6

La facciata principale del palazzo dava direttamente sul marciapiede, il parcheggio era dietro. Lo spiazzo non aveva niente di pittoresco, consisteva in un rettangolo d’asfalto suddiviso in spazi per parcheggiare. Non eravamo così raffinati da pretendere che a ognuno di noi fosse riservato uno spazio fisso. Parcheggiare era un’impresa disperata, dal momento che i posti migliori erano riservati ai disabili. Tre cassonetti fiancheggiavano l’entrata: due per i materiali riciclabili, il terzo per tutti gli altri rifiuti. Positivo per l’ambiente, un po’ meno per l’estetica. L’ingresso posteriore era più accogliente grazie a una siepe di rigogliose azalee che copriva quasi l’intera lunghezza del piazzale. In primavera le azalee erano bellissime, con i piccoli fiori rosa, e d’inverno davano allo scenario un tocco di magia perché il custode le decorava con piccole luci variopinte. Per il resto dell’anno erano meglio di niente.

Scelsi uno spazio bene illuminato al centro del parcheggio. Volevo vedere Morelli, quando sarebbe venuto a riprendere la sua auto. E poi, era uno dei pochi posti liberi. Gli inquilini dello stabile erano per la maggior parte anziani e preferivano non guidare con il buio. Alle nove il parcheggio era pieno e i televisori andavano a tutto volume negli appartamenti.

Mi guardai attorno per accertarmi che non ci fosse nessun segno della presenza di Morelli. Poi sollevai il cofano e rimossi la calotta dello spinterogeno della Cherokee. Uno dei numerosi trucchi per sopravvivere nel New Jersey. Chiunque abbia lasciato la propria auto nel parcheggio dell’aeroporto di Newark sa che bisogna rimuovere la calotta dello spinterogeno. È runico modo per essere certi di ritrovare la macchina al ritorno.

Cercai di figurarmi il momento in cui la Cherokee non sarebbe partita, Morelli chino sotto il cofano alzato; allora lo avrei attaccato con la bomboletta. Mi affrettai verso l’edificio e mi nascosi dietro le azalee.

Sedetti sul terreno sopra un giornale per non sciupare la gonna. Avrei voluto cambiarmi d’abito, ma temevo di perdere Morelli, se fossi salita in casa. Davanti alle azalee erano sparsi dei trucioli; il terreno su cui sedevo era di terra battuta. Magari, da bambina, l’avrei trovato un rifugio accogliente, ma non ero più una bambina e notavo delle cose a cui i bambini non fanno caso. In particolare che le azalee non erano così belle viste da dietro.

Una grossa Chrysler entrò nel parcheggio, ne scese un uomo con i capelli bianchi. Lo riconobbi, ma non sapevo il suo nome. Si avviò lentamente verso l’ingresso dello stabile. Non sembrava allarmato, non si mise a gridare: «Aiuto, c’è una pazza nascosta fra i cespugli!» perciò ebbi la conferma di essere ben nascosta. Guardai l’orologio nel buio. Le nove e quarantacinque. Stare ferma ad aspettare non era uno dei miei passatempi preferiti. Avevo fame, mi sentivo stanca e a disagio. Probabilmente c’è gente che approfitta dei momenti di attesa per raccogliere le idee, fare la lista delle faccende domestiche o per immergersi in profonde riflessioni sulla propria condizione. Per me l’attesa era connaturata alla perversione mentale. Era un buco nero. Una perdita di tempo.

Erano le undici e io stavo ancora aspettando. Mi sentivo intorpidita e dovevo andare in bagno. In qualche modo, riuscii a restare seduta per un’altra ora e mezza. Stavo riesaminando le mie possibilità e pensando a un nuovo piano, quando cominciò a piovere. Grosse e rade gocce di pioggia cadevano pigre schizzando i cespugli di azalee o andando a infrangersi sulla terra battuta dove ero seduta; un odore di muffa, che sembrava esalare da un cunicolo ricoperto di ragnatele, saliva dal terreno. Sedevo con la schiena appoggiata al muro dell’edificio, le gambe piegate contro il petto. Di tanto in tanto una piccola goccia traditrice cadeva anche su di me, ma per il resto ero all’asciutto.

Dopo qualche minuto la pioggia si intensificò, le gocce divennero più piccole e più fitte e si levò il vento. Sul piazzale iniziarono a formarsi delle pozzanghere che riflettevano sprazzi di luce; la pioggia imperlava la lucida vernice rossa della Cherokee.

Era la notte ideale per mettersi a letto con un libro ad ascoltare il tic tac delle gocce sulla finestra e sulla scala antincendio. Ed era una notte schifosa per restarsene accovacciati dietro un cespuglio di azalee. La pioggia aveva preso a turbinare con il vento inzuppandomi la camicia e incollandomi i capelli sulla faccia.

All’una, ormai ridotta in condizioni pietose, tremavo, ero inzuppata e stavo per farmi la pipì addosso. Non che la cosa avesse importanza. All’una e cinque abbandonai il piano. Anche se Morelli si fosse fatto vedere, e cominciavo a dubitarne, non pensavo di essere abbastanza in forma per riuscire a catturarlo. E non volevo assolutamente che lui mi vedesse così conciata.

Stavo per andarmene quando un’auto svoltò nel parcheggio, andò a occupare uno spazio in fondo e spense i fari. Scese un uomo che, a testa bassa, si diresse verso la Cherokee. Non era Joe. Era di nuovo Mooch. Appoggiai la fronte sulle ginocchia e chiusi gli occhi. Ero stata un’ingenua a pensare che Joe sarebbe caduto nella trappola. L’intero dipartimento di polizia gli dava la caccia. Non avrebbe mai abboccato a un trucchetto del genere. Rimasi imbronciata per pochi secondi, poi mi riscossi, giurando a me stessa di essere più furba la prossima volta. Dovevo mettermi nei panni di Morelli. Mi sarei esposta al punto di andare personalmente a riprendermi la macchina? No. Okay, stavo imparando. Regola numero uno: non sottovalutare il nemico. Regola numero due: ragionare come un delinquente.

Mooch aprì la portiera del posto di guida e si mise al volante. Il motorino d’avviamento tossicchiò, ma non si accese. Mooch aspettò qualche minuto e riprovò. Scese dall’auto, guardò sotto il cofano. Non occorreva essere un genio per capire che mancava la calotta dello spinterogeno. Mooch si rialzò, chiuse il cofano con un colpo secco, mollò un calcio a una ruota e sbottò in un’imprecazione colorita. Poi risalì sulla sua auto e uscì dal parcheggio.

Sgattaiolai fuori dall’ombra e percorsi faticosamente il tratto che mi separava dall’ingresso posteriore dell’edificio. La gonna si incollava alle gambe, l’acqua mi riempiva le scarpe. La serata era stata un fiasco, ma poteva andare peggio. Joe avrebbe potuto mandare sua madre a prendere la Cherokee.

L’androne era deserto, sembrava più buio del solito. Premetti il bottone dell’ascensore e aspettai. L’acqua mi gocciolava dalla punta del naso e dall’orlo della gonna, formando un minuscolo lago sul pavimento di mattonelle grigie. Due ascensori affiancati servivano lo stabile. Per quel che ne sapevo, finora nessuno era morto precipitando con la cabina, o era stalo lanciato nello spazio, ma esistevano ottime possibilità di restare fermi fra un piano e l’altro. Di solito usavo le scale, ma quella notte decisi di portare la mia stupidità masochista al massimo e presi l’ascensore. La cabina si fermò, le porte si aprirono ed entrai. Salii al secondo piano senza incidenti e proseguii nel corridoio. Cercai le chiavi nella borsa e stavo per entrare in casa quando mi ricordai della calotta dello spinterogeno. L’avevo lasciata dietro le azalee. Pensai di scendere a riprenderla, ma scartai subito l’idea. Per nessun motivo al mondo sarei tornata giù.

Tirai il chiavistello della porta e mi levai i vestiti sulla piccola striscia di linoleum che fungeva da anticamera. Le scarpe erano rovinate, sulla gonna erano impressi i titoli del giornale del giorno prima. Ammucchiai gli abiti inzuppati sul pavimento e andai diritta in bagno.

Regolai l’acqua, entrai nella vasca, tirai la tenda della doccia e lasciai che il getto m’inondasse. La giornata non era stata del tutto negativa, conclusi. Avevo effettuato un arresto, ora ero in regola. Per prima cosa, l’indomani, avrei incassato il denaro da Vinnie. M’insaponai, mi risciacquai e lavai i capelli. Girai il rubinetto dell’idromassaggio e rimasi in piedi a lungo lasciando che la tensione si dissolvesse. Per due volte Joe aveva usato Mooch come fattorino. Forse avrei dovuto sorvegliare Mooch. Il problema era che non potevo sorvegliare tutti nello stesso momento.

Fui distratta da una chiazza di colore sull’altro lato della tenda trasparente della doccia lucida di sapone. La chiazza si mosse e il mio cuore si fermò per un attimo. C’era qualcuno nel bagno: ero paralizzata dallo choc. Rimasi immobile come una statua, senza riuscire a connettere. Poi mi ricordai di Ramirez e mi si rivoltò lo stomaco: forse era entrato da una finestra. Dio solo sapeva di che cosa era capace Ramirez.

Avevo portato il borsone in bagno, ma era fuori portata sulla toletta.

L’intruso attraversò la stanza con due balzi e strappò dall’asta la tenda della doccia con una tale forza che gli anelli di plastica si staccarono schizzando dappertutto. Gridai, scagliai la boccetta dello shampoo e mi appiattii contro le piastrelle della parete.

Non era Ramirez, era Joe Morelli. Teneva in una mano la tendina, l’altra mano era chiusa a pugno. Sulla fronte gli si stava formando un livido nel punto in cui lo aveva colpito la bottiglietta. Era fuori di sé e dubitavo che rispettasse il gentil sesso al punto di trattenersi dal rompermi il naso. Eppure avevo una gran voglia di menare le mani. Chi si credeva di essere, quel cafone? Prima mi aveva spaventata a morte, poi mi aveva rovinato la tenda della doccia.

«Che accidenti credi di fare?» strillai. «Non hai mai sentito parlare del campanello? Come sei entrato?»

«Hai lasciato aperta la finestra della tua camera.»

«La zanzariera era chiusa.»

«Le zanzariere non contano.»

«Se me l’hai rovinata, me la paghi. E la tenda della doccia? Le tende non crescono sugli alberi, sai.» Abbassai il volume della voce, ma il tono restava un’ottava più alto del normale. Onestamente, non avevo idea di quello che dicevo. Ero in preda al panico e alla rabbia, come mai m’era capitato prima. Ero furibonda che avesse violato la mia privacy ed ero terrorizzata perché mi aveva sorpresa nuda.

In circostanze adatte, nudo è bello…! Fare la doccia, fare l’amore, venire al mondo. Rimanermene nuda e gocciolante, in piedi davanti a Joe Morelli, che era completamente vestito, era più che un incubo.

Chiusi l’acqua e feci per afferrare un asciugamano, ma Morelli mi scostò la mano e gettò l’asciugamano sul pavimento dietro di sé.

«Dammi quell’asciugamano!» ordinai.

«No, finché non abbiamo chiarito alcune cose.»

Da ragazzo Morelli perdeva facilmente il controllo. Ora ero giunta alla conclusione che da adulto sapeva controllarsi alla perfezione. Nei suoi occhi affiorava il temperamento italiano, ma la violenza esibita era decisamente calcolata. Indossava una maglietta nera inzuppata di pioggia e un paio di jeans. Quando si girò verso il portasciugamani, vidi la pistola infilata nei jeans, all’altezza delle reni.

Non era difficile immaginare Morelli uccidere qualcuno, ma concordavo con Ranger e Eddie Gazami: il Morelli adulto non era stupido né impulsivo.

Si mise le mani sui fianchi. Aveva i capelli umidi che si arricciavano sulla fronte e sopra le orecchie. La bocca dalla piega dura non sorrideva. «Dov’è la calotta dello spinterogeno?»

Quando sono nel dubbio, passo sempre all’offensiva. «Se non esci subito dal mio bagno, mi metto a urlare.»

«Sono le due del mattino, Stephanie. I tuoi vicini dormono beati con l’apparecchio acustico sul comodino. Grida pure, nessuno ti sentirà.»

Rimasi sulle mie e lo guardai accigliata. Sempre con un’aria di sfida. Mi venisse un accidente se gli davo la soddisfazione di apparire imbarazzata e vulnerabile.

«Te lo chiedo un’altra volta», riprese lui. «Dov’è la calotta?»

«Non so di che cosa parli.»

«Ascolta, bambola. Ti metto sottosopra la casa, se necessario.»

«Non ho la calotta, non è qui. E non sono la tua bambola.»

«Perché proprio io?» si lamentò Morelli. «Che cosa ho fatto per meritarmi tutto questo’1»

Sollevai un sopracciglio con aria severa.

Morelli sospirò. «Sì, lo so.» Prese la mia borsa, la capovolse e il contenuto si sparse sul pavimento. Tirò fuori le manette dal mucchio e mosse un passo avanti. «Dammi il polso.»

«Brutto maniaco.»

«Come preferisci.» Lui fece scattare un bracciale e me lo strinse al polso destro.

Tirai indietro il braccio e scalciai verso di lui, ma era difficile muoversi nella vasca. Morelli scansò il calcio e agganciò l’altro bracciale all’asta della tenda della doccia. Guardai impietrita e incapace di credere a ciò che era successo.

Morelli indietreggiò e mi squadrò dalla testa ai piedi. «Vuoi dirmi dov’è la calotta?»

Non riuscivo a spiccicare parola. Abbassai la cresta. Avevo le guance infuocate per l’ansia e l’imbarazzo, la gola contratta.

«Magnifico», disse Morelli. «Non parlare. Puoi restare lì per sempre per quanto mi riguarda.»

Frugò nei cassetti del tavolino della toletta, svuotò il cestino della carta straccia, sollevò il coperchio del serbatoio sopra il water. Poi si precipitò fuori dal bagno senza degnarmi di uno sguardo. Lo sentii muoversi nell’appartamento mentre frugava ogni centimetro. Rumore di argenteria che sbatteva, cassetti aperti e chiusi, le ante dell’armadio che venivano spalancate. Qualche pausa sporadica seguita da un borbottìo soffocato.

Cercai di tirare l’asta con tutto il mio peso per piegarla, ma era troppo resistente.

Finalmente Morelli riapparve sulla porta del bagno.

«E adesso?» sbottai.

Lui si appoggiò allo stipite con fare indolente. «Sono tornato solo per dare un’altra occhiata.» Un sogghigno gli increspò le labbra, i suoi occhi si incollarono ai miei seni. «Freddo?»

Appena mi fossi liberata, lo avrei braccato come un segugio. Non m’importava se era innocente o colpevole. A costo di impiegare il resto della mia vita, lo avrei preso. «Va’ all’inferno.»

Il sogghigno si allargò. «Fortuna che sono un gentiluomo. Altri ne avrebbero approfittato in una situazione del genere.»

«Non mi dire.»

Lui si staccò dallo stipite. «È stato un piacere.»

«Aspetta un minuto. Non puoi andartene.»

«Credo proprio di sì.»

«E io? Non mi togli le manette?»

Morelli rifletté un momento. Andò in cucina e tornò con il telefono portatile. «Quando me ne vado, chiudo la porta a chiave; perciò assicurati che chiunque venga a liberarti abbia la chiave.»

«Nessuno ha la chiave di casa mia!»

«Sono sicuro che inventerai qualcosa», tagliò corto Morelli. «Chiama la polizia, i pompieri. Chiama i fottuti marine!»

«Sono nuda!»

Lui sorrise, mi strizzò l’occhio e se ne andò.

Sentii chiudersi la porta d’ingresso, poi la serratura che scattava, ma provai ugualmente a chiamare quel bastardo. Aspettai qualche secondo trattenendo il respiro, le orecchie tese nel silenzio. Joe Morelli se n’era andato. Strinsi le dita sul telefono. Speriamo che la compagnia dei telefoni abbia mantenuto la promessa di riallacciare l’apparecchio. Mi spostai sul bordo della vasca per sollevarmi al livello della mano ammanettata. Estrassi tutta l’antenna, premetti il tasto del telefono e l’avvicinai all’orecchio. Mi sentii così sollevata che per poco non scoppiai in lacrime.

Ora avevo un altro problema. Chi chiamare? La polizia e i pompieri erano fuori discussione. Si sarebbero precipitati nel mio parcheggio a sirene spiegate e con i lampeggianti accesi, e nel momento in cui avessero raggiunto la mia porta, quaranta anziani cittadini in pigiama avrebbero affollato il corridoio chiedendo a gran voce che cosa fosse tutto quello strepito e aspettandosi una spiegazione. Oramai comprendevo perfettamente alcune delle peculiarità dei miei attempati coinquilini: erano dispettosi in fatto di parcheggio e provavano un’attrazione morbosa per certe situazioni incresciose. Non appena avessero avuto sentore dell’arrivo delle auto con i lampeggianti in funzione si sarebbero precipitati alle finestre, incollandovi il naso.

Da parte mia, potevo anche risparmiarmi le occhiate maliziose di quattro o cinque poliziotti mentre ero incatenata nuda all’asta della tenda della doccia.

Se avessi chiamato mia madre, avrei dovuto espatriare, perché lei non mi avrebbe mai perdonato. E poi, avrebbe mandato mio padre e lui mi avrebbe visto nuda e ammanettata. Non riuscivo a immaginare una situazione del genere.

Se avessi chiamato mia sorella, lei avrebbe interpellato mia madre.

E infine avrei preferito marcire appesa alla doccia piuttosto di chiamare il mio ex marito.

A complicare ulteriormente le cose, chiunque fosse venuto a liberarmi avrebbe dovuto arrampicarsi sulla scala antincendio o forzare la serratura della porta. Mi venne in mente solo un nome. Avrei dovuto chiamare Ranger. Tirai un profondo sospiro e composi il numero, sperando di ricordarlo esattamente.

Lui rispose al primo squillo. «Sì.»

«Ranger?»

«Chi parla?»

«Stephanie Plum. Ho un problema.»

Una breve pausa, mi pareva di vederlo mentre si metteva seduto nel letto. «Quale problema?»

Roteai gli occhi, non riuscivo a credere di essere io a fare quella telefonata. «Sono ammanettata all’asta della doccia, ho bisogno di qualcuno che mi liberi.»

Altra pausa, poi lui tolse la comunicazione.

Ricomposi il numero, premendo i tasti con tanta forza che quasi mi ruppi un dito.

«Sì!» rispose Ranger in tono divertito.

«Non riappendere! È una cosa seria, maledizione! Sono intrappolata nel bagno, la porta d’ingresso è chiusa e nessuno ha la chiave.»

«Perché non chiami la polizia? Loro sono felici quando possono prestare soccorso a qualcuno.»

«Perché non voglio dare spiegazioni ai piedipiatti. E poi, sono nuda.»

«Eh, eh.»

«Non è divertente, sai. Morelli si è introdotto nel mio appartamento mentre ero sotto la doccia e quel figlio di buona donna mi ha ammanettato.»

«Ti piace quel tipo, eh?»

«Vuoi aiutarmi o no?»

«Dove abiti?»

«Nello stabile all’angolo fra la St. James e la Dunworth. Appartamento 215. È sul retro. Morelli si è arrampicato sulla scala di sicurezza e si è introdotto dalla finestra. Probabilmente dovrai fare la stessa cosa.»

In realtà non potevo biasimare Morelli per avermi ammanettato. Dopo tutto, gli avevo rubato la macchina. E capivo che volesse tenermi lontana mentre perquisiva l’appartamento. Avrei anche potuto perdonarlo per aver distrutto la tenda della doccia in una esibizione maschilista di forza, ma lui si era spinto troppo oltre quando mi aveva lasciato lì nuda e ammanettata. Se credeva di scoraggiarmi, si sbagliava. Ormai era una sfida, e non mi sarei certo tirata indietro. Avrei preso Morelli, a costo di morire.

Ero rimasta in piedi nella vasca per un periodo che mi sembrava di ore, quando sentii aprire e chiudere la porta d’ingresso. Il vapore della doccia si era dissipato da un pezzo e l’aria era fredda. Avevo la mano intorpidita, ero esausta e affamata, mi faceva male la testa.

Ranger apparve sulla porta del bagno. Mi sentii troppo sollevata per essere imbarazzata. «Ti ringrazio d’essere venuto in piena notte.»

Lui sorrise. «Non volevo perdermi lo spettacolo di te incatenata e nuda.»

«Le chiavi sono in mezzo a quel casino sul pavimento.»

Lui trovò le chiavi, mi prese il telefono dalle dita e aprì le manette. «Tu e Morelli avete per caso una storia?»

«Ricordi quando mi hai consegnato le sue chiavi, oggi pomeriggio?»

«Uh, uh.»

«Ho preso in prestito la sua auto.»

«In prestito?»

«Gliel’ho requisita, per la precisione. Sai, la legge è dalla nostra parte…»

«Uh, uh.»

«Bene, gli ho requisito l’auto e lui l’ha saputo.»

Ranger sorrise e mi porse un asciugamano. «Come ha preso la storia della requisizione?»

«Diciamo che non era contento. A ogni modo, ho parcheggiato la macchina e ho tolto la calotta dello spinterogeno per precauzione.»

«Scommetto che ha funzionato alla grande.»

Uscii dalla vasca e dovetti soffocare un grido quando vidi la mia immagine riflessa nello specchio della toilette. Avevo i capelli ritti come se avessi preso una scossa da duemila volt e mi avessero spruzzata con l’appretto. «Devo installare un antifurto nella sua auto, ma non ho il denaro necessario.»

Ranger rise, una risata sommessa e divertita. «Un antifurto. Morelli ne sarà felice.» Raccolse una penna dal pavimento e scrisse un indirizzo su un pezzo di carta igienica. «Conosco un garage che ti farà un buon prezzo.»

Andai in camera e cambiai l’asciugamano con un lungo accappatoio di spugna. «Ti ho sentito entrare dalla porta.»

«Ho fatto saltare la serratura. Non mi è parso prudente svegliare il custode.» Ranger guardò verso la finestra. La pioggia batteva sul vetro scuro, dal davanzale pendeva un pezzo di zanzariera. «Faccio l’Uomo Ragno solo con il bel tempo.»

«Morelli mi ha fracassato la zanzariera.»

«Si vede che aveva fretta.»

«Ho notato che parli quasi sempre il linguaggio del ghetto.»

«Sono poliglotta», rispose Ranger.

Lo accompagnai alla porta. Provavo un po’ d’invidia, avrei voluto conoscere un’altra lingua.


Dormii un sonno profondo e senza sogni, e avrei continuato a dormire fino a novembre se non fosse stato per l’insistente bussare alla porta d’ingresso. Guardai di sbieco l’orologio sul comodino. Le otto e trentacinque. Una volta amavo la compagnia, ora avevo paura quando qualcuno bussava alla mia porta. Il mio primo pensiero fu Ramirez. Il secondo fu che la polizia era venuta ad arrestarmi per il furto dell’auto.

Presi la bomboletta di Sure Guard dal comodino, infilai una vestaglia e mi trascinai alla porta. Chiusi un occhio e con l’altro guardai attraverso lo spioncino. Fuori c’era Eddie Gazami. Era in divisa e reggeva due sacchetti. Aprii la porta e fiutai l’aria come un cane che segue una pista. «Ciao», lo salutai.

«Ciao», rispose Gazarra passandomi davanti nel minuscolo corridoio e dirigendosi verso il tavolo de! soggiorno. «Dove sono i mobili?»

«Sto cambiando l’arredamento.»

«Uh, uh.»

Sedemmo l’uno di fronte all’altra e aspettai che tirasse fuori due tazze da caffè da uno dei sacchetti. Poi svitammo il tappo del contenitore del caffè, spiegammo i tovaglioli e ci buttammo sulle ciambelle.

Eravamo così buoni amici che non sentivamo il bisogno di parlare mentre mangiavamo. Attaccammo per prima le paste con la crema. Poi ci dividemmo le rimanenti ciambelle alla marmellata. Dopo due di queste, Eddie non si era ancora accorto dei miei capelli e allora mi chiesi come dovevano essere in condizioni normali. Lui non aveva ancora fatto commenti sul disordine che aveva lasciato Morelli. Questo mi offrì l’occasione di meditare sulle mie attitudini di donna di casa.

Gazarra mangiò la terza ciambella più lentamente, sorseggiando il caffè. «Ho saputo che hai eseguito un arresto, ieri», esordì fra un boccone e l’altro.

Gli era rimasto solo il caffè e adocchiava la mia ciambella, che per prudenza tirai dalla mia parte.

«Non vuoi fare a metà di quella?» suggerì lui.

«Credo proprio di no», replicai. «Come hai saputo dell’arresto?»

«Chiacchiere di spogliatoio. Sei sulla bocca di tutti in questo momento. I ragazzi scommettono su quando ti farai scopare da Morelli.»

Mi si contrasse il cuore così forte che temetti mi schizzassero gli occhi fuori dalle orbite. Fissai Gazarra per un minuto intero, aspettando che la pressione sanguigna tornasse normale e temendo che i capillari esplodessero in tutto il corpo.

«Come lo sapranno, quando mi scopa?» domandai a denti stretti. «Forse mi ha già scopato. Forse lo facciamo due volte al giorno.»

«Loro pensano che rinuncerai al caso, quando ti farai scopare. In realtà scommettono su quando abbandonerai il caso.»

«E tu partecipi alle scommesse?» volli sapere.

«No. Morelli ti ha incastrata quando eri alle scuole superiori. Non credo che ti farai incastrare una seconda volta.»

«Che cosa ne sai tu di quella storia delle superiori?»

«Tutti lo sanno.»

«Gesù.» Inghiottii l’ultimo boccone della mia ultima ciambella e la mandai giù con il caffè.

Eddie sospirò mentre osservava il resto del dolce sparire nella mia bocca. «Tua cugina, la regina delle bisbetiche, mi tiene a dieta», spiegò. «Per il breakfast mi lascia prendere caffè decaffeinato, mezza tazza di cereali con un po’ di latte scremato e mezzo pompelmo.»

«Mi pare che non sia un’alimentazione adatta per un poliziotto», convenni.

«Supponiamo che mi sparino», ragionò Eddie, «e che abbia nello stomaco solo caffè decaffeinato e mezzo pompelmo. Credi che finirei al reparto di traumatologia?»

«Non come se avessi in corpo caffè e ciambelle.»

«Maledettamente giusto.»

«Quel rotolo di grasso che sporge sopra la cintura probabilmente serve a fermare i proiettili», osservai.

Eddie scolò la tazza del caffè e la gettò nel sacchetto vuoto. «Non l’avresti detto se non fossi arrabbiata per la storia delle scommesse.»

Ne convenni. «È stato crudele.»

Lui prese un tovagliolo e spolverò lo zucchero dalla camicia azzurra. Una delle cose che aveva imparato all’accademia, pensai. Tornò a sedersi con le braccia conserte. Gazarra era alto un metro e settantacinque, tarchiato. I suoi lineamenti tradivano l’origine slava; aveva occhi blu, chiari e inespressivi, capelli biondissimi e il naso corto e largo. Quando eravamo ragazzi abitava due case dopo la mia, i suoi genitori vivevano tuttora là. Per tutta la vita aveva desiderato di diventare un poliziotto. Ora che indossava una divisa, non aveva nessun desiderio di fare carriera. Gli piaceva guidare l’auto, rispondere alle chiamate d’emergenza, arrivare per primo sulla scena del delitto. Era bravo a confortare la gente. Era simpatico a tutti, con la sola possibile eccezione di sua moglie.

«Ho qualche informazione per te», annunciò Eddie. «Sono andato da Pino’s l’altra sera a bere una birra e ho incontrato Gus Dembrowsky. Gus è il PC che lavora al caso Kulesza.»

«Che cos’è un PC?» m’informai.

«Un detective in borghese.»

La notizia mi fece drizzare sulla sedia. «Ti ha detto qualcosa a proposito di Morelli?»

«Ha confermato che la Sanchez era un’informatrice della polizia. Dembrowsky si è lasciato sfuggire che Morelli aveva una scheda della donna. I nomi degli informatori sono tenuti segreti. Il supervisore di controllo tiene tutte le schede in un archivio chiuso a chiave. Suppongo che in questo caso la notizia sia trapelata per lo svolgimento delle indagini.»

«Perciò la faccenda è più complicata di quanto potrebbe sembrare. Può darsi che l’omicidio sia collegato a qualcosa su cui Morelli stava lavorando.»

«Potrebbe essere. Come può darsi che Morelli avesse un interesse sentimentale per la Sanchez. Mi risulta che fosse giovane e carina. Il tipo latino.»

«Lei è ancora latitante.»

«Già. Il dipartimento è risalito a certi parenti a Staten Island, ma nessuno l’ha vista.»

«Ieri ho parlato con i vicini della donna; ho saputo che uno degli inquilini, che ricordava di aver visto il presunto testimone di Morelli, è morto improvvisamente.»

«Che genere di morte improvvisa?»

«È stato investito da un’auto pirata davanti all’edificio.»

«Potrebbe essere stato un incidente.»

«Vorrei crederlo.»

Eddie guardò l’orologio e si alzò. «Devo andare.»

«Un’ultima cosa. Conosci Mooch Morelli?»

«Lo vedo in giro qualche volta.»

«Sai che cosa fa o dove abita?»

«Lavora per la sanità. È una specie di ispettore. Abita a Hamilton. Connie deve avere i dati in ufficio. Se lui ha un telefono, sarà facile trovare l’indirizzo.»

«Grazie. E grazie per le ciambelle e il caffè.»

Eddie si fermò in corridoio. «Hai bisogno di soldi?»

«Me la cavo», risposi scuotendo la testa.

Lui mi abbracciò, mi baciò sulla guancia e se ne andò.

Chiusi la porta alle sue spalle e le lacrime mi inumidirono gli occhi. Qualche volta l’amicizia mi commuove. Tornai in soggiorno, raccolsi i sacchetti vuoti e i tovaglioli e andai a gettarli nel cestino in cucina. Questa era la prima occasione per passare in rassegna il mio appartamento. Morelli lo aveva setacciato a fondo e, per la rabbia di non trovare ciò che cercava, aveva lasciato un vero disastro. Le credenze erano spalancate, il contenuto sparso sul banco o sul pavimento; i libri rimossi dagli scaffali, il cuscino dell’unica sedia rimastami, era volato chissà dove. La camera da letto si presentava in un disordine incredibile, con gli abiti ammucchiati sul pavimento. Rimisi in ordine la cucina e decisi che il resto poteva aspettare.

Feci la doccia e indossai un paio di shorts da ciclista neri con una maglietta kaki di grossa taglia. Il mio equipaggiamento da bounty hunter era ancora sparso sul pavimento del bagno. Rimisi tutto nella grande borsa di pelle nera che mi gettai sulle spalle. Controllai che tutte le finestre fossero chiuse. Questo sarebbe diventato un rituale, mattina e sera. Detestavo l’idea di vivere come un animale in gabbia, ma non volevo altre sorprese. Chiudere la porta a chiave fu una questione di pura formalità, più che di sicurezza. Ranger aveva fatto saltare la serratura con facilità. Naturalmente non tutti erano in gamba come lui. Era anche più opportuno aggiungere un altro chiavistello a quelli già esistenti. Alla prima occasione ne avrei parlato con il custode.

Salutai Rex, raccolsi tutto il mio coraggio e misi la testa fuori dalla porta prima di avventurarmi nel corridoio, per assicurarmi che Ramirez non apparisse all’improvviso.

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