la doccia e dedicai un po’ di tempo ai miei capelli, trattandoli con gel e lacca dopo averli pettinati. Quando fui pronta, somigliavo a Cher in una giornata no. Ma Cher, anche in un momento negativo, non era niente male. Indossai l’ultimo paio di shorts puliti, il reggiseno che fungeva anche da top e una casacca con il cappuccio. Allacciai le Reebok, rivoltai i calzini bianchi e mi sentii proprio a mio agio.

A colazione mangiai fiocchi d’avena surgelati. Se andavano bene a Tony la Tigre, erano buoni anche per me. Dopo di che mi lavai i denti, misi un paio di orecchini d’oro, passai il rossetto sulle labbra ed ero pronta.

Le cicale frinivano preannunciando un’altra giornata caldissima, la rugiada del mattino fumava sull’asfalto. Uscii dal parcheggio per immettermi nel flusso del traffico congestionato sulla St. James. Avevo la mappa aperta sul sedile accanto a me, più un blocco per appunti sul quale avevo iniziato ad annotare numeri di telefono, indirizzi e altre informazioni utili.

Il palazzo di Ramirez era situato al centro dell’isolato, un edificio anonimo, circondato da una selva di abitazioni a quattro piani senza ascensore, costruite l’una accanto all’altra per i lavoratori meno abbienti. Molto probabilmente in origine erano occupate da immigrati; irlandesi, italiani e polacchi di belle speranze provenienti dal Delaware per lavorare nelle fabbriche di Trenton. Difficile dire chi vi abitasse ora. Non si vedevano vecchi seduti sugli scalini, né bambini che giocavano sul marciapiede. Due donne asiatiche di mezza età aspettavano alla fermata dell’autobus, le borse strette al petto, le facce impassibili. Non c’era nessun furgone in vista, nessun posto dove nasconderne uno. Niente garage e niente vicoli. Se Morelli sorvegliava Ramirez, doveva farlo dal retro o da un appartamento adiacente.

Girai attorno all’angolo e trovai una stradina che tagliava l’isolato. Niente garage neppure qui. Una soletta d’asfalto era stata stesa direttamente sul retro dell’edificio di Ramirez. Le strisce del parcheggio per sei macchine correvano in diagonale sulla soletta. C’erano solo quattro auto parcheggiate: tre vecchie bagnarole e una Silver Porsche con la targa che aveva inciso sopra in oro: IL CAMPIONE. Nelle auto non c’era nessuno.

Oltre la strada di servizio c’erano altri appartamenti, probabilmente in affitto. Un luogo dove Morelli poteva ragionevolmente osservare o ascoltare, pensai, ma non c’era nessun segno di lui.

Attraversai la stradina e girai attorno all’isolato, ampliando il giro fino a controllare tutte le vie transitabili nella zona. Il furgone non c’era.

Mi diressi verso Stark Street e ripetei l’operazione, alla ricerca del furgone. C’erano garage e vicoli, perciò parcheggiai la Cherokee e proseguii a piedi. Alle dodici e mezzo avevo ficcato il naso in una infinità di garage. Se incrociavo gli occhi, vedevo il naso che si spellava, i capelli erano incollati alla nuca e mi doleva la spalla per via del borsone a tracolla.

Quando tornai alla Cherokee mi fumavano i piedi. Mi appoggiai all’auto per assicurarmi che le suole delle scarpe non si fossero fuse. Un isolato più avanti vidi Lula e Jackie al loro angolo. Decisi che non c’era niente di male se andavo a scambiare due chiacchiere.

«Stai ancora cercando Morelli?» domandò Lula.

Spinsi gli occhiali da sole sulla testa. «L’hai visto?»

«No. E non ho saputo niente di lui. Si tiene nascosto.»

«E il suo furgone?»

«Non so niente di un furgone. Ultimamente Morelli guidava una Cherokee rossa… come quella che hai tu.» La donna sbarrò gli occhi. «Ehi, non sarà l’auto di Morelli?»

«L’ho presa in prestito.»

La faccia di Lula s’illuminò di un largo sorriso. «Tesoro, stai dicendo che hai rubato la macchina di Morelli? Ragazza, ti sfonderà a calci il tuo culetto rinsecchito!»

«Un paio di giorni fa l’ho visto alla guida di un Econoline blu», spiegai. «Aveva un sacco di antenne che spuntavano da ogni parte. Non l’hai visto passare?»

«Non abbiamo visto niente», intervenne Jackie.

Mi rivolsi a Lula. «E tu? Hai visto un furgone blu?»

«Dimmi la verità, sei davvero incinta?» volle sapere.

«No, ma avrei potuto restarci.» Quattordici anni fa.

«Allora che succede? Che cosa vuoi da Morelli?»

«Lavoro per la persona che ha garantito per la sua cauzione. Morelli non si è presentato all’udienza.»

«Ma davvero? Ci sono in ballo dei soldi?»

«Il dieci per cento della cauzione.»

«Mi piacerebbe», confessò Lula. «Dovrei cambiar mestiere.»

«Faresti meglio a smettere di chiacchierare, prima che il tuo pappone ti dia una battuta», suggerì Jackie.

Tornai a casa e mangiai altri fiocchi d’avena surgelati, poi chiamai mia madre.

«Ho fatto un bel piatto di cavoli ripieni», annunciò lei. «Dovresti venire a cena.»

«Verrei volentieri, ma ho alcune cose da fare.»

«Per esempio? Che cos’hai di tanto importante da sbrigare da non trovare il tempo di mangiare il cavolo ripieno?»

«Lavoro.»

«Che genere di lavoro? Stai sempre cercando Morelli?»

«Sì.»

«Trovati un altro impiego. Ho visto un cartello al Clars’s Beauty Salon, cercano una sciampista.»

Nonna Mazur gridava qualcosa in sottofondo.

«Ah sì», riprese mia madre. «Stamattina ha telefonato quel pugile, Benito Ramirez. Tuo padre era molto eccitato. Un giovanotto così simpatico, educato.»

«Che cosa voleva?»

«Ha detto che aveva cercato di mettersi in contatto con te, ma che il tuo telefono era staccato. L’ho avvertito che adesso funziona.»

Avrei voluto sbattere la testa contro il muro. «Ramirez è uno sporco individuo. Se richiama non parlargli.»

«Con me è stato molto educato.»

Sicuro, pensai, il più cortese stupratore omicida di Trenton. E adesso sapeva che il mio telefono funzionava.

Загрузка...